La copertina dell’album d’esordio dei Parranda Groove Factory racconta da subito tanto di quello che è contenuto nella tracklist di Nothing but the Rhythm. Protagonista assoluto di questo lavoro è il ritmo, raccontato dai dieci componenti la band attraverso la commistione di percussioni sudamericane con Elettronica, Folk, Funky e Reggae. Quello che ne viene fuori è un’altalena di suoni ora torbidi, liquidi e irrequieti, ora più festosi e radiosi, grazie all’unione tra la freddezza delle drum machine, i sample e i sintetizzatori e la samba a far da cornice a un cantato Soul al femminile (Vera Claps).
Tra i diversi brani, troverete sia composizioni totalmente originali, sia beat presi a prestito, campionamenti, ritmi “rubati” e reinterpretazioni di brani resi famosi da altri, come “Mi Vida” di Manu Chao o “It’s a Man World” di James Brown. Nonostante questo, l’idea di base ha un interessante fondo di originalità che non si esaurisce qui. Si pensi alla traccia “Light Curve Waves to Sound”, in cui è proposto il suono di una stella secondo la tecnica indicata nel titolo che appunto traduce frequenze luminose in sonore; oppure alla rilettura in chiave House del brano “Agua de Beber” di Antonio Carlos Jobim, il grande autore Bossa Nova di Rio anni 50 e 60. A tutto questo, si aggiungano digressioni psichedeliche (“Stoned Circus”), Ska (“Mi Vida”), Dance (“Synthcretism”, “Avenida do Olodum”), brani in lingua madre o quasi, Reagge (“Los Parranderos”), Funky Rap (“Sacerdoti dell’Umanità”). Di materiale per apprezzare questo Nothing but the Rhythm sembra essercene, dunque, tanto ed è indubbio che gli amanti della ritmica, del basso e delle percussioni avranno di che divertirsi con l’ascolto, eppure c’è più di un qualcosa che non convince. Per prima cosa, quasi sembra uno scherzo parlare di dieci elementi vista la semplicità del suono che ne viene fuori; inoltre, in più di un’occasione, il legame tra le varie influenze e quindi i diversi stili proposti suona quasi forzato, non scivolando con naturalezza nell’ascolto e non riuscendo a utilizzare il tempo come colla, così come da programma. In molti casi, i pezzi proposti suonano come incompleti, spogli e l’ascolto ripetuto non crea quel senso di brama sonica che vorremmo da un grande disco ma piuttosto un “piattume” di noia e un suono tutt’altro che accattivante. Da una buona idea e da un gruppo vasto di musicisti al cui interno ci sono ben otto percussionisti, non possiamo che aspettarci molto di più; questo Nothing but the Rhythm prendiamolo come prove generali per qualcosa che sarà o potrebbe essere.
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Last modified: 20 Febbraio 2019