L’arte di costruire paesaggi sonori – Intervista ad Alèfe

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Quattro chiacchiere col multistrumentista e producer, fresco del suo debut da solista.

(di Filippo Duò)

Immergersi nel mondo sonoro di Alèfe è come fare un viaggio attorno al mondo, fra influenze sonore distantissime tra loro, suoni ambientali e synth vorticosi, con continue sorprese sempre dietro l’angolo. Queste atmosfere sono racchiuse nel suo primo disco da solista, Hidden Chamber, sintesi delle numerose esperienze da producer collezionate nel corso degli anni.

Alèfe, infatti, dopo aver collaborato con alcuni dei nomi più sperimentali della scena, da Mr Everett ai Tersø, ha deciso di esprimersi liberamente in un disco capace di contenere tutte le sue anime, facendo convivere con efficacia mondi elettronici e analogici, spaziando tra programmazioni e percussioni. Il risultato è una collezione di ricordi maturati in cinque anni tra progetti collaterali e home-studio in un ciclico trasloco, partito da Amsterdam e arrivato a Londra, sua attuale base. Hidden Chamber attraversa percorsi ossessivi in cavalcate di bassi alternati a distese oceaniche di sample vocali simili a canti di sirene, dando vita a loop ipnotici ed eleganti in cui le dieci tracce sono idealmente concatenate in una sorta di concept: la fuga dalla rigidità della convenzione elettronica, verso una nuova forma di polimorfismo sonoro.

Inoltre, l’artista nel corso del tempo è riuscito a portare in scena curiose commistioni artistiche, grazie alle sue performance immersive, strettamente legate all’ambiente circostante, che sia esso un luogo polifunzionale, un museo d’arte o la Cava del Sole di Matera.

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con lui per approfondire la sua visione artistica e creativa. Ecco cosa ci ha raccontato.

Ci racconteresti un po’ come hai maturato il tuo percorso da producer fino alla scelta di intraprendere un percorso solista e alla pubblicazione di un album?

Nel corso degli ultimi anni ho suonato e composto come membro di diverse band, principalmente Mr Everett e Tersø ma nel frattempo, sotterraneamente, ho collezionato per anni pezzi prodotti per conto mio sotto il moniker di Alèfe. Finalmente sono arrivato a un punto in cui posso dirmi soddisfatto di queste tracce e ho avuto modo di pubblicarli in forma di album.

Hai riscontrato particolari differenze nell’approcciarti a composizioni prettamente tue e totalmente personali?

Quando apro un progetto non sempre penso alla destinazione d’uso del pezzo, dove finirà o a cosa potrebbe servire. Il più delle volte ci vuole un po’ di tempo prima di capire per quale progetto tra quelli di cui faccio parte potrebbe funzionare meglio. Comporre per il mio progetto solista significa anche avere davvero la libertà di azzardare le cose più matte che magari altrimenti non sempre mi spingerei a fare.

Il sound è molto “nordico”, ma ci sono anche piacevoli incursioni percussive, calde e a tratti tribali. Come hai lavorato in fase di produzione e nella scelta dei suoni?

Sono una persona molto metodica, e vorrei poter dire che dietro questa decisione c’è stato un criterio, ma la realtà è che è stato del tutto casuale. Istintivo, più che altro. Parliamo comunque di un album composto nel corso di diversi anni e durante questo tempo è facile cambiare influenze, ascolti, preferenze musicali: questi elementi vengono poi frullati nella mia testa costantemente ed ogni pezzo finisce per essere irrimediabilmente il risultato degli input che ho ricevuto in un determinato periodo. Alcuni suoni comunque li ho registrati e processati, altri pescati nel dark side di YouTube.

Nello specifico, è molto affascinante il lavoro fatto sulle voci e sui suoni ambientali. Come ti sei approcciato in tal senso?

Per lavoro mi capita di registrare molti suoni in giro, sui set di documentari e film, e spesso e volentieri poi quelli più interessanti finiscono nei pezzi, vuoi come ambienti, vuoi come percussioni. In Sandstorm, ad esempio, c’è il fischio di un treno che registrai in una stazione mentre stavo lavorando, e per puro caso quando tornai a casa lo misi nel progetto che avevo aperto al tempo: mi sembrò perfetto e ci rimase. Le voci costituiscono invece il filo emozionale che sento necessario durante la composizione: le riconosciamo, ci permettono di connetterci al pezzo immediatamente, a livello emotivo. Mi diverto a tagliuzzarle e stravolgerle per fargli fare le melodie che sento nella testa, come se dirigessi un cantante vero e proprio.

