Pensieri sparsi e del tutto personali su un artista dalle mille vite, musicali e non.
Mi si perdoni il titolo citazionista e un po’ retorico, ma ho sempre trovato arduo dare etichette a quello che provo a scribacchiare, e stavolta lo sarebbe stato anche più del solito. E confesso anche che la celebre frase presa in prestito da Max Collini è la stessa che mi è venuta in mente quando mi sono reso conto che, appena avuta l’ufficialità della triste notizia, la mia timeline di Twitter è stata invasa da decine e decine di tweet sull’argomento, e scorrerla durante la serata è stato come compiere un gesto catartico, una prima, impulsiva forma di accettazione del dolore e di condivisione del ricordo.
Mark Lanegan è morto a 57 anni, ma l’età anagrafica in questo caso è un mero orpello numerico perché, per produzione artistica e passato personale, di vite ne ha vissute a decine, molte delle quali a dir poco tormentate.
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La grandezza della sua musica sta tutta nella risposta che ti daresti alla domanda “E adesso cosa mi ascolto di Lanegan?”. Lui da solista? Gli Screaming Trees? I Queens of the Stone Age? I Gutter Twins insieme all’amico di sempre Greg Dulli? I dischi con Isobel Campbell? Quelli con Duke Garwood? I Soulsavers? Non esiste una risposta, dal momento che sono tutte ugualmente valide: semplicemente non sapresti da dove iniziare, perché in effetti solo adesso ti stai rendendo conto di quanto sia stato un artista incredibilmente trasversale e universale, un musicista che direttamente o meno ha spesso influito sui tuoi ascolti, un personaggio con cui da amante della musica era quasi impossibile non entrare in contatto, presto o tardi.
Che Mark fosse un personaggio insondabile e complesso lo intuivi già vedendolo dal vivo: ciondolante, oscuro, impenetrabile, apparentemente più morto che vivo, con quegli occhi abissali e inespressivi. Appena però ne ascoltavi la voce, comprendevi subito di essere al cospetto di un essere umano per certi versi irripetibile, tremendamente affascinante, che è riuscito come pochi altri a sopravvivere al proprio dolore e a raccontare con invidiabile sincerità i propri fantasmi attraverso la sua arte (non solo musicale, si veda anche la recente autobiografia).
E poi ci sono i ricordi personali, quelli che ti legano irrimediabilmente ad un artista e che, quando vivi la musica in maniera viscerale, tendono a non andarsene mai: quel Whiskey for the Holy Ghost ascoltato quasi per caso in un giorno di Pasqua di chissà quanti anni fa e la cui riproposizione in quel particolare giorno è ormai diventato un rito spirituale e irrinunciabile, quel CD dello stesso disco comprato in una indimenticabile vacanza a Praga, quell’autografo rubato dopo un afoso concerto romano tenutosi in un improbabile sambodromo.
Come diceva Camus, la memoria è esigente, e dopotutto è anche per ricordare che viviamo, no?
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Ripercorrere in maniera esaustiva le svariate fasi che hanno contraddistinto la carriera artistica di Mark Lanegan richiederebbe capacità che probabilmente non mi appartengono, per questo mi sono limitato a mettere a punto una playlist che ha l’umilissimo intento di dare le coordinate minime per muoversi attraverso una discografia non semplice da esplorare per chi non è avvezzo alla materia.
Ciao, Mark. Gli alberi non urlano più, ma la tua voce ruggisce e seduce ancora. E continuerà a farlo.
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Last modified: 4 Aprile 2022