Non ho mai visto Nicolò Carnesi dal vivo prima di stasera, ma l’occasione è ghiottissima: tour in solitaria, voce e pianoforte, voce e chitarra. Mi trovo particolarmente a mio agio quando le canzoni si scuoiano e ne esce, vivissimo, lo scheletro. Carnesi, dal canto suo, è un’anomalia piacevole nel panorama cantautorale italiano, soprattutto di questi tempi, e vederlo nudo – metaforicamente, s’intende – mi sembra un ottimo modo per verificarne la sostanza.
(foto di Eleonora Zanotti)
Qualche giorno fa è uscito un suo singolo inedito, “Motel San Pietro”. L’ho sentito dal telefono in mezzo a un cerchio di fumatori musicofili e la mia reazione è stata impietosa (ma che è sta roba? Falsetti, voci effettate e sbilenche che neanche l’autotune di Drake…). Ma l’uomo saggio sa ammettere i propri errori. Soprattutto dopo aver sentito quella stessa canzone suonata con un’intensità tale da far accapponare la pelle.
Carnesi infatti apre proprio con “Motel San Pietro”, voce e piano, e l’effetto è straniante. Veniamo catapultati per cinque minuti in un mondo lontanissimo, pieno di suoni ed echi, con la sua voce che scala montagne e scia verso valle spingendo con gli effetti, pestando i tasti, sbattendoci di qua e di là come vuole, senza fatica. Quando finisce l’applauso è sentito, denso, scoppiettante. E meritatissimo.
Il concerto è un concentrato di tutti i suoi tre dischi, e spazia avanti e indietro, tra mood anche molto diversi, tra piano e chitarre, acustica e resofonica. Carnesi si dimostra tecnicamente eccellente, sia nell’accompagnarsi che nel cantato vero e proprio. Ha una voce poliedrica, che può passare dal sussurro nostalgico ed emotivo al raschiato intenso, fino ad arrivare al pieno e poi al falsetto senza particolari problemi. Inoltre sa gestire i suoni con precisione: quando, alla fine del concerto, ci chiede cosa vogliamo sentire come bis, alla richiesta di “M.I.A.”, un brano lungo dieci minuti che su disco è denso di elettronica, strumenti ed effetti, dopo un iniziale tentennamento la suona tutta, sapendone ricreare l’atmosfera con una chitarra, un microfono, una loop station.
Insomma, la perizia di Carnesi è ciò che più colpisce in questo concerto ‘nudo’. Ulteriore prova ne è stata la cover di “Segnali di vita” del conterraneo Franco Battiato, eseguita al piano e veramente ben riuscita. Ma Carnesi è anche un buonissimo autore: ha un repertorio assai variegato e soprattutto, quando lo mette in fila, si nota quanto abbia voglia di provare, sperimentare, fare cose per lui sempre nuove e senza mai appoggiarsi troppo al consueto. La produzione più vecchia (“Mi sono perso a Zanzibar”, “Il colpo” – suonata completamente unplugged seduto sul bordo del palco –, “Lèvati”, “Moleskine”) è più classicamente cantautorale, più standard, dai ganci puntuali e collosi; quella successiva (“Ho una galassia nell’armadio”, “Numeri”, “Il lato migliore”, “Lo scherzo infinito”) diventa più profonda, a volte visionaria, ma meno intelligibile, più complessa da masticare e digerire. In generale la scaletta mantiene un buon equilibrio durante la serata, con pochissimo rischio di annoiare nonostante le canzoni spogliate degli orpelli e lasciate nude e indecenti a farsi guardare senza vergogna. Però mi piacerebbe – lo dico così, come desiderio personale – riuscire un giorno ad ascoltare canzoni di Carnesi che riescono, miracolosamente, a fondere tutti questi aspetti: i contenuti non banali, la costruzione coraggiosa e magistrale, e un bell’acchiappo penetrante, dei begli incisi appiccicosi. Sono tre cose che Carnesi sa fare bene, e ogni tanto gli riesce anche la combo. Quella è la direzione, secondo me, perché Nicolò Carnesi si costruisca la sua nicchia: una nicchia sapiente e gioiosa, intelligente e originale, dalle geometrie pulite e senza nemmeno una traccia di ruffianeria.
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Last modified: 21 Febbraio 2019