Romance, alla scoperta del nuovo mondo dei Fontaines D.C.

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Uno sguardo collettivo da parte della nostra redazione su uno degli album più attesi e chiacchierati dell’anno.

All’origine ci perdemmo tra le vie inzuppate d’acqua del cielo plumbeo di Dublino con Dogrel, poi ci siamo scaldati al tepore del sole di A Hero’s Death, prima di catapultarci nell’atmosfera notturna da clubbing decadente di Skinty Fia.
Ora tocca a Romance e per i Fontaines D.C. di cui tutti chiacchierano e sembrano avere un’opinione la redazione di Rockambula si è riunita in gran segreto e ha deliberato di non regalarvi una recensione, bensì un editoriale collettivo che vi possa raccontare le sensazioni e i giudizi sulla nuova uscita della band irlandese.
Tutti per uno, uno per tutti.

© Theo Cottle
Daniel Molinari:

Romance è il distacco più dolce e crepuscolare, ma, come ogni distacco, non può avvenire senza una certa dose di dolore. I Fontaines D.C. si presentano alla prima prova su XL Recordings fluorescenti e sgargianti come il Jonathan Davis del video di A.D.I.D.A.S. negli anni ‘90, spogliandosi di ogni reminiscenza Irish e lasciando spazio e respiro a un’internazionalità tanto ricercata (“I’m gonna be big”) quanto meritatamente conquistata.

Al flow ansiogeno di Starburster si contrappone una delicatezza che si culla nella versatilità vocale di Grian Chatten e ondeggia nei fraseggi tra Carlos O’Connell e Conor Curley.
I battiti sognanti e romantici di Horseness is the Whatness, la malinconia soffusa di Motorcycle Boy e le cascate gaze sempre sotto controllo di Sundowner fanno a cazzotti con la distorsione sincopata di una Death Kink o di Here’s the Thing, il tutto sullo sfondo di una teatralità kubrickiana della title-track che apre le danze.
Uno strano equilibrio che regge fino a Favourite, il pezzo più debole per chi scrive, che chiude il disco con un jangle pop 90s che ci riconsegna una band capace sì di osare, ma di non andare poi così oltre al personale perimetro come invece i mesi di teaser lasciavano presagire.

Nei trentasette minuti che scorrono velocemente siamo immersi in composizioni forse fin troppo chorus-centriche, dove qualche variazione ritmica in più e del coraggio maggiore, lasciato intravedere in certe soluzioni, avrebbe virato Romance su una più ambiziosa evoluzione.

In conclusione, in questo mondo moderno – parafrasandoli – mi sento di dire che abbiamo bisogno anche di dischi così, che ci accompagnino nella nostra routine quotidiana, senza dover trovare ad ogni costo una profondità autoriale, intrattenendoci e anestetizzandoci per un attimo dal turbinio che ci circonda.
E, anche se i Fontaines D.C. hanno sì confezionato un disco imperfetto, quel che sopravvive è un’ottima dose di magnetismo pop che sa coinvolgere nei suoi momenti più ispirati e catchy. 

Pezzi migliori:  In the Modern World, Starburster, Sundowner, Romance, Motorcycle Boy.
Pezzi peggiori: Bug, Favourite.

Silvio Don Pizzica:

Parte particolarmente debole il nuovo album dei Fontaines D.C., se non per l’ottima Starburster, che segue il brano Depeche Mode style che fa da intro. Dalle promesse di quel pezzo pazzesco non si sfocia a nulla di davvero lodevole, fino alla malinconica In the Modern World.
Tutto gira pigramente sfiancato per sfociare nella parte centrale con il folk di Bug e Motorcycle Boy che non dispiace e regala un po’ di energia pescando dall’alternative rock mischiato al martial neofolk, a voler rischiare un paragone.
Discreta Sundowner con i suoi cenni shoegaze e molto interessante Death Kink, nevrotica come prometteva anche Starburster. Favourite, la più accomodante, stona molto sia con quello che è, sia con quello che pensavo potesse essere questo album.

Mi aspettavo un lavoro più eccentrico, claustrofobico e pieno di contrasti e invece è arrivato un disco emotivamente intenso e afflitto e conseguentemente poco vigoroso e fin troppo lineare. Nessuna bocciatura, ma la delusione per aver atteso tanto qualcosa che non è come lo avevo immaginato, come avrei voluto e come sarebbe dovuto essere per non vedere i Fontaines diventare quello che non voglio diventino.

Pezzi migliori: Starburster, In the Modern World, Death Kink.
Pezzi peggiori: Desire, Favourite.

