Fermarsi all’apparenza e rimanerne estasiati. Ad un bel visino giocoso dietro cui si nasconde una violenta punitrice.
Così mi sono fatto incantare da questo album(e) dei Pecora, band a dir poco sperimentale, che presenta una copertina a dir poco geniale data l’assonanza con il celeberrimo disco nerissimo (che poi era scuro solo per la copertina) dei Metallica.
Dall’uovo spiaccicato sul 45 giri mi aspettavo un contenuto a dir poco scherzoso, o per lo meno sarcastico, che mi rimandasse ai fasti versi di Giorgio Gaber e Jannacci. E invece di tutto questo c’è solo un piccolo pizzico di sorriso in un oceano di sintetico e di cupa digitalizzazione.
A differenza degli amici metallusi, questo album è proprio nero dentro. Nero come la rabbia che cresce in un disoccupato di 40 anni, nero come chi spegne la luce perché ciò che vede è più nero del buio, nero come chi chiude gli occhi per bestemmiare ad alta voce. Nero come l’ironia stanca di chi ricerca parole (e le ricerca in profondità) pescandole una alla volta, sandendole bene tra loro, in un deprimente gioco di società. Il gioco però riesce bene, richiama la giusta angoscia e non trattiene la smorfia storta di chi in realtà non si arrende e continua a pescare.
Ad accompagnare questa delirante attività ci sono basi minimal che ripetono alla nausea loop freddi e grigi al sapore di punk digitalizzato. Il risultato, nonostante paia essere buttato nel mixer come si butta la frutta (marcia) nel frullatore, scorre omogeneo e uniforme. Certamente non piacevole all’ascolto.
Ma forse da una band che dispensa perle come “sono meglio di Gesù, sono vissuto di più e in tutti questi anni, ho fatto meno danni” non ti aspetti sonorità piacevoli.
Last modified: 27 Dicembre 2011