Una figura umana in copertina, con testa di cavallo e qualche icona marginale tipo chitarra, panini e compact disc a stagliarsi sullo sfondo; non proprio la più originale delle idee ma quasi obbligata dalla scelta del moniker, One Horse Band, del polistrumentista milanese. Le apparenti banalità non finiscono qui perché ci si mette anche la musica a rimarcare la cosa, con una miscela iper abusata di Garage Blues ovviamente in inglese, ovviamente dal fortissimo sapore yankee. Eppure, Let’s Gallop è tutt’altro che un pessimo disco; canzoni immediate, cariche e potenti come solo quelle nate nel caos on the road dei concerti riescono a essere. Influenze che spaziano nei decenni, dal Garage e il Rock’n Roll degli anni sessanta statunitensi, di The Sonics e Flamin’ Groovies, fino a quello più moderno di Reigning Sounds e The Dirtbombs, passando per un Blues sporchissimo e attuale stile The Black Keys o Black Rebel Motorcycle Club ma condizionato dal Delta Blues di Muddy Waters e Son House, fino ad arrivare all’Hard Rock più lercio possibile. Canzoni dense di mascolinità e sesso come non capita più troppo spesso di ascoltarne (la cover di “Venus” degli Shocking Blue, riassume degnamente il concetto), una buona dose d’ironia che evita di far degenerare il tutto in una malinconia grottesca, energia da vendere, ritmi e melodie a tratti ossessionanti ma mai cupe anzi sempre su una linea di vivacità che finisce per non rendere greve l’ascolto; suoni aspri, inzaccherati di un voluto lo-fi ma anche una discreta tecnica (oltre alla strumentazione necessaria, l’artista milanese imbraccia, diciamo così, dobro, cigar box e banjo) in aggiunta ad una voce muscolosa e ispida, quasi edonistica e perfetta per l’occasione. L’unico momento che possa dirsi intimo e rilassante, anche fuori contesto se vogliamo, è la conclusiva “Altare”, che, tuttavia, piazzandosi a chiusura del disco, riesce anch’essa ad acquistare un ruolo apprezzabile in tracklist, nonostante l’evidente anacronismo. Let’s Gallop non è certo quello che si può dire un album che brilli per audacia e non è neanche un tripudio di tecnicismi Blues se è per questo; eppure è un disco che, soprattutto in chiave live, può funzionare perché capace di arrivare laddove quasi ogni brano dovrebbe arrivare, allo stomaco delle persone che lo ascoltano. Non tanto al cuore, dove, in fondo, non è troppo complesso approdare per chi sappia scrivere canzoni ma proprio nelle viscere, dove risiedono le nostre emozioni più autentiche, quelle che ci accompagnano nei momenti più intensi, quelle che cozzano con la ragione, ma non affogano nelle stucchevoli eccitazioni del petto. Un disco da ascoltare ma che probabilmente non avrei mai ascoltato solo a sentirne parlare.
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Last modified: 20 Febbraio 2019