Dissonante e rumoroso, folle e violento, il debutto della band di Manchester suona più o meno come la fine del mondo
[ 19.05.2023 | post-industrial, noise rock | Fire Talk ]
Hanno sempre un certo fascino carico di mistero quei dischi che, prima ancora di essere ascoltati, incuriosiscono e si prestano ad essere analizzati a partire dalla copertina.
L’artwork di i’ve seen a way, debutto su LP dei Mandy, Indiana, non passa sicuramente inosservato. Un angusto passaggio, che potrebbe sembrare l’uscita da un labirinto, illuminato da un fascio di luce così preciso e geometrico da risultare artefatto ed innaturale; uno scenario da videogioco, un misto fra cyberpunk e fantascienza.
Effettivamente la traccia d’apertura dell’album, Love Theme (4K WHS), sembra rappresentare alla perfezione questa immagine: seducenti sintetizzatori e un’atmosfera fluida a metà fra Phaedra dei Tangerine Dream e la colonna sonora di Crimes of the Future di David Cronenberg sembrano condurci per mano verso un mondo surreale, per poi spingerci imprevedibilmente sott’acqua in un abisso profondo.
I suoni si fanno ovattati, si trasformano in rumori, passano in secondo piano e si fanno sottofondo: è l’inizio, sì, ma della fine.
I Mandy, Indiana sembrano voler dimostrare che nella musica esistono ancora innumerevoli territori inesplorati. Lo fanno in maniera ipnotica e terrificante, quasi impenetrabile ma al tempo stesso estremamente godibile e ballabile. Confondono e destabilizzano con suoni al confine fra realtà e allucinazione uditiva.
La band, di stanza a Manchester, gioca e sperimenta con il suo mix di noise corrosivo, ritmi dance e techno, beat assillanti, synth impazziti e una dose di sana, cieca violenza. Una formula già nota a formazioni come Gilla Band, Model/Actriz e Death Grips, ma rivisitata in una forma ancor più inedita e sorprendente.
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Al comando c’è una giovane donna, la parigina Valentine Caulfield, che scrive e canta in francese. E se ciò non fosse sufficiente ad alimentare la curiosità, basti soltanto sapere che il mix è stato affidato a Robin Stewart (Giant Swan) e Daniel Fox, bassista dei già citati Gilla Band, che ultimamente sembra non sbagliare un colpo.
Da uno spazio virtuale, quasi rassicurante, ad un’orribile realtà rozza e crudele: è qui che ci trascina Valentine Caulfield in Drag [Crashed], secondo brano dell’album, enumerando e denunciando in un crescendo sempre più rabbioso una serie di insulti e stereotipi misogini.
“Souris, souris, souris, souris / C’est plus jolie une fille qui sourit”, ovvero, “sorridi, sorridi, sorridi, sorridi / È più carina una ragazza che sorride”. Un mantra malato ripetuto ossessivamente su una base degna di un rave party all’inferno.
Anche in Pinking Shears non mancano toni pesanti e carichi di rancore verso un mondo che sembra girare al contrario. “Un mondo di merda”, citando testualmente, che agisce in nome dell’odio e della disuguaglianza e lascia morire vite umane innocenti nel Mar Mediterraneo. Le rasoiate chitarristiche di Scott Fair accompagnano un impetuoso spoken word che sputa veleno sulle ingiustizie e sul perenne senso di frustrazione che si prova vivendo in una società che non rispecchia più i propri ideali.
Injury Detail porta ancor più all’estremo – se possibile – la sensazione di disorientamento e disagio provata finora: fra glitch, percussioni martellanti e una confusione insostenibile, la voce si trasforma in una sorta di annuncio da metropolitana e impartisce ordini come in una rigida esercitazione militare alla quale è impossibile sottrarsi.
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Mosaick potrebbe essere considerata a tutti gli effetti la sorella gemella di Capgras dei Gilla Band: un interludio breve ed impossibile da interpretare, la trascrizione in musica di un incubo notturno.
Le atmosfere ipnotiche della successiva The Driving Rain (18) preparano il terreno a 2 Stripe, una delle tracce più riuscite dell’intera opera. Un beat che sembra rubato ad un album dei Massive Attack vira decisamente verso un inatteso trip hop a tinte horror, arricchito di elementi noise e industrial.
La chitarra distorta di Iron Maiden – che nulla ha a che fare con la celeberrima band heavy metal – intona una cantilena sferragliante e lamentosa, inno perfetto per un mondo distopico e perverso, qualche attimo prima di ricondurci nuovamente nelle atmosfere folli da boiler room di Peach Fuzz. Se un brano potesse avere un tasso alcolico, sicuramente quest’ultima andrebbe bevuta con moderazione.
La chiusura è affidata in grande stile a Sensitivity Training: una marcia pomposa e solenne che ricorda vagamente i pezzi più militareschi dei Preoccupations. Forse un ultimo, flebile barlume di speranza in una rivoluzione che possa sensibilizzare le coscienze e invertire il destino di un futuro che appare sempre meno luminoso.
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Dopotutto è esattamente di questo che si tratta. Sappiamo che la musica non potrà mai cambiare radicalmente le nostre esistenze. Ci piace però pensare che sia in grado, ogni tanto, di muovere un piccolo frammento all’interno di tutti noi che ne usufruiamo, ne parliamo, la viviamo come l’aria che respiriamo ogni giorno, ma soprattutto la consideriamo il nostro personale e confortante rifugio in un mondo che va irrimediabilmente a rotoli.
Del resto, come diceva il maestro della catastrofe J.G. Ballard, “nella zona del disastro ciascuno di noi c’è già ed è troppo tardi per uscirne”.
E, arrivati a questo punto, se proprio deve finire, auguriamoci quantomeno che la fine ci sorprenda mentre balliamo.
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Last modified: 13 Dicembre 2023