Danzando coi fantasmi | Intervista a Persian Pelican [SPECIALE PRIMAVERA PRO]

Written by Eventi, Interviste

Incontro Andrea Pulcini venerdì scorso a L’Aquila. Manca poco alla partenza per Barcellona ma lui e i suoi sodali hanno ancora un paio di faccende da sbrigare in terra italica.

Una è il Mi Ami, il giorno successivo partiranno per Milano per esibirsi sul palco di quello che inaugura la stagione dei festival in Italia. Un’altra invece è la performance prevista per oggi stesso, in una location singolare, il perimetro ellittico di un anfiteatro romano che sorge in quella che col tempo è diventata l’immediata periferia del capoluogo abruzzese. Quello di cui saranno protagonisti è il primo degli appuntamenti della stagione estiva di Paesaggi Sonori, giovane associazione culturale nata con l’intento di congiungere la musica contemporanea ai luoghi più suggestivi dell’Abruzzo.

È qui che ci troviamo, nell’area archeologica di Amiternum, con le chiappe poggiate su pietre vecchie almeno un paio di millenni e il sound check delle Coma Berenices  – duo post rock tutto al femminile, che stasera si esibirà prima di loro – a far da gradevole sottofondo, mentre Andrea ed io scambiamo due chiacchiere sul passato e sul presente del progetto Persian Pelican.

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Sleeping Beauty ha compiuto un anno da poco. Alle pendici della nostra “bella addormentata” (come a noi abruzzesi piace chiamare il Gran Sasso, ndr) mi viene spontaneo chiederti il perché di questo nome per il tuo terzo lavoro in studio come Persian Pelican. Quella dormiente è una bellezza concreta o metaforica?

La mia “sleeping beauty” non è quella delle fiabe. Questo nome nasce dall’idea che nell’inconscio di ognuno di noi riposi una bellezza addormentata che in qualche modo dobbiamo riattivare. Lo si può fare attraverso il linguaggio dei sogni, che sono forse gli strumenti più potenti che si hanno a disposizione per modificare il concreto: la vita di tutti i giorni, il rapporto con le proprie emozioni, la rielaborazione di un evento doloroso come una perdita o un lutto. Credo che attraverso l’uso lucido e cosciente dei sogni si possa agire significativamente sulla vita reale.

Quindi l’una e l’altra. Una bellezza interiore che diventa quotidiana.

Sì, una sorta di entità che risiede in ognuno di noi, in grado di connettere la propria quotidianità con aspetti di noi stessi che sono meno tangibili, meno reali. C’è un libro di Alejandro Jodorowsky, “La danza della realtà”, che parla proprio del potere terapeutico del sogno lucido in questo senso. Lo avevo letto tempo prima, poi mi è tornato in mente mentre scrivevo Sleeping Beauty. Parla proprio della necessità di riscoprire la capacità di comunicare con l’onirico, dei sogni come mezzo per stabilire un contatto con altri mondi, per cambiare la percezione di una perdita e far sì che in qualche modo l’assenza diventi presenza quotidiana, e di conseguenza smetta di essere dolorosa.

Un bilancio dopo il primo anno di vita (Sleeping Beauty è uscito ad aprile 2016 per Malintenti, Trovarobato e Bomba Dischi, ndr). Cosa ti ha portato questo disco? Riscontri significativi, riconoscimenti, momenti importanti in cui lo hai suonato dal vivo?

Oltre al riscontro favorevole della critica che è stato abbastanza unanime, cosa che ovviamente mi ha fatto molto piacere, la felicità più grande che mi ha dato quest’album è stata il ricevere anche molte recensioni “confidenziali”, chiamiamole così: quelle di persone – amici, ma anche sconosciuti – a cui il disco ha comunicato qualcosa, che dopo averlo ascoltato hanno sentito il dovere di dirmi che aveva smosso qualcosa dentro di loro. Così come è stato bello ricevere foto del disco mentre lo stavano ascoltando, magari mentre erano in macchina e lo usavano come sorta di colonna sonora per i loro viaggi.

Beh, in fondo sono quelle le persone a cui si spera che il disco arrivi, no? Quelli del settore che amano sviscerare e spendere molte parole sulla musica a volte dimenticano che la componente emozionale è un’altra storia, molto più immediata.

Certo. È una cosa confortante perchè dimostra che nel tuo lavoro non c’è niente di artefatto. Anche dal punto di vista dei live Sleeping Beauty ha portato novità, innanzitutto perché ho iniziato a girare con una band più numerosa. Fino a How To Prevent A Cold (l’album precedente, del 2012, ndr) suonavamo in duo, mentre ora la line up è composta da quattro elementi, a volte siamo anche in cinque, con un’altra chitarra oltre la mia. L’approccio live con la band al completo è stato molto apprezzato e ci ha permesso di esibirci anche in luoghi dove finora non ero mai stato, club importanti e anche molti festival. Domani saremo al Mi Ami, poi a Barcellona, poi quest’estate all’Indiegeno Fest insieme a Carmen Consoli. Sono piccole soddisfazioni anche queste.

A proposito, qual è la veste live di un progetto soffuso e sussurrato come il tuo?

Sul palco le atmosfere più incantate vengono sostituite da un’energia più rock. C’è una psichedelia di fondo con cui tutte le canzoni acquistano molta più urgenza.

La chiave è un po’ quella delle ultime tracce di Sleeping Beauty, più cariche, a base di loop?

Sì, esatto. Quando oltre a me c’è anche il secondo chitarrista si creano proprio dei muri di suono à la Spacemen 3. Con la band al completo poi c’è anche la possibilità di riproporre i pezzi dei miei lavori precedenti, riarrangiati.

Perchè in effetti il sound dei primi due dischi è un’altra storia. Quello di Persian Pelican non sembra essere un percorso lineare, ne’ per ispirazioni sonore ne’ per costanza…

…sì, è come con le olimpiadi, un disco ogni quattro anni (ride, ndr).

…aspetta, vuoi dire che bisognerà aspettare così tanto per il prossimo?

No, vorrei interrompere questa cadenza quadriennale. In realtà ci sto già lavorando, non credo che stavolta passerà così tanto tempo.

Ah, menomale. Ok, dicevamo: dato che le produzioni sotto questo moniker si sono intervallate ad altri progetti, spiegaci cos’è successo nel mentre, e se e come il tutto ha inciso sul sound di Persian Pelican.

Tra il secondo disco e quest’ultimo è passato un po’ di tempo per vari motivi. Ho vissuto all’estero, poi ha avuto inizio il progetto Vincent Butter con Paola (Mirabella, che è anche parte della band di Persian Pelican, ndr), che mi ha contaminato molto a livello ritmico, con influenze caraibiche che tornano in Persian Pelican anche se non così immediate da rintracciare. Stessa cosa per quanto riguarda la tendenza alla melodia, più spiccata rispetