È bello quando capitano album come questo 20 dei Morod, perché puoi smontare tutti i preconcetti sulla nascita di un giudizio in seguito all’ascolto. Perché non è vero che se un genere non ti piace di sicuro casserai il disco che hai ricevuto e, viceversa, se ti arriva un prodotto perfettamente congruo coi tuoi gusti musicali non è scontato che tu ne abbia un’opinione positiva.
I Morod, pochissime, ma bastevoli, informazioni sulla loro pagina web, sono un trio sardo che muove i primi passi alla fine degli anni ’90. Non proprio dei ragazzini e non proprio dei musicisti di primo pelo. 20, pubblicato ad agosto di quest’anno, è degno figlio di quegli anni: un grunge sanguigno e spontaneo, che sembra non aver conosciuto niente delle varie famiglie di post-qualcosa anni 2000 che hanno riempito le riviste di nuovi termini assurdi e ambigui per definire generi ibridi.
My heart ha le atmosfere di Jar of flies degli Alice in chains, mentre Sickness richiama molto di più i Nirvana. Sei acceso è la mosca bianca dell’album: non ha un testo in inglese come tutte le altre tracce, tanto per iniziare, e la voce è impostata in una maniera differente, molto meno grunge americano e molto più alternative rock nostrano (un po’ alla Valvonauta dei Verdena, per capirci); in generale si porta dietro una sensazione ambivalente di adeguatezza al contesto e completa estraneità. La title-track, 20, sembra arrivata direttamente dall’MTV Unplugged in New York dei Nirvana, come fosse un’improvvisazione derivata da Jesus don’t want me for a sunbeam dei The Vaselines. Il grunge è una faccenda serissima per la sottoscritta. È il mio genere preferito (c’è tutto lì dentro, dalla rabbia alla melodia, dai riff graffianti e sanguigni ai power chords con la loro buona dose di istintiva ignoranza armonica).
Il trio sardo avrebbe potuto godere di un occhio di riguardo per questo.
E invece no.
I Morod potevano fermarsi qui, alla loro quarta traccia, marcare a grandi linee ispirazioni e sonorità e lasciare che l’ascoltatore fosse incuriosito e speranzoso di vederli suonare dal vivo.
Preferiscono, di contro, incidere altrettanti brani, uno più già sentito dell’altro, ognuno più copia delle copie delle copie. Il sound è sempre lo stesso (si sentono anche i primi Soundgarden, soprattutto in certe schitarrate quasi in palm muting), la verve si indebolisce, la gamma di emozioni si infiacchisce e l’album perde completamente di energia. Dopo i primi secondi di Shattered myself, la quinta canzone, mi sono resa conto che non stavo più ascoltando. D’istinto avrei tolto il cd dal lettore e basta, ma mi sono forzata di andare fino in fondo. E va bene Tired guarda un po’ più agli Stone Temple Pilots forse, ma non per questo i Morod sembrano metterci qualcosa di loro. Così come The truth e I’m losing in Uk strizzano l’occhio ai Nirvana, più quelli di In utero, ok, ma pur sempre loro, con qualche spruzzatina nello stile di quell’anima bella di Layne Staley e soci.
I Morod, insomma, hanno imparato così bene la lezione anni ’90 del sound di Seattle che farebbero scintille come tribute band.
Last modified: 31 Ottobre 2012