C’avete presente quei mega concerti assurdi che l’Olimpico non basta, che fai una fila spropositata da almeno sette ore prima, che il frontman si dimena in preda alle convulsioni da sostanze psicotrope mentre il palco si infiamma con un gioco di luci da far invidia alla stazione spaziale della Nasa? Ecco, niente di tutto questo.
(foto di Beatrice Ciuca)
Situazione intima per il cantautore Piers Faccini. Ogni suo concerto a Roma è funestato da imprevisti e così il Quirinetta, al momento fuori uso, si fa ospitare dal San Belushi, riducendo di fatto l’affluenza di pubblico.
Piers non sembra aversene. Suona la chitarra, il tamburello, l’armonica a bocca, parla in un italiano maccheronico appreso dal padre, canta anche in napoletano e ci presenta il suo ultimo I Dreamed an Island nella penombra della sala. Il momento più toccante e al contempo più ironico è indubbiamente “Bring down the wall” con stoccata a Trump. Peccato c’abbia già pensato quel semisconosciuto di Roger Waters! Piers, con fare da impiegato statale in grande stile british, timbra il cartellino e suona senza muovere un muscolo. Non un sorriso, non uno strillo, mai uno slancio e l’oretta e mezza di musica passa così. Talmente poco empatico e coinvolgente che basta anche l’aria condizionata che parte ad intervalli irregolari per distrarre i presenti. Troppo tecnico per fare da sottofondo ad una serata alcolica, troppo moscio per stare in piedi a sorbettarselo attentamente. Ma nonostante questo, Piers piace. Perché è uno sfigato vero, non un hipster improvvisato. È uno che indossa la giacchetta e la camicia per rispettare il pubblico. È uno che canta a bassa voce perché timido. È uno che veramente ti da l’idea di suonare come se fosse solo.
Daje Piers, Facci(ni) sognare!
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Last modified: 15 Marzo 2019