Non dimenticarti di morire: un omaggio a David Berman

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Cinque anni fa il fondatore di Silver Jews e Purple Mountains lasciava questo pianeta alla ricerca della perfezione definitiva.

Ricordo ancora nitidamente il caldo asfissiante e disperante di una delle tante giornate interminabili di quell’estate del 2019 piena di mancanze e di vuoti esistenziali.
Fu allora che la notizia della morte di David Berman irruppe nella mia giornata, scuotendola come una cannonata trasforma un campo di battaglia (grazie, Steinbeck).

Il primo riflesso istintivo fu quello di guardare fuori dal finestrino del treno su cui stavo viaggiando e pensare al titolo di un piccolo romanzo che avevo letto svariati anni prima, Cronaca di una morte annunciata.
La cronaca era quella di un epilogo per certi versi quasi aspettato, una fine prematura tragicamente affine a quella di tutta una schiera di novelli poeti maledetti – da Elliott Smith a Vic Chesnutt, passando per Jason Molina e Mark Linkous – che ha segnato un’epoca dolorosamente irripetibile per il cantautorato americano.

Musicista, cantautore, poeta, disegnatore, Berman ha utilizzato ogni tipo di forma espressiva per dare voce alla propria complessa vulnerabilità. La sua variegata produzione artistica è la testimonianza di un vibrante universo interiore fatto di un inesplicabile e antico dolore, ma anche di una dolcezza infinita, per certi versi addirittura ingenua e fanciullesca.

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Quella di David era una penna dissacrante e sardonica – potrà mai esistere una frase più geniale di “In 1984 I was hospitalized for approaching perfection” per iniziare un album? – puntualmente accompagnata da una capacità più unica che rara di scrivere melodie al tempo stesso compassate e indimenticabili.
I suoi solitari paesaggi sonori sanno di grandi romanzi americani solcati da protagonisti – i “suburban kids with biblical names” di People – che corrono a perdifiato verso la propria inevitabile sconfitta.
Del resto, per farsi un’idea di quanto profonda e sensibile fosse la sua scrittura basta farsi un giro sull’account X che quotidianamente condivide frasi e pensieri sparsi tratti dai suoi testi e dalle sue poesie. Ogni singolo tweet è una piccola perla di umanità, una testimonianza di inestimabile valore.

Da quel 7 agosto 2019, ascoltare la musica di David Berman ha inevitabilmente assunto connotati del tutto particolari.
Se l’indie rock a tinte slacker dei Silver Jews – che, tra le altre cose, annoveravano tra le proprie fila la presenza di Stephen Malkmus dei Pavement, un altro totem dell’antieroismo musicale – ha caratterizzato una delle discografie più autentiche e imperdibili a cavallo tra i ‘90 e i ‘00, i Purple Mountains rappresentano invece un unicum irripetibile.

Uscito neanche un mese prima rispetto a quella tragica data, l’unico lavoro pubblicato con l’ultimo progetto rappresenterà per l’eternità un epitaffio definitivo e forse anche troppo doloroso da affrontare.
Un album giunto all’improvviso dopo quasi un decennio di silenzio, arrivato a seguito di una sospensione temporale che solo un uomo al di fuori del tempo e dello spazio come Berman poteva sostenere.

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Purple Mountains è un testamento umano – ancor prima che artistico – che ancora oggi tendo a maneggiare con un’inquieta premura, come se ogni volta avessi la percezione di non avere il diritto di addentrarmi fino in fondo in un’opera tanto intima e sofferta.
Una partita a scacchi con la morte il cui epilogo era stato decretato fin dal principio, una sfida in cui non c’è stato bisogno di attendere alcuna mossa e che proprio nel suo destino drammatico e ineluttabile ha trovato il senso ultimo e definitivo della propria esistenza. Una lotta verso la cima che ha nobilitato per sempre un’intera vita.

Quello di David Berman era un immenso mondo interiore a cui non avremo mai accesso fino in fondo, ma, se è vero che la superficie delle cose è inesauribile, far rivivere la sua memoria attraverso le sue canzoni, i suoi testi, le sue poesie, i suoi disegni è il modo migliore per continuare a tenerlo in vita. 
Ascoltare una sua canzone o sfogliare una sua illustrazione è una sorta di rito catartico che ogni volta ci fa sentire meno soli e più compresi. E forse anche più vivi.

“On the last day of your life, don’t forget to die”.

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Last modified: 13 Settembre 2024