Music to an Interior Film: la notte incantata alla scoperta di Perdition City degli Ulver

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Venticinque anni fa usciva l’album che segnava il netto distacco tra il mondo musicale pre e post-Duemila dei norvegesi Ulver. 
[26.03.2000 | Jester | elettronica, trip hop, dark jazz, ambient] 

C’era una volta un Lupo proveniente dalla glaciale Oslo, venuto alla luce tra le foreste più scure e selvagge, cresciuto in mezzo ad un branco a cui sentiva di non appartenere fino in fondo, allontanandosi e piantando nel tempo le proprie radici in territori meno definiti, al chiarore di una luna che sembrava voler seguire passo dopo passo le tracce lasciate dall’animale, come a fiutarne le mosse successive, senza però riuscire ad afferrarle.

Sono gli Ulver a celarsi dietro le vesti di questo Lupo forte e coraggioso, attraverso un viaggio in direzione opposta e contraria a quello che il pubblico stava aspettando. Un gruppo di ragazzini appena sedicenni, capitanato da Kristoffer Rygg, imbraccia strumenti e microfoni scegliendo di scatenare l’Inferno in terra, in un susseguirsi di sferzate apocalittiche e blast beat spietati, dando così vita ad un trittico essenziale a tutti i fan di un black metal che di black – ad un orecchio concentrato – continua, tuttora, ad averci ben poco a che fare.

La trilogia metal degli Ulver è composta dalle atmosfere folkloristiche di Bergtatt (1995), dalle immagini evocative e romantiche di Kveldssanger (1996) e dalla furia nuda e cruda di Nattens Madrigal (1997). Tre dischi diversissimi tra loro, il cui unico comun denominatore è forse proprio il distacco.

Distacco dalla chiusura mentale di gran parte dei colleghi di metà anni Novanta che ritenevano il black metal fosse corpse paint, chiese in fiamme e riti satanici.
No, gli Ulver non sono mai stati tutto questo: hanno sempre guardato avanti, anche laddove si chiedeva di farlo indietro. Avanti, verso un futuro incerto che sa di speranza e fragilità, in un mondo che si affaccia al nuovo millennio in maniera sempre più brutalmente asettica.

Kristoffer Rygg
“Cuffie e buio raccomandati”.

Siamo tra la fine del 1999 e l’inizio del 2000 e la band norvegese ha già cambiato i toni del proprio mandato universale, spingendo su microclimi sempre più avanguardistici. Non ci si esibisce dal vivo: il lavoro in studio supera la dimensione live. Sia fuori che dentro lo studio ci si addentra in territori inesplorati e si inizia a sperimentare con tastiere e sintetizzatori, venendo a conoscenza di nuovi spazi in cui l’acqua scorre più fresca e rigenerante che mai.

L’ormai duo composto dal fondatore Kristoffer Rygg e dal tastierista, produttore e compositore Tore Ylvisaker – anima pulsante della band dal 1998 fino al 2024, anno della sua terribile scomparsa – si innamora di tutto ciò che ha a che fare con Warp Records (Aphex Twin, Boards of Canada, Autechre), tendendo l’orecchio ai lavori del dj brasiliano Amon Tobin che tra il 1997 e il 1998 pubblicava due ricchissimi dischi per gli amanti di Intelligent Dance Music, nu jazz, trip hop e drum and bass.

C’è poi un duo che folgora Rygg come un’inaspettata tempesta ghiacciata in un mattino settembrino pieno di luce, quello composto da Geoffrey Laurence Burton in arte John Balance e Peter Christopherson. Un giorno Rygg riceve in regalo dal suo collega e amico Jorn H. Svaeren un nastro contenente da un lato la colonna sonora di Suspiria dei Goblin, dall’altro la registrazione di una trasmissione radiofonica che aveva come sigla introduttiva qualcosa di assai macabro e terrificante.

 Il mondo dei Coil lo rapisce, lo elettrizza, lo seduce a tal punto che sprazzi di quell’universo così oscuro ed esoterico diverranno una costante in molti dei lavori degli Ulver, almeno fino al decennio successivo. “Questa è musica da ascoltare in giro per le stazioni, prima e dopo il sonno. Cuffie e buio raccomandati”.

Tore Ylvisaker
Un infinito loop.

Bologna, una data imprecisa a cavallo tra il 2014 e il 2015. Quel che ricordo è una città deserta, di notte. Temporeggio perché devo ripartire. Affrontare un lungo viaggio in pullman mi toglierà qualsiasi voglia di vivere, perciò ho deciso che finalmente mi metterò all’ascolto di qualcosa di diverso, qualcosa che non abbia (più) a che fare con il metal, qualcosa che mi faccia perdere la cognizione del tempo e del pensiero per almeno un’ora. Metto play e inizio a vagare, senza meta. Mi lascio incantare dalle mille luci dei portici e trascinare da un passo stanco ma ancora vigile.

Perdition City. Il sax entra deciso, sinuoso, delicato, pronto a corromperti con il più caldo dei suoi abbracci tentatori. Ci sono i Portishead e c’è la voce di Rygg che se appena tre anni prima intimoriva nella ferocità del suo growl, ora rassicura e intiepidisce.
Mi sento a casa. Anzi, no. Mi sento su un’altra dimensione, distante anni luce da quella della città in cui mi trovo.  Mi catapulto sulle strade umide di San Francisco, le stesse che m’immagino nella seconda parte di Porn Piece or the Scars of Cold Kisses, in cui la pronuncia esageratamente americana di Rygg mi fa perdere il contatto con le radici.

Un infinito loop s’insinua nelle orecchie, quasi a pretendere di fuggire via con lui. Impaziente, arrivo all’intensissimo crescendo di Hallways of Always, che tra elettronica e IDM offre un’esperienza immersiva nella psiche umana. Esiste una versione live alla Norwegian National Opera, risalente al 2010. Fu una delle prime apparizioni dal vivo della band e una delle poche (se non l’unica) ad aver racchiuso alcuni tra i brani più conosciuti della loro camaleontica carriera.

Un film perdutamente intenso.

Sintetizzatori in corto circuito, la folle rincorsa ad un traguardo che sembra non arrivare mai. Quello che risulta essere un chiaro omaggio (e ben riuscito) ai The Future Sound of London, ha a che fare con mondi cosmici e suoni hauntology perfettamente incastrati in una colonna sonora cybernetica e sconvolgente, alle porte di risvolti inquietanti (We Are Dead) e da jazz piano bar (Dead City Centres).

Giungo alla fine. Riapro gli occhi, in lacrime. Tolgo le cuffie, è tempo di rientrare. Gli Ulver mi hanno colpito dritto al cuore, e io non sono ancora consapevole del fatto che continueranno a farlo più e più volte, tra le mie gioie e i miei dolori.
Perdition City è un film perdutamente intenso. Il migliore che abbia mai vissuto.  

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Last modified: 31 Marzo 2025