Come s’intuisce dal moniker scelto, il progetto One Boy Band risponde al solo nome di Davide Genco, cantautore siculo brianzolo classe 82 ex membro dei LaCorte, il quale, munito di chitarra, loop station, ukulele e voce (solo talvolta aggiunge altri strumenti come basso, banjo o mandolino), prova a rievocare i fantasmi di Daniel Johnston ed Elliott Smith, miscelando il tutto con il sound più intimo dei Joy Division (nel disco è presente una cover di “Disorder”), quello più sperimentale di Mike Patton (nel brano “La mia complice”, l’omaggio stilistico si fa evidente) e Pop di The Smiths, tutti artisti che One Boy Band non disdegna di coverizzare live al fianco dei suoi brani originali.
In questo primo full length solista, Davide Genco si lascia affiancare dai cori di Irene Facheris ma sono sempre la sua voce e la sua sensibilità lirica a fare da protagonisti, con brani che affrontano con una bramata profonda leggerezza temi come amore e morte, passato e futuro, felicità e malinconia, un po’ la dualità emotiva che colpisce ogni uomo al superamento dei 30 anni. Per riuscire in tutto questo, One Boy Band prende a prestito le recenti lezioni dei maestri del cantautorato Folk, da Kurt Vile a J Mascis, da Kozelek a Sufjan Stevens ma, nonostante tanta magniloquenza non mostra mai la minima vicinanza con le capacità espressive dei capiscuola. Semplicemente perché, nonostante uno stile che mostra un tentativo lezioso di cantautorato d’avanguardia non solo non ne ha le stesse qualità tecniche strumentali e vocali ma soprattutto perché non mostra una timbrica che possa reggere il peso di un confronto, non ha la stessa capacità di scrittura, non ne ha la profondità testuale e le canzoni suonano tutte come banali componimenti di un vecchio ragazzo che dopo una vita di cover abbia voluto provare a dire la sua senza avere, in fondo, troppo da dire e senza neanche sapere bene come dirlo.
Sarebbe anche fin troppo facile puntare il dito contro la cover del capolavoro “Disorder” ma, in fondo, è anche il pezzo più riuscito del disco, proprio perché è la scrittura il primo problema di queste undici tracce motivo per cui, altro brano degno di nota, finisce per essere l’opening “Elliott Smith e l’autunno”, in cui Genco musica le parole del genio di Omaha. Discutibili anche alcune scelte strumentali, come l’eccessivo uso dell’ukulele, o l’approssimativa ricerca melodica che fa dei brani una sgradevole via di mezzo tra cantautorato impegnato e debole Pop Rock. Se da un lato, quindi, la scelta di tralasciare le cover per provare a usare un proprio linguaggio è senza dubbio apprezzabile, non possiamo dire comunque che il tentativo sia riuscito. Del resto se i principali problemi di un cantautore sono nello scrivere e interpretare la propria musica, forse la strada non è necessariamente quella giusta.
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Last modified: 20 Febbraio 2019