Songs of a Lost World, il mondo perduto – e ritrovato – dei Cure

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La band di Robert Smith è tornata dopo un’attesa durata sedici anni, e noi non potevamo che omaggiarla con una recensione collettiva da parte della nostra redazione.

L’abbiamo aspettato con tanta lucida e sana impazienza, ci abbiamo sperato ma talvolta non troppo, e alla fine è arrivato.
Songs of a Lost World, il nuovo, attesissimo e quattordicesimo album dei The Cure fa il suo trionfale ingresso nei nostri impianti e nelle nostre cuffie in una data che non potrebbe essere più perfetta: il primo giorno di novembre.
Un giorno che sa di pioggia e malinconia, tristezza e voglia di ritirarsi nei propri pensieri – anche quelli meno confortevoli. Un periodo che profuma di autunno inoltrato, foglie secche che crepitano sotto le nostre suole durante silenziose passeggiate immerse nella nebbia: l’atmosfera ideale per immergersi nella nuova opera della leggendaria band guidata dall’immenso e iconico Robert Smith, sempre contraddistinta da un visionario e affascinante immaginario fatto più d’ombra che di luce, persino nei suoi momenti più ammiccanti al pop.

La redazione di Rockambula ha scelto di confezionare un articolo a più voci per raccontare il nuovo capitolo di una band che ha già scritto un’importante pezzo di storia della musica, influenzandone molteplici tratti, e che tuttora si riconferma come una delle più amate nel suo genere nonostante il tempo sia trascorso senza sosta.

Francesca Prevettoni

Songs of a Lost World suona come una telefonata ad un vecchio amico, uno di quelli che non vediamo né sentiamo da parecchio tempo per svariate ragioni, ma con il quale – per altrettante buone ragioni – non ce la siamo mai sentita di perdere i contatti. E solo ora, risentendo la sua voce, non ci capacitiamo di quanto tempo sia passato e forse ci sentiamo anche un po’ in colpa per non esserci mai fatti vivi in tutti questi anni.
La voce di questo vecchio amico, ovviamente, è quella dell’incredibile Robert Smith, ancora fresca e per nulla invecchiata, che fa il suo maestoso ingresso dopo la meravigliosa intro strumentale di Alone. Una voce sempre familiare, nella cui decadente malinconia forse non ci sentiamo esattamente al sicuro, ma con la quale possiamo condividere tutte le preoccupazioni e le ansie che ci attanagliano nella disperata disillusione di un “mondo perduto” (but no way out of this/no way for us to find a way to peace, da Warsong).

Songs of a Lost World è come un Disintegration in cui tutto fa un po’ più rumore (basti sentire quelle chitarre mai così aggressive come in Drone:Nodrone per farsi un’idea), ed è giusto così, perché in questo “mondo perduto” è necessario alzare la voce per farsi sentire. I Cure decidono di farlo con la solita eleganza e grandezza che li ha sempre contraddistinti, consegnandoci un’opera che riesce ad emozionare dal primo all’ultimo secondo.
Il paradosso della chiosa finale Endsong? Non vorremmo mai che finisse: dieci minuti epici, drammatici, meravigliosi, che, diciamolo, valgono l’ascolto dell’intero album e ci lasciano anche una discreta dose di amaro retrogusto. Ma, si sa, nessuno ha il coraggio di concludere una piacevole telefonata ad un vecchio amico con un addio; per ora, si spera, solo un nostalgico arrivederci.

Federica Finocchi

Mentre tutti commentavano il nuovo super atteso album dei The Cure nel giorno della sua uscita (o al massimo la mattinata successiva), la mia mente faticava a riempirsi di musica e di stimoli. Mi ero ripromessa di ascoltarlo con assoluta calma, silenzio e concentrazione, quando sarei stata pronta e quando ne avrei avuta davvero voglia.
Ecco, a distanza di qualche giorno sono riuscita a farlo, isolando l’ascolto a ciò che il buon Robert Smith aveva da dirmi in quel momento, filtrando sia ovazioni che stroncature sbirciate non proprio volontariamente da alcuni titoli che giravano sul web.