Ascoltando i pezzi sembra quasi di osservare dei landscape sonori, i cui mood variano sensibilmente ma sempre con un filo conduttore che oserei definire cinematografico. Èstata una scelta volontaria?

Mi fa molto piacere che sia così evidente, è del tutto volontaria e naturale. Parte del mio lavoro è anche quello di “sound disegnare” i paesaggi sonori dei film, installazioni o performance a cui collaboro, dunque questo influenza un po’ anche la mia produzione musicale. Mi piace sempre pensare ai pezzi come a delle stanze da decorare e illuminare: la scelta di una determinata temperatura di colore corrisponde immancabilmente allo sguardo fotografico e a una determinata mise en scène cinematografica, il tutto tradotto in musica e suoni.

Quanto è importante per te, a tal proposito, la commistione con altre forme artistiche? Quanto queste ultime ti influenzano nel tuo lavoro?

Direi fondamentale. Sono sicuro ci sia un’influenza subconscia che nutre la musica di immagini e visioni: è cruciale alimentare questo archivio personale il più possibile per poter infondere la musica di vita e associargli un immaginario potente e chiaro. Sono un grande appassionato di grafica e lettering in particolare, credo che la collaborazione con il graphic artist Fatih Hardal per la grafica dell’album abbia davvero dato un quid in più per la comprensione del concept dietro Hidden Chamber. In più lo scatto di copertina ad opera di Giudi Green ha colto precisamente l’idea di camera nascosta come metafora del lato segreto del carattere, in questo caso il mio. La commistione quindi ha funzionato non solo nella fase di creazione ma anche in quella di fruizione.

Parlaci un po’ delle tue performance immersive, dimensione perfetta per far vivere i tuoi brani. Come sono nate e in seguito sviluppate?

La mia prima performance immersiva si è tenuta l’anno scorso ne La Capsula di BASE, a Milano. Una struttura progettata per ospitare 64 speaker e 4 subwoofer che ricoprono ogni muro e angolo della sala e in cui si possono distribuire i suoni nello spazio a proprio piacimento. Ho partecipato alla call in cui il team di BASE invitava artisti a proporre il proprio progetto per eseguirlo in quegli spazi, ed è lì che è nata la “Soundbath Experience”: una live performance del mio set ripensato per avvolgere il pubblico come in una sorta di trance meditativa quasi nel totale buio, illuminato solo da una strobo al centro della sala. Come artista è stata un’esperienza davvero unica, una performance immersiva site-specific che spero di replicare in futuro in altri spazi simili.

La scena elettronica italiana è sempre più vivace e internazionale, come valuti questo crescente fermento artistico?

Ascolto da sempre artisti da tutto il mondo, non vedo quindi perché non includere anche quelli italiani, che sono sempre contento di poter difendere in qualsiasi discussione musicale. Credo che nomi come Clap! Clap!, Lorenzo Senni, Populous, Capibara e Godblesscomputers siano degli artisti capaci non solo di concorrere ma anche guidare il mercato musicale internazionale.

Immaginiamo che non sia facile promuovere un disco d’esordio in un periodo come questo, come stai vivendo la particolare situazione?

Credo non sia davvero facile far nulla in un periodo come questo, inedito per tutti. Non sappiamo davvero come le persone stiano trascorrendo il tempo al di là delle storie vuote di Instagram e i post indignati di Facebook. Temo che ci sia meno attenzione per le nuove uscite da parte di quelli che hanno sempre vissuto la fruizione musicale in modo superficiale ma, in fondo, questa non è poi una novità. Sono contento di essere arrivato alle orecchie più attente di quelli che invece continuano ad ascoltare criticamente, con cui simpatizzo, e che vivono come me la musica come necessità quotidiana.

Per salutarci, avresti degli ascolti di riferimento che ti hanno fortemente segnato nel corso della tua vita e che ti sentiresti di condividere con noi?

Assolutamente. Nei miei “essential albums” ci sono sicuramente Medùlla di Björk, Until the Quiet Comes di Flying Lotus, Neō Wax Bloom di Iglooghost e – sorpresa – Asile’s World di Elisa (si, proprio lei).

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Last modified: 6 Giugno 2020