Nella mattina di Brighton, la band ci parla di aneddoti, del lavoro con Fuzz Club e di antifascismo.
Lo scorso venerdì, nell’unica mattina nuvolosa delle nostre giornate al Great Escape di Brighton, abbiamo intervistato i The Gluts, band milanese che si è esibita per tre volte in due giorni nella città inglese.
Due show nel programma principale del festival, rispettivamente al Three Wise Cats (Casablanca) e al leggendario Green Door Store; il terzo in un evento collaterale organizzato da Acid Box al White Rabbit.
Il gruppo ha all’attivo quattro dischi: Warsaw (2014), Estasi (2017), Dengue Fever Hypnotic Trip (2019) e il recente Ungrateful Heart (2021).
Seduti in un locale su St. James Street davanti a una birra, ci sono con noi Nicolò Campana (voce e synth), Marco Campana (chitarra), Claudia Cesana (basso) e Dario Bruno Bassi (batteria).
Siete in giro da parecchio tempo, ma da quando con la attuale formazione?
Nicolò: Esattamente dal 2016. Prima siamo sempre stati in tre fondamentalmente e non avevamo un batterista fisso. Da quando è arrivato Bruno, abbiamo una formazione stabile con cui ci presentiamo anche nei credits dei dischi.
E avete cominciato senza etichetta…
N.: Esatto, la prima stampa di Warsaw fu totalmente autoprodotta.
Claudia: Warsaw fu però ristampato successivamente da Nasoni Records, una etichetta di Berlino che si occupa di stoner. E’ da Estasi in poi che siamo passati con Fuzz Club.
Ecco, come è stato il passaggio e cosa è cambiato nel vostro modo di fare musica lavorando con un’etichetta come Fuzz Club?
Marco: A livello artistico non è cambiato molto, abbiamo totale autonomia nella stesura dei brani, nelle copertine. Scegliamo tutto noi. È cambiata la programmazione, la pianificazione delle uscite, la scelta dei singoli. Facciamo le cose molto meno a caso.”
C.: Oltre alla parte organizzativa di cui parla Marco, siamo entrati un po’ in una cerchia di band con cui siamo diventati amici e ci sosteniamo a vicenda. Ad esempio, l’artwork dell’album ce lo ha fatto Olya Dyer dei The Underground Youth e siamo stati in tour coi 10 000 Russos, una band portoghese di Fuzz Club. Si è creata la giusta connessione ed è stata una spinta forte.
N.: Banalmente, la grossa differenza è che con Warsaw non eravamo mai usciti dall’Italia. Non appena abbiamo firmato per Fuzz qualcuno si è accorto di noi anche in Europa e siamo riusciti a fare cose molto più complesse da realizzare se fossimo stati da soli.
C.: E aggiungerei anche l’interesse di un booking internazionale come El Borracho.
Bruno: El Borracho Bookings ci ha contattati esattamente due giorni dopo la prima delle due edizioni del festival di Fuzz Club ad Eindhoven…
Con Fuzz Club poi avete registrato anche una bella live session…
N.: Eravamo a suonare in Svizzera la sera prima, a Olten, e dovevamo essere a Londra per registrare quella session a mezzogiorno del giorno dopo. Quindi dopo il concerto abbiamo preso una decina di RedBull, abbiamo caricato gli strumenti e siamo partiti in direzione Londra.
B.: È stata una delle imprese più difficoltose della nostra vita. Fai conto che il driver aveva già fatto Torino-Milano-Olten e dopo un po’ non ce la ha fatta più. Quindi alla guida ci siamo messi io e Nico per tutta la notte. Siamo arrivati a Calais che erano le sette del mattino e davanti allo studio esattamente alle 11.59…
C.: Che poi era una barca sul fiume con dentro lo studio di registrazione.
Voi venite tutti da Milano e provincia. Come è stato crescere nel contesto musicale milanese? Lo avete trovato a volte limitante?
C.: Ti dico la verità, Milano sicuramente non è New York però se guardi i tour di tante band del nostro circuito, e anche più grosse, passano sempre da lì. Non mi sento di venire da un paesino sperduto dell’Europa. Forse è più un discorso legato alla mentalità delle persone che vanno ai concerti, c’è meno interesse per questo genere di musica e meno partecipazione a questo tipo di scena. Non che non esista, però c’è meno calore che in altri posti.
N.: La difficoltà forse è anche quella del cantare in inglese. Milano è sempre stata legata a una scena indie-rock italiana col cantato in italiano.
Adesso vi trovate a Brighton in un contesto come il Great Escape, uno degli showcase più importanti del mondo. Ai tempi in cui i Gluts suonavano solo in Italia e non avevano ancora una etichetta internazionale, avevate mai pensato di poter partecipare ad un evento di questo tipo?