Sarò imparziale e un tantino (troppo) nostalgica, ma io quella gigante Luna Rossa che spunta sullo schermo dietro la band, con un Unipol Arena già stregata da oltre un’ora e mezza di concerto (ne mancava almeno un’altra abbondante), nella notte del 31 ottobre 2022, quando arriva l’allora ineditissima Endsong, non la dimenticherò mai. Così come non dimenticherò mai l’ingresso trionfale e incredulo, introverso e raggiante di un Robert Smith che si aggira sul palco cercando i volti delle migliaia di persone di fronte a lui, sulle note di Alone, apripista coraggiosissimo e struggente, un po’ come tutto Songs of a Lost World.

Perché ci vuole coraggio a uscirsene così dopo tanti anni, con una carriera ultra quarantennale alle spalle e un presente che sembra più lucido che mai per i The Cure. LA band dark per eccellenza. Quella che ancora resiste, quella che ancora è un piacere ed onore ascoltare in studio e vedere dal vivo. Echi di Disintegration e Pornography sgomitano elegantemente tra atmosfere eteree e parole d’addio, come solo loro sono in grado di fare.
Io non voglio mai più leggere di complottisti che gridano al testamento della band o di chi ne presagisce il futuro intravedendo ancora uno, due, tre dischi, come fosse una competizione e noi qui pronti al giudizio. Sarà quel che sarà. Rilassatevi e deprimetevi con Songs of a Lost World.

Federico Longoni

Paesaggi sonori delicati e magnificamente strutturati, performance vocali grondanti passione, testi emotivamente potentissimi e una strumentazione incredibilmente nitida: questo è Songs of a Lost World. I Cure sono finalmente tornati dopo sedici anni, e lo hanno fatto con un album sublime, malinconico e speranzoso, e immancabilmente bellissimo. Una tracklist ineccepibile, un brano meraviglioso e poi un altro e poi un altro ancora, fino ad arrivare a quella Endsong che chiude il disco con dieci minuti di devastante eleganza.

Tutte le otto tracce sono spinte al massimo del loro potenziale, non c’è spazio per riempitivi o lungaggini inutili. In tutto l’album permane quell’atmosfera rocciosa e stoica rappresentata perfettamente dalla copertina. Un rock oscuro e nostalgico, pregno di quell’amarezza di chi guarda il passato con un sorriso di soddisfazione sul volto, consapevole che quel passato non tornerà più ma consapevole anche di aver lasciato un segno in quel passato.
E Robert Smith di segni ne ha lasciati molti, e per questo gli si vuole un bene infinito. In Songs of a Lost World ha la stessa voce e la stessa passione di quando era ragazzino, di quando cantava a quei ragazzini di non piangere. Un album umano, toccante, triste. Un lavoro di una bellezza sconfinata, che dimostra ancora una volta la grandiosità dei Cure e del rock.
Songs of a Lost World non è solo essere uno dei migliori dischi dei Cure, ma anche uno degli album più sorprendenti pubblicati quest’anno.

Claudia Viggiano

Scrivere del nuovo album dei Cure è un po’ paradossale, perché onestamente chi siamo noi umili recensori al cospetto di Robert Smith?! Mi ritrovo quindi qui a parlare di Songs of a Lost World prima di tutto con un senso di gratitudine, quello di chi ha scoperto i Cure più o meno nel 2008, non sapendo che ci sarebbero voluti altri sedici anni prima di ascoltarne un nuovo disco.
Songs of a Lost World è racchiuso nella sua essenza dai brani che lo aprono e chiudono, Alone e Endsong, che già dopo un paio di ascolti sono già classici della discografia imponente della band. Ogni traccia si costruisce passo dopo passo, sviluppando melodie che nel gioco di ripetizioni rimangono impresse e diventano memorabili nel loro evolversi, raggiungendo l’apice quando entra la voce di Robert Smith, che negli anni è rimasta un’ancora, immutabile, indistruttibile. 

Si è sempre parlato dei Cure come una tra le band tristi per eccellenza, eppure Songs of a Lost World raggiunge un’altra vetta: quella del pessimismo cosmico, del punto di non ritorno. È uno Smith che si mette a nudo e affronta il tempo che passa e saluta persone che non ci sono più (I Can Never Say Goodbye, And Nothing Is Forever). La parte strumentale segue la stessa rotta, tra ballad inquiete, motivi shoegaze, distorsioni aggressive e archi tormentati, in perfetta sintonia con Disintegration. La produzione è volutamente torbida, fedele all’esperienza dal vivo, sebbene in alcuni momenti un mix più dinamico avrebbe sostenuto meglio pezzi robusti come Warsong e Drone:Nodrone (comunque tra i più belli del disco).

