Mito, ascesa e futuro dei Black Country, New Road

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È sul gradino più alto del podio della nostra classifica: torniamo a parlare di Ants From Up There.

Sebbene sia facile fare dietrologia a fine anno, non sarebbe sbagliatissimo dire che, tra alti e bassi, il 2022 è stato l’anno dei Black Country, New Road. Per il collettivo inglese, gli ultimi dieci mesi sono equivalsi a diverse ere geologiche, a partire dall’annuncio del loro secondo disco. Sembrano passati anni dalla recensione scritta da Silvio a ridosso dell’uscita.

Il contesto è più o meno questo: i BCNR spuntano un po’ dal nulla dalla scena underground londinese, prima con qualche singolo e poi col debutto For the First Time, un lavoro folk, post-rock, sperimentale e spesso annoverato un po’ a caso nella scena post-punk inglese. Il debutto aveva destato attenzione, storto qualche naso e sollevato domande: geniali o pretenziosi? Eccesso di forma rispetto ai contenuti? E i testi di Isaac Wood: idiosincratici e suggestivi o citazionisti per sport?

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Ammetto che l’esordio non aveva convinto nemmeno me, eppure sono qui a parlare di Ants from Up There a nome dell’intera redazione perché è in cima alla nostra classifica dei dischi del 2022. Cosa è cambiato, quindi?

È difficile separare l’uscita di Ants From Up There dalla dipartita del cantautore Isaac Wood. A giorni dall’uscita del disco, circondato dall’hype di singoli e vari live che promettono una nuova maturità, a tour pianificato, Isaac annuncia di voler lasciare la band per prendersi cura della sua salute mentale. Il resto della band – essendo un collettivo – continuerà a suonare senza di lui. La traiettoria del disco cambia. I Black Country, New Road entrano così un po’ nel mito: chi era presente a quegli ultimi live ne custodisce gelosamente il ricordo, e i testi del sophomore vengono riletti con nuove chiavi, secondo cui l’addio era forse già preannunciato. Il pubblico si trova di fronte a un disco che non avrà successori, e l’ascolto si trasforma in una specie di privilegio irripetibile.

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Ants from Up There non è solo mito, però. Dietro agli arrangiamenti orchestrali, i crescendo e le dinamiche quiet-loud c’è una disperazione latente mascherata con analogie storiche, militari, quotidiane che si lasciano sfogliare una alla volta ma che non hanno bisogno di riletture per creare scenari e sensazioni condivisibili. È così che la penna tagliente e autodistruttiva di Wood dà identità al collettivo, e non c’è bisogno nemmeno di conoscerne tutti i riferimenti e le autocitazioni per sentirne l’impatto e assimilarne il messaggio a modo proprio. La voce di Wood è imprecisa, tormentata, cosa che invece che contrapporsi alla lucidità del resto della band la rende vitale e umana, leggibile finalmente nel contenuto insieme alla forma.

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Passa qualche mese, e al Primavera Sound di Barcellona il mio ragazzo mi chiede che genere fa questa band che stiamo per andare a vedere. Silenzio. “Tipo Los Campesinos! con un po’ di Slint”. [Che poi la somiglianza con Los Campesinos era il motivo per cui non li ho amati da subito: un collettivo inglese a più voci, con testi disarmanti travestiti da melodie canticchiabili, metafore tra il serio e il triviale e un frontman che canta come se fosse sotto tortura? Check.] La mia risposta lo lascia confuso prima e ancora più confuso dopo il concerto.

C’è molta attesa per una band che non ha più un frontman e che ha promesso di suonare solo pezzi inediti. Il live è irrecensibile: la quantità di gente che va via dopo due pezzi o – peggio – parla per tutto il set lo rende completamente ingodibile. È una mancanza di rispetto verso una band che ha fatto la scelta meno facile.

Eppure è vero che qualcosa manca: come alcuni di noi notano ad un live a Brighton, “loro sono molto bravi, ma senza Isaac sembra un po’ il saggio della scuola”. Non so se sono completamente d’accordo, ma sicuramente non somigliano più a quel che erano; ci sono pezzi migliori di altri, oltre a un problema di fondo che la band dovrà affrontare: la voce di Isaac era il collante dei BCNR e, sebbene la sua assenza possa trasformarsi in opportunità, c’è ancora del lavoro da fare per ridefinire la nuova identità della band. Per ora sembrano ancora scontornati; mancano gli spigoli affilati bene con Ants from Up There.

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È anche vero che ogni membro del collettivo ha una sua personalità e quasi tutti hanno già lavorato su altri progetti, come dimostra l’ultimo lavoro di Georgia Ellery coi Jockstrap, I Love You Jennifer B, ma rimane il quesito sul futuro dei Black Country, New Road, che sicuramente non ritroveremo mai più nella stessa forma.

E forse questo disco non avrebbe avuto lo stesso impatto se non fosse successo quel che è successo. Ma parte del mito che si è creato attorno ad Ants from Up There viene proprio dal percorso racchiuso all’interno di un’opera singola ed irripetibile, di cui siamo riusciti ad essere parte per un piccolo lasso di tempo, che abbiamo fatto nostra e condiviso con gli altri raccontandone la storia che c’è dietro.

Per noi di Rockambula Ants from Up There è stato, oltre a questo, un punto di ritrovo su una piattaforma virtuale, il cardine di concerti passati insieme. Il nostro disco dell’anno.

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Last modified: 25 Gennaio 2023