Arrivo in Via Pasinetti senza aver ancora ascoltato bene il disco d’esordio da solista di Fabrizio Pollio, che all’attivo ha già tre dischi e un EP con gli io?drama. Non so bene cosa aspettarmi: ho seguito la parabola incostante degli io?drama da vicino, apprezzando molto i primi due dischi e perdendo un po’ di vista il progetto all’uscita dell’ultimo, Non resta che perdersi.
Ma è ovvio che, con la scelta solista, Pollio abbia voluto discostarsi almeno in parte da quell’esperienza, portando avanti una linea più personale. Sono curioso di sentire quanto questa scelta abbia pagato e, soprattutto, dove l’abbia portato.
L’apertura di Qualunque non aggiunge molto alla serata, e davvero su di lui c’è poco da dire: canta maluccio e in un modo impostato che rende il personaggio l’emblema del tristone un po’ sfigato. Le canzoni, voce e chitarra elettrica, non brillano: atmosfere post-adolescenziali/universitarie si mescolano a piattezze armoniche di un grigiore sfiancante, e l’unico interesse che destano in me sta nel fascino misterioso di come certe cose possano piacere a qualcuno. De gustibus.
Il concerto di Pollio inizia con una lunga carrellata di canzoni dal suo disco, Humus, e si sviluppa stando ben eretto su due gambe che, poi, mi accorgo essere gli elementi peculiari della sua produzione solista: da una parte un gusto eclettico, una certa eleganza anche manieristica – per esempio nei testi, nel ritmo delle linee melodiche –, un’intelligenza perlomeno formale che si avvicina, in certe scelte, al cantautorato e a un tipo di musica più alternativa e meno standardizzata; dall’altra, invece, abbandonata l’impronta più Rock degli io?drama, un abbraccio convinto e sapiente al Pop radiofonico, televisivo anche: nella rotondità delle armonie, nella linearità dei ritmi, nella comodità di certi arrangiamenti.
Queste due anime continuano a rispondersi e miscelarsi in misure diverse durante tutto il concerto. La band oscilla dai sette elementi, con i vari strumenti che si alternano (pianoforte, violoncello, basso, batteria, chitarra elettrica e acustica, voce, tromba/flicorno), a momenti più diretti (voce, chitarra elettrica e acustica, basso e batteria), altri più intimi (pianoforte, violoncello, chitarra acustica, voce) o ancora più scarni (voce e chitarra acustica). I brani riescono a unire alto e basso senza fatica: “Nessun dogma” è il pezzo musicalmente più vicino al Pop mainstream radiofonico, ma viene riposizionato con effetti stranianti da un testo inusuale per brani di quel tipo. La freschezza del progetto Pollio per me sta principalmente in questo: nella capacità di mescolare le due facce, quella del professionista del Pop, conscio delle regole, delle contraintes del genere, e quella dell’artista dal profumo decadente e dall’ambizione – almeno in potenza – pura, che le regole magari non le vorrebbe ma che si compromette nel cercare di essere il più libero possibile dentro la gabbia del voler fare musica e del volerla fare davanti a un locale pieno di gente che alza le mani e canta i tuoi pezzi.
La serata scorre senza mai annoiare, passando dalle canzoni di Humus a brani degli io?drama (“Nel naufragio”, “Non resta che perdersi”, “Vergani Marelli 1”, “L’amore ai tempi del precario”). Pollio è asciutto nel presentare i brani, la musica è sempre al centro e, nonostante la resa acustica del locale lasci a desiderare, con la batteria che non sembra neanche microfonata e il basso che riempie tutta la scena sonora, quello che importa è che la voce sia chiara com’è, cristallina: perché Pollio, prima di tutto, è un grandissimo cantante, con un’estensione notevole e una capacità di trasformare il timbro che davvero ha pochi eguali. Dal basso roco al sussurro, fino ai virtuosismi di acuti ringhianti, animali: c’è poco che quella voce non sappia fare, e soprattutto nei brani di Humus questo dona varietà e anima a canzoni che per altri versi sarebbero più piatte (“Generico”, per esempio).
Dopo l’uscita di scena di rito, Pollio torna da solo sul palco per una versione intima della già eseguita “Le vite degli altri” e per una “Musabella” (dal secondo disco degli io?drama) che il pubblico apprezza molto. Gran finale sul bis di “Oggi è domenica”, con tutta la band in scena per finire un concerto dal ritmo sempre sostenuto e dallo spirito sicuramente Pop ma anche inquieto, che non spinge – fortunatamente – fino in fondo lo sfruttamento dei soliti cliché.
Pollio riconferma le sue qualità tecniche e la capacità d’incanalarsi nelle ferree regole del Pop con maestria. La sua musica è un ibrido che, se pure s’immola sull’altare del dio della comodità auricolare senza troppe remore, non rimane intoccato dal marchio di eresie – per quanto addomesticate – che lo disallineano dalle traiettorie più ovvie. È un rischio, perché questo miscuglio tenderà a non piacere agli estremisti: a quelli che scavano nella musica affamati di sostanza e novità suonerà sempre troppo fatuo e ruffiano, e a quelli per cui, al contrario, la musica dev’essere un suono facile su cui battere le mani e cantare la sera dopo il lavoro e qualche birra, o addirittura da fischiettare quando passa in radio, ché ai concerti non ci si va, sembrerà forse troppo personale, troppo “complicato” (follia: ma sì, è così).
Si meriterebbe di più, in ogni caso, questo tentativo d’incrocio, per quanto blando: mi viene da pensare che, se Pop dev’essere, ben vengano almeno quest’atmosfera non del tutto placida, questa responsabilità ghiotta di parole scelte con (una qualsiasi) cura, questa lontana disfida interiore tra l’ego del Cantante e la basilare decenza dell’Artista. Rispetto a tanto altro Pop senz’anima, qui almeno ce n’è abbastanza da poter convincere un pubblico attento ma non per forza inquisitorio, un pubblico, diciamo così, di moderati: è una brutta parola, siamo d’accordo, ma non è che ci sia sempre bisogno di fare la guerra (non farla mai è peggio, forse, ma questa è un’altra faccenda). Se si ha la consapevolezza di questo, un concerto di Pollio non è da sottovalutare: per una volta, infatti, me ne torno a casa soddisfatto, con un guilty pleasure nelle orecchie che, alla fine, non mi fa poi sentire così tanto in colpa.
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Last modified: 22 Febbraio 2019