Francesca Prevettoni:

Un tempo era Dublino, poi è stata l’Europa, oggi sarà il mondo. Era piuttosto prevedibile che, vista la loro evoluzione, i Fontaines D.C. avrebbero puntato ben oltre i propri ristretti confini: verso le stelle ed oltre.
Ma siamo davvero sicuri che qualcosa sia realmente mutato nella loro musica, tralasciando gli eccentrici cambi di look e l’iniziale botta fuorviante del singolo Starburster? In Romance si ha l’impressione che – salvo qualche episodio sporadico, vedasi la citata Starburster o le divagazioni in salsa dark/horror dell’opener – tutto sia rimasto esattamente al proprio posto, migrando lentamente verso una naturale e graduale evoluzione alla quale il precedente Skinty Fia cede egregiamente il testimone.

La parentesi solista del frontman Grian Chatten infonde tutte le sue benefiche influenze folk nella parte centrale dell’album (Motorcycle Boy, Horseness Is the Whatness). Ci sono notevoli alti, ma purtroppo diversi, evitabili bassi: Bug, ad esempio, un tentativo non troppo riuscito di ricalcare le orme lasciate dai fratelli Gallagher negli anni ’90.
Fra i pezzi più azzeccati spicca invece la meravigliosa ballad In the Modern World, ma anche le piacevoli chitarre 90s di Death Kink.
Che cosa manca, effettivamente, a Romance? Un pezzo “calamita”, un instant classic al quale eravamo stati probabilmente fin troppo abituati da Dogrel in poi. Favourite sarà presumibilmente la hit da concerto che tutto il pubblico canterà a squarciagola, ma l’impressione è che sia stata cacciata a forza in un’opera che emana ben altre atmosfere in una visione d’insieme.

È quindi già tempo di stroncature definitive? Ancora no, anzi: tutt’altro.
Romance è nel complesso un buon disco e c’entra poco o nulla con quel famigerato immaginario stereotipato della scena post-punk, che quando viene tradito genera facili pretesti per infangare qualsiasi tentativo di emergere dalla propria nicchia e mirare ad un pubblico più vasto. Di spazio a sufficienza per espandere ulteriormente in futuro un potenziale ormai già testato ce n’è a non finire. La mia speranza, però, è che i cinque irlandesi conoscano bene il mito di Icaro e continuino a volare alto senza azzardare pericolosi avvicinamenti al sole.

Pezzi migliori: In the Modern World, Romance, Death Kink, Starbuster.
Pezzi peggiori: Bug, Horseness Is the Whatness.

Sebastiano Orgnacco:

Beata l’ingenuità di tutti coloro che, anche ai tempi di Dogrel, rifiutavano di vedere l’ambizione pop dei Fontaines D.C., limitandosi a chiuderli nell’affollato alveo del post-punk. Ci si stava stretti già nel 2019, figuratevi nel 2024, quando pure Joe Talbot ha deciso di provare a cantare e i cloni dei Black Country, New Road suonano meglio degli originali più recenti.
E allora viva il ritorno di un alternative rock che ammicca alle masse, soprattutto se la tanto acclamata “svolta” è una semplice evoluzione stilistica, perché in Romance i Fontaines D.C. evolvono la loro proposta musicale e svoltano solo i look per le foto promozionali.

Da questo quadro già si evince che il disco mi è piaciuto. Le sue atmosfere crepuscolari tendono più all’onirico (Motorcycle Boy) e all’inquietante (la title-track) piuttosto che alle ballad da fine del mondo di Skinty Fia, e Grian Chatten riesce davvero ad espandere il suo range vocale (aiutato anche da un Conor Deegan III mai così protagonista come in Sundowner): in Here’s the Thing la voce raggiunge vette ancora inesplorate dalla band, mentre in Desire riesce ad essere l’elemento che salva un brano altrimenti sì, noioso).

In generale, le influenze sbandierate in sede di annuncio si riducono ad un generico “nineties”: Oasis a manetta (Bug), Smashing Pumpkins (In the Modern World), un po’ di gaze (Sundowner).
Ci sono poi le due hit: Starburster ha promesso ma non ha mantenuto, mostrando muscoli che il resto di Romance nasconde. Favourite invece rimane una bella canzone d’amore molto smithsiana, che con il resto del disco non c’entra poi molto, e pare messa in chiusura perché è il posto in scaletta dove poteva fare meno danni (spoiler: sembra comunque fuori luogo).