B.: È una domanda un po’ difficile. Posso dire che un ruolo fondamentale lo ha giocato Italia Music Export. Parliamo di Brighton ma anche di un altro showcase festival a cui abbiamo presenziato, ovvero il New Colossus a New York. Probabilmente un’etichetta non può essere scissa da Italia Music Export per questi contesti.”
N.: Non era uno showcase, ma senza il supporto di Italia Music Export non avremmo potuto suonare in Sudafrica per esempio…
C.: È necessaria una combinazione di cose. Avere un booking valido, avere una etichetta con un nome dietro e il supporto economico di realtà come Italia Music Export.
Ecco, quanto diventa economicamente difficile andare in tour senza il supporto di realtà così?
M.: Noi siamo fortunati perché da Milano non ci mettiamo molto ad arrivare in Francia o in Germania, ma penso che per altre band che vengono da posti diversi, è davvero complicato.
B.: Per noi la band è una grandissima passione che portiamo avanti. Non è un lavoro ma quel che riusciamo a guadagnare ci consente però di auto-finanziarci.
N.: L’obiettivo primario è sempre stato riuscire ad auto-sostenerci e non mettere più soldi di tasca nostra come fanno all’inizio praticamente tutti. Adesso possiamo dire che sono anni che il guadagno dei cachet e del merch ci permette di divertirci senza attingere ai nostri portafogli.
Parlando invece della vostra musica, nell’ultimo album c’è un pezzo bello tosto dal titolo FYBBD (Fascist You Better Be Dead). Non siete una band del tutto impegnata politicamente, ma quanto è importante, nel contesto storico e sociale che viviamo nel 2023, esporsi e prendere posizione sull’argomento?
B.: Di sicuro ha la sua importanza. Il nostro messaggio è abbastanza semplice, diretto e comprensibile a tutti. È uno statement che abbiamo fatto due anni fa vedendo le prime avvisaglie di certi “rigurgiti”, non solo in Italia, ma in tutto il mondo occidentale. Viene inconsciamente da quel famoso pezzo dei 99 Posse in cui cantano “l’unico fascista buono è il fascista morto”. Lo ascoltavo quando avevo tredici anni.
N.: È un brano che viene molto apprezzato quando lo eseguiamo all’estero, anche perché ripete la stessa frase per tre minuti e mezzo quindi la imparano in fretta. Il messaggio è chiaro, e frequentiamo ambienti in cui fortunatamente il 99,9% la pensa come noi.
C.: Non siamo una band che tratta molto di politica nei testi, ma quando capita l’occasione di parlarne non ci tiriamo indietro e non siamo ambigui.
M.: Tranne me, che ho votato la Meloni… (risate, ndr).
Soprattutto negli ultimi due dischi vi siete avvicinati a questo mondo fatato che è la psichedelia, un qualcosa che in musica esiste da più di 50 anni. Cos’è per voi il concetto di psichedelia nella musica moderna?
C.: Tra noi abbiamo molti gusti in comune ma anche delle piccole sfumature che ci differenziano e che ci portano poi alla musica che facciamo. Marco ascolta molto l’hardcore punk, io sono più morbida e apprezzo di più la psichedelia pura. Ecco, secondo me il concetto di psichedelia si ritrova oggi in più forme, che vanno oltre i cliché esecutivi musicali. È più uno state of mind, un modo di vivere che si trova in cose molto diverse, anche molto più pop o in un certo tipo di cantautorato. Forse nella band alcuni di noi si spingono verso questi orizzonti, anche estetici, che però poi vengono rimescolati con altre influenze.
M.: Io reputo il nostro più un gruppo punk che psichedelico. Poi ci sono anche tratti, ambienti e mood che richiamano la psichedelia. Quando siamo andati in studio per Dengue Fever Hypnotic Trip avevamo giusto due pezzi pronti e abbiamo iniziato a improvvisare: questo porta molto a dilatare il tutto e andare in quella direzione. Alcuni dicono di vederci bene sia in festival psichedelici, sia in festival quasi death metal. E siamo appena tornati da un festival stoner, ecco.
E per finire, che cosa bolle in pentola per il futuro?
C.: Avremmo dovuto già registrare il nuovo album ma uno di noi ha avuto qualche problema fisico e quindi per un periodo ci siam dovuti fermare, non riuscivamo nemmeno a provare. Il disco però c’è ed è pronto all’80%, contiamo di registrarlo nel prossimo autunno e poi farlo uscire nel 2024.
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Ringraziamo di cuore Nicolò, Marco, Claudia e Bruno per il loro tempo e i loro aneddoti.
Play to believe, but play it LOUD. Sempre.
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Last modified: 14 Luglio 2024