Songs of a Lost World accenna ad una fine imminente strizzando l’occhio, qua e là tra i testi, alla discografia passata dei Cure, la cui eredità è ancora nelle loro mani: perché chiamarli “legacy act” non ha senso quando la storia la stanno ancora scrivendo.

© Sam Rockman
Daniel Molinari

I pulviscoli di polvere cadono su un comodino di legno che profuma di vecchio. Si depositano sfumandosi con la luce fioca di una lampadina. Una mano emerge dal buio più profondo e ci passa sopra delicatamente, sospirata e sospinta dal passare del tempo. Accanto troviamo solo un letto dove sdraiarsi: dentro il tepore autunnale delle giornate che appassiscono, fuori la notte che ama rincorrersi nelle ombre.
Si preme play e Songs of a Lost World inizia la sua danza rarefatta. Robert Smith, i The Cure, dopo 48 anni di vita hanno scritto un album che è il calco indelebile di chi non vuole proprio saperne di scomparire, con la consapevolezza menefreghista che nulla risorgerà come un fantasma dal passato.

Echi di melodie lontane che sembrano catapultarci tra le linee dark e romantiche di James O’Barr che disegna Il Corvo mentre ascolta The Hanging Garden. Solo che non siamo negli anni di Pornography, siamo nel 2024 e Songs of a Lost World è un antidoto all’invecchiamento e una riflessione musicale sulla mortalità. È l’inno di un mondo solitario che là fuori si raffredda, tradito, dopo un incendio divampato che lascia solo gli odori più acri della pece e della cenere più fine. È la resistenza di una decadente Warsong che guida lo spirito malconcio costellato di cicatrici di Robert.

È, nel suo cuore, l’atmosfera bucolica di chi ha piena coscienza di sé e dei propri tentennamenti (All I Ever Am) e che si lascia navigare tra le atmosfere evocative di synth e delle chitarre pulsanti che culminano in quei dieci minuti finali dove si scolpisce e si leviga una memoria collettiva su cosa erano, chi sono e cosa saranno i The Cure per l’eternità. Degli artisti capaci di trascendere turbolenze, ere e generazioni che incastrano con un’eleganza fuori dal tempo l’ennesimo gioiellino di una discografia infinita.

Dario Damico

Il primo ascolto di Songs of a Lost World mi aveva fatto pensare ad un lungo e struggente addio. Sia per l’immediato impatto emotivo, sia per il ripetersi compulsivo della parola e/o verbo -end-, presente e risonante in sei canzoni su otto.
Eppure non è un addio, almeno a quanto affermato da Robert Smith; la band ha già un altro lavoro pronto e ha intenzione di continuare almeno fino al cinquantesimo anniversario della carriera, che cadrà nel 2028.

Come inquadrare quindi questo disco? È una lunga affermazione dell’identità Cure. Quella coltivata dai fan storici che hanno atteso questo momento per sedici lunghi anni e che possono oggi rispecchiarsi fedelmente nello spirito di Alone e in quello di Endsong, che aprono e chiudono il cerchio abbracciandosi a vicenda e guardandosi allo specchio.
Nel mezzo, un’angoscia che si mette a nudo nell’esplosione delle fragilità e si scioglie dentro una chicca assoluta: And Nothing is Forever, la carezza che placa il dolore senza ignorarlo, il cenno che lo accompagna dolcemente per mano sulle onde degli archi, nelle vie pure del sentimento.

Cosa importa in fondo avere la reale percezione della fine di un’umana storia musicale? Conta solo viverla nel profondo senza la malsana urgenza di dire goodbye.
Il livestream gratuito e globale del colossale concerto al Troxy di Londra (tre ore), andato in onda la sera del primo novembre, è stato un sincero gesto d’affetto dei Cure verso il loro mondo.
E quindi meglio o peggio di prima, da giovani o da vecchi, stanchi o in piena energia; ma ancora una volta, come sempre, col cuore scoperto e aperto sul tavolo, servendone i bocconi.

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Last modified: 6 Novembre 2024