Più di tre quarti di Romance è composto da momenti molto alti, che certificano i Fontaines D.C. come la nuova cosa del rock alternativo che stavamo aspettando, pronti per gli slot da headliner ai festival, per le folle oceaniche e i fandom invasati.
Degli Arctic Monkeys degli anni Venti, in perenne evoluzione ma furbi abbastanza per vendere ogni step come un grande evento, e capaci di far passare anche una delle copertine più brutte che la storia recente ricordi (con buona pace del citazionismo).

Pezzi migliori: In the Modern World, Bug, Starburster, Death Kink, Favourite.
Pezzi peggiori: Here’s the Thing, Horseness Is the Whatness.

Federica Finocchi:

È come perdersi per le vie della Grande Bellezza di Roma, attraversando a passo lento cavalcavia sotto cieli infuocati. Non è scoppiata nessuna bomba nucleare. Al massimo qualche essere umano molesto di troppo che lascia cartacce per le strade.
Romance è stato concepito forse in maniera frettolosa, più di quanto lo siano stati gli album precedenti del quintetto irlandese e possiamo stare a discutere del guizzo che manca alla maggior parte dei brani, della voce di Grian Chatten che spesso salva le piatte composizioni o di quante (troppe) ballad siano presenti a discapito di tracce che lasciano il segno.

Qui, del segno, nemmeno l’ombra. Si sale su una ruota panoramica che cambia velocità di continuo: ai primi ascolti non convince nulla, poi qualcosa si comincia a intravedere, per poi svanire di nuovo, lasciando giusto qualche strascico sull’asfalto bollente. Sta a noi ristabilire l’ordine, ammesso e concesso che vogliamo farlo. Io lo faccio ascoltando a ripetizione In the Modern World e Motorcycle Boy, finché non mi stancheranno come il restante 70% del disco. Tu guarda, proprio due ballad.
Ve l’ho detto che siamo su una ruota panoramica che non ha rotta. E vi ho anche detto che quando si tratta dei Fontaines D.C., a volte, perdo il lume della ragione?

Pezzi migliori: Romance, Starburster, In the Modern World, Motorcycle Boy.
Pezzi peggiori: tutti gli altri.

Federico Longoni:

Attendevo Romance con parecchia curiosità. I due mega singoli Starburster e Favourite li ho ascoltati all’infinito durante tutta l’estate, e quindi speravo in un album all’altezza di questi singoli e dei dischi precedenti dei Fontaines D.C..
E infatti non parliamo certo di un brutto album. Il disco suona bene dall’inizio alla fine, non ha tracce da dover skippare e non annoia mai. Le coordinate sonore sono più o meno le stesse a cui la band irlandese ci ha abituato: post-punk affilato, ritornelli catchy e chitarroni brit-rock. Grian Chatten tira fuori il meglio di sé anche in questo nuovo album, sia vocalmente sia nella scrittura dei testi, sempre di grande impatto emotivo.

Se c’è però un difetto che aleggia in quasi tutto l’album è una sensazione di incompiuto, il pensiero che potevano fare di più. Ascoltando alcune tracce sembra di ascoltare dei brani demo ancora da sistemare. Brani tronchi nel finale come Here’s the Thing o Death Kink che appaiono troppo frettolosi.
Anche Bug, che a me piace molto, avrei preferito durasse quel minutino in più, che venisse farcito ed elaborato un po’ di più per farlo diventare ancora più emozionante.
Ciò non toglie che il resto dell’album sia ottimo. A parte i singoli già citati, trovo la coppia di ballate Desire e In the Modern World stupende, così come la bellissima Motorcycle Boy (che sembra un pezzo uscito da Mellon Collie and the Infinite Sadness degli Smashing Pumpkins) e la successiva Sundowner, con quelle chitarre quasi shoegaze che fanno sognare.

Romance perciò è un bel disco in definitiva. Nei suoi trentasette minuti fila via liscio senza alcun intoppo, senza nulla di sbagliato. L’unica pecca è appunto quel senso di fretta, quasi di incompiuto in alcuni punti, ma è un difetto sul quale si può passare sopra. Perché fondamentalmente ai Fontaines D.C. vogliamo un gran bene.

Pezzi migliori: Starburster, Desire, In the Modern World, Motorcycle Boy, Sundowner.
Pezzi peggiori: Here’s the Thing, Death Kink.

Gianluca Marian:

Romance delude su più fronti. In primis, il disco si concentra, ancor più rispetto al precedente Skinty Fia, sulla ricerca di melodie e sonorità accattivanti, riuscendoci solo in poche occasioni, piuttosto che sull’elaborazione di dinamiche e strutture complesse. Questo porta a un lavoro privo di profondità e spessore.
In secondo luogo, pur promettendo un cambiamento con i brani iniziali Romance e Starburster, che sembravano aprire la strada a sonorità più claustrofobiche e nuove, con influenze synthpop e hip hop, l’album si rivela una mera raccolta di brani pop mid-tempo, fin troppo lagnosi e trascinati, stanchi e noiosi, scevri di una vera innovazione ed evoluzione.

Oltre alle già chiare influenze riconosciute dai miei colleghi e altri, si percepisce un filo conduttore con gli Smashing Pumpkins; una sensazione personale ma oggettiva, evidente in tracce come Desire, Sundowner, e Motorcycle Boy, che richiamano l’album Adore.
Allo stesso modo, pezzi come In the Modern World e Horseness Is the Whatness evocano atmosfere simili a Tonight, Tonight di Mellon Collie and the Infinite Sadness.
La somiglianza vocale con Liam Gallagher in questo disco è ancora più forte rispetto ai precedenti, ma spicca in modo particolare in Bug, un pezzo ibrido tra Oasis e The Smiths.

In conclusione, il disco non riesce a imprimere una direzione chiara, lasciando l’impressione di un lavoro incerto, esente di una vera identità e di brani capaci di lasciare un segno duraturo.
Here’s the Thing e Death Kink sono le due canzoni che hanno qualcosa in più da dire, ma sono anche le più ancorate al passato. Romance è forse il pezzo migliore, ed è un peccato che non abbia avuto altro modo di rivelarsi nell’album, piuttosto che concludere con l’inutile finale anticlimatico di Favourite.

Pezzi migliori: Romance, Death Kink.
Pezzi peggiori: Bug, Desire, Motorcycle Boy, Horseness Is the Whatness, Favourite.

Maria Pia Diodati:

Pressoché ferma ai Fontaines D.C. di A Hero’s Death, ascolto per la prima volta il nuovo album a due giorni dall’uscita ufficiale, trascorsi ad evitare accuratamente di leggere ogni commento a riguardo. Skinty Fia è stato un trauma che ho rimosso, ma quando parte la title track che apre Romance questa cosa ancora non la so. Alla fine del disco Spotify si prenderà la briga di sbloccarmi il subconscio facendo proseguire l’ascolto in automatico con Dogrel.

Se ho consumato ossessivamente il sophomore della band irlandese dev’essere stato proprio perché suona ancora urgente come l’esordio, di cui conserva il giusto grado di ruvidezza. È un lavoro che raccoglie i frutti inaspettati di un debutto dato in pasto al pubblico senza perdere troppo tempo in levigature; i dublinesi intravedono appena le possibilità che il futuro riserverà loro, di certo ci sperano – chi è che mette su una band senza fare sogni inconfessabili di stadi stracolmi di fan? – ma non c’è alcun dubbio sulla volontà di proseguire evolvendosi lungo la strada tracciata.

Ora io non è che ce l’abbia con Grian Chatten e gli amici suoi perché gli si spalanca di fronte un futuro radioso. Non me la prendo con loro se è così che va il mondo, che tu ti innamori di una roba perché ti arriva dritta in pancia e la senti tua e poi a un certo punto arriva il produttore col cash e tiè, ecco qua un disco pop della madonna, e a un tratto quella band che piaceva solo a te adesso piace a tutti, e in ufficio ti vedi arrivare il collega che fino a ieri venerava solo i Muse che ha appena sentito Starburster in radio per caso e viene a dirti che ha scoperto un gruppo nuovo fighissimo.

Ho inconsciamente ignorato il vago olezzo mainstream che emanava Skinty Fia, autoconvincendomi che si trattasse di una sbandata. Non ascoltarlo, passerà. E invece quell’oretta di Romance è stata una sberla in pieno volto. Undici pezzi confezionati magistralmente, che pescano a piene mani da quel che resta degli anni 90, un collage retromaniaco e piacione che è un frenetico aprirsi di cassettini della memoria – un paio ce li ho ancora spalancati, e continuo ossessivamente ad ascoltare Favourite innanzitutto perché mi piace tantissimo e poi perché non riesco a capire esattamente a quale brano del passato mi fa pensare.

Se non conoscessi la band che ha fatto quest’album avrei già deciso che è la mia nuova band pop preferita, il problema è che la conosco già e con un amaro in bocca da sliding doors continuerò a chiedermi per l’eternità come sarebbe stato il sequel di A Hero’s Death.
Insomma, non ce l’ho coi Fontaines, ce l’ho col capitalismo.

Pezzi migliori: Horseness Is the Whatness, Favourite.
Pezzi peggiori: boh.

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Last modified: 30 Ottobre 2024