Ovvero: di come Polly Jean si ritrovò ad urlare nel deserto tutto ciò che sentiva dentro.
Il 1995 fu senza dubbio un anno di svolta in ambito musicale. Il cuore di Kurt Cobain aveva smesso di battere soltanto l’anno precedente, e con la sua morte si era chiusa anche l’incredibile e allo stesso tempo effimera parabola del grunge, insieme a tutto ciò che ne era conseguito. Al giro di boa dei ’90 ci si preparava ad una nuova era: in quell’anno Mellon Collie and the Infinite Sadness degli Smashing Pumpkins sarebbe stato il canto del cigno del rock alternativo USA di stampo 90s, i Radiohead con The Bends avrebbero iniziato la loro scalata verso l’OIimpo, e in Gran Bretagna – e di riflesso anche in Europa – il britpop era ormai già da un paio d’anni il movimento culturale di riferimento.
UNA NUOVA POLLY JEAN
È in questo contesto storico che To Bring You My Love vide la luce. Polly Jean Harvey all’epoca aveva da poco compiuto 25 anni, ma era già riuscita a guadagnarsi una certa notorietà nell’ambiente alternative inglese: all’attivo si contavano già Dry e Rid of Me, lavori carichi di una certa urgenza giovanile mista ad un sex appeal senza eguali e imbevuti di estetica lo-fi e punk.
To Bring You My Love è il primo, vero album solista di PJ, che fino ad allora era di fatto stata la frontwoman di un trio, e segna anche l’inizio del fondamentale e produttivo sodalizio con John Parish (i due, originari entrambi di Yeovil, nel Somerset, erano già stati compagni di band negli Automatic Dlamini). Alle registrazioni prese parte anche Mick Harvey, già membro di The Birthday Party e Bad Seeds (e no, questa certamente non sarà l’unica cosa che in qualche modo legherà la musicista inglese a Nick Cave, ma questa è davvero un’altra storia).
È molto probabile che PJ stessa fosse cosciente del fatto che l’album che si accingeva ad incidere avrebbe rappresentato un punto di svolta per la sua carriera. Nel 1994 aveva deciso in qualche modo di sparire dai riflettori, apparendo il meno possibile in pubblico e andando a vivere in aperta campagna, poco fuori Yeovil. Un isolamento volontario, una sorta di eremitaggio che avrebbe poi portato alla registrazione del disco, avvenuta a Londra tra il settembre e l’ottobre dello stesso anno con un peso massimo come Flood – argh, altro link con Nick Cave, ma promettiamo che non ne faremo più! – alla produzione.
DAL LO-FI ALL’OLIMPO DEL ROCK
La copertina è già spiazzante, con PJ splendidamente abbandonata nelle acque come una novella ninfa, in un chiaro rimando ad un preciso brano nonché singolo di lancio del disco, quella Down by the Water che all’epoca creò non poche illazioni da parte di chi ne prese il testo alla lettera (detto in termini spiccioli, una madre che affoga il suo bambino).
È la title track ad aprire le danze, e non poteva esserci pezzo migliore per immergersi nel nuovo mondo musicale e personale di Polly Jean: il ritmo lento, ipnotico, l’incedere a tratti drammatico, la voce sinistra che sembra essere il presagio di una qualche maledizione. E poi il testo, cupo e maledetto:
“I was born in the desert
I’ve been down for years
Jesus, come closer
I think my time is near”
Versi che colpiscono dritto al cuore, parole che fanno sussultare. La punk rocker lo-fi degli esordi che si trasforma in una sacerdotessa maledetta a cavallo tra rock e blues. La sua personalissima folgorazione sulla via di Damasco (che non è certo nel Somerset, ma il riferimento biblico ci torna utile in ogni caso).
“It’s my voodoo working”: Long Snake Moan suona come un sabba, blasfemo e dannato, diretto e distorto. La voce di PJ, mai così sprezzante, non ammette repliche: ti sbatte violentemente nel vortice del suo baccanale, e tu impotente, abbandonato completamente alla sua furia edonistica ed oscura.
UNA, DIECI, CENTO PJ
Gli echi punk/lo-fi degli esordi tornano a farsi sentire nitidamente in Meet Ze Monsta, ma in To Bring You My Love, al netto della depravazione e dannazione di cui sopra, c’è spazio anche per le altre anime di Polly Jean, che mai come in questo caso si mostra in tutta la propria complessità e profondità. C’mon Billy è il grido accorato di una madre – e quello della maternità, nelle sue varie sfaccettature, è un concetto che tornerà più di una volta nell’album – nei confronti del padre del proprio bambino, Working for the Man è una ballata folkeggiante quasi dimessa per gli standard del disco, mentre quello di The Dancer è un commiato drammaticamente sofferto e intimo.
Altro tema ricorrente nei versi dell’album è quello del rapporto con Dio, che però, come PJ stessa avrà più volte modo di precisare in seguito, non va necessariamente inteso nel suo aspetto strettamente religioso. Quella di To Bring You My Love è una Polly Jean che è sicuramente alla ricerca di risposte a livello personale, a maggior ragione in un periodo così pregno di cambiamenti artistici e personali.
“Left alone in desert, this house becomes a hell / This love becomes a tether, this room becomes a cell.” È in Send His Love to Me che la passione (intesa qui nel senso più “cristiano” del termine) di PJ si mostra in tutta la sua potenza espressiva e dialettica. Una poetessa maledetta che urla nel deserto, conscia però che a salvarla non potrà che essere sé stessa.
VENTICINQUE ANNI DI FASCINOSO MISTERO
Amore, sofferenza, dannazione, drammaticità, perversione, sensualità: in To Bring You My Love la complessa e variegata anima musicale di PJ Harvey trova la piena sublimazione in tutte le sue sfaccettature. Un lavoro denso, maturo e profondo che dopo venticinque anni non ha perso un solo granello del proprio fascinoso mistero. La vera consacrazione di un’artista che ancora oggi – per suoni, estetica, contenuti – continua a segnare in maniera indelebile il mondo del rock in ogni suo aspetto, dall’alternative al blues, dal punk al folk.
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1995 album anniversary John Parish Nick Cave Pj Harvey to bring you my love
Last modified: 29 Marzo 2020