Se di nuova strada si tratta, forse è quella giusta.
[ 27.11.2020 | RCA | pop rock ]
Ce ne ha messi tanti di anni ed ha provato in tutti i modi ma forse, finalmente, Miley Cyrus è riuscita definitivamente a togliersi di dosso il fantasma della regina dei teenager che poco ha a che fare con la musica. Quella che “ma chi è, Hanna Montana?” e quindi non prendiamola sul serio.
Fermi tutti, non sto dicendo che Plastic Hearts sia un gran disco – questa è una cosa che vedremo tra poco – ma è finalmente un album che anche uno come me può ascoltare per cercare di ricavarne qualcosa, mentre prima bastava poco, un po’ di sano pregiudizio, per lasciar perdere.
Passiamo allora al full length. Copertina in stile anni Ottanta, estetica miscela di cafonata e ostentazione e qualche featuring che riassume il senso di questo disco: Dua Lipa, tra le migliori interpreti del pop moderno, Billy Idol e Joan Jett & The Blackhearts a rimarcare la volontà dell’autrice di rifarsi al decennio più pop e plastico, appunto, come suggerito dal titolo.
Un disco per lo più synth pop, in cui la Cyrus sembra buttarsi con una maggiore passione rispetto a quanto mi ha fatto ascoltare in precedenza e tanto glam ad avvolgere le canzoni che diventano la colonna sonora perfetta di una festa in piscina che non debba trasformarsi in un delirio reggaeton. Un disco in cui Miley sembra voler provare a fare qualcosa di diverso e non mancano momenti in cui le parti strumentali combinate con le melodie (lasciamo stare i testi) riescono a creare qualcosa di molto interessante, considerando sempre che di pop commerciale stiamo parlando, ma alla fine le sensazioni vengono sistematicamente distrutte dalla dura realtà.
La riprova dell’occasione persa e del coraggio mostrato solo a metà sono proprio i featuring, specie Night Crawling, in cui la Cyrus sfrutta molto più il nome che non l’esperienza del punk più pop degli Ottanta e Novanta.
Una delle poche cose positive è che almeno Miley Cyrus sembra tornata a dare un senso alle dichiarazioni in cui citava Elvis Presley tra le sue influenze, abbandonando un mondo in cui rasentava il ridicolo (quello della trap, del twerking, del nulla) e, tutto sommato, ha messo in piedi un disco pop con influenze rock, che sfrutta la moda del ritorno degli Ottanta senza caricaturarne la memoria, coverizzando classici imponenti come Heart of Glass o Zombie senza la paura di mostrare la sua vocalità aggressiva, rabbiosa e graffiante, in contrasto con le originali.
Un album che prende a prestito dalla new wave, dal grunge, dal pop punk senza arroganza ma anche senza timore, che si compone di canzoni ben costruite, lontanissime dall’essere memorabili capolavori, ma che, ricordando che si parla di musica commerciale, non fanno troppi danni tanto da richiedere un necessario massacro critico, e anzi, vi dirò: la sua voce è decisamente affascinante in questa chiave più rock.
Per concludere, belle le cover, cui Miley Cyrus si è prestata in maniera corretta, senza stravolgere e senza rivisitare con troppe modifiche, cosa che non le sarebbe servita e forse non sarebbe neanche riuscita a fare con convinzione. Ci ha mostrato la sua voce, sfruttando il potenziale di alcuni brani immortali per provare ad esaltare il suo, di potenziale. Un applauso alla scelta di tornare al passato e quindi al tentativo di ricostruire il suo ruolo di cantante pop partendo dalle radici.
Purtroppo, assolutamente da rivedere la scrittura e i brani, i quali somigliano ad un veloce esercizio di stile con scopiazzate al passato, meno personalità della sua interprete, una sorta di prodotto da catena di montaggio musicale in cui la Cyrus ha il solo ruolo di venditrice, anche se brava. Non condivisibile neanche l’utilizzo dei featuring fatto in questa maniera e la scelta di strizzare l’occhio agli Ottanta ha davvero rotto il cazzo, anche se qui c’è una discrezione maggiore rispetto ad alcuni colleghi italiani.
Un prodotto che rischia di far incazzare i critici feroci del mondo pop mainstream e di non entusiasmare neanche i suoi più affezionati ascoltatori. Tutto rientra nel discorso sul coraggio: qui ci si ferma a metà e il coraggio a metà può trasformarsi in una caduta nel vuoto.
Io, da non fan, da non amante del pop commerciale, posso solo essere ottimista e credere che questo Plastic Hearts, nonostante la confusione stilistica non voluta e la mediocrità artistica, possa essere la base di una nuova, rinnovata e più interessante carriera per Destiny Hope Cyrus. Carriera che continuerò a non seguire, perché alla lunga, se dovessi dare un giudizio al disco tralasciando le tante parole scritte, non sarebbe certo lusinghiero, ma carriera in cui magari finirò per imbattermi di nuovo (come accaduto in passato, per colpa del feat col mio amato Ariel Pink), e allora meglio canzoni come queste che le merdate di qualche anno fa.
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Last modified: 21 Dicembre 2020