Ebbene sì, lo ammetto: sono un seguace (laico) del tempio de L’Officina della Camomilla da quando suonavano coi giocattoli nei sotterranei dei Navigli. In genere non riesco a innamorarmi del lo-fi, di questo aleggiante scazzo perenne come asse portante dell’arte e della vita, ma di Francesco De Leo i miei occhi (tutti e tre) hanno sempre visto con tenerezza il lato letterario, la lunaticità espressiva, l’assurdità avanguardistica degli esiti da quasi-cut-up dei suoi esperimenti di paroliere.
(foto di Eleonora Zanotti)
Negli anni, però, le distanze tra me e le loro opere sono significativamente aumentate, con la piccola eccezione del pregevole Palazzina Liberty uscito l’anno scorso (qui la recensione).
Vado dunque all’Ohibò di Milano per il gran finale del loro mini tour acustico con molta curiosità: in primis per scoprire com’è la loro versione acustica, adesso che da qualche anno girano con più chitarre elettriche e meno nuances; e poi perché non li vedo dal vivo da anni e voglio sbirciare la gente che li ascolta, sentire come si sposano pezzi vecchi e nuovi nella scaletta, e capire quanto è rimasto oggi di quell’anarco-punk urbano ma surreale, giocoso ma capriccioso, colorato e cattivo come un bambino che anni fa mi era rimasto incollato alle orecchie come un vecchio chewing gum.
Tralasciando, con pietà eutanasica, il breve scampolo di set de The Cat and the Fishbowl che mi tocca sopportare appena arrivato, all’entrata in scena dei camomilli mi accorgo di essere inquieto. Sarà il pubblico, che come sempre più spesso accade è esagitato e chiacchierone, lì per esserci più che per ascoltare. Sarò io, che ormai mi sto facendo vecchio. Però la sensazione rimane, e quando attaccano e vedo l’Ohibò impallato per tre tizi seduti che suonano malaccio un set piatto e “mollo”, come direbbe qualcuno, con drum machine fintissime e stonature un pelo troppo frequenti, io mi deprimo.
Il concerto parte appunto con voce+chitarra, tastiere, drum machine e… chitarre elettriche, maledizione. Un acustico poco acustico. Ma non importa, i pezzi ci sono: una bella selezione che parte dai tempi d’oro, passa per i dischi con Garrincha e, attraversato l’ultimo album, arriva fino all’ultimo inedito “Mademoiselle Burqa”, senza farci mancare una cover di “Charlie fa surf” dei Baustelle. Ciò nonostante il live però fatica a decollare: tutto suona privo di dinamica, dritto e senza sfumature, e De Leo, meno infuocato di come me lo ricordo nei tempi andati (ma può essere anche un bene, intendiamoci), lascia scivolare la voce qui e là, in tono dimesso. È un peccato, perché io credo (potrei sbagliarmi) che lui abbia una bella voce, particolare quanto volete ma capace di una sua traballante, apparentemente ingenua levità (“Senontipiacefalostesso” mi è piaciuta molto, per dire).
La situazione migliora con l’arrivo sul palco di basso e percussioni, che rendono tutto un po’ più fluido e tridimensionale. Il pubblico è carico. Anche col telefono in mano. Si muove, risponde, canta diversi pezzi a memoria. Io pure mi lascio scappare uno scatteremo polaroid pop / a tutti gli studenti morti nel falò, verso che trovo misteriosamente bellissimo – anche se è stato definito da alcuni uno dei peggiori versi dell’indie italiano.
Rimane il fatto che la resa continua a non essere delle migliori, e mi sorprendo del pressapochismo di certe esecuzioni. Intendiamoci (vorrei essere chiaro su questo punto): non vi sta parlando un riccardone alla ricerca della perfezione; vi parla un appassionato di musica a cui piacerebbe sentire concerti fatti al meglio delle possibilità di chi suona, nel rispetto della creatività e dell’originalità di ognuno, com’è ovvio. La mia domanda è: per fare L’officina della camomilla bisogna per forza fare le cose un po’ come vengono? O le loro canzoni si meriterebbero forse un’attenzione maggiore, una maggiore cura?
La risposta, probabilmente, è nelle facce della gente che mi sta intorno, nei sorrisi brilli delle ragazze, nei cellulari alzati a fare foto dei ragazzi che le accompagnano. NON GLIENE FREGA UN CAZZO A NESSUNO. De Leo potrebbe alzarsi e cantare su basi di plasticaccia mentre s’infila roba nel culo e andrebbe bene lo stesso: anzi, in una story su Instagram forse funzionerebbe di più.
Risultato, nella mia modesta opinione? Un concerto bruttino, dove le canzoni c’erano ma mancava il resto. Esecuzioni piatte, voce traballante, solito scazzo onnipresente. D’altronde, perché fare di più? Per accontentare me? Il pubblico, salito in massa alla fine del concerto sul palco a cantare SIAMO PIENI DI DROGAAA (da “La tua ragazza non ascolta i Beat Happening” – canzone che, esaurito il suo blando valore liberatorio, è certamente la più inutile della serata), sembrava contento. E questo, evidentemente, basta.
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Last modified: 22 Febbraio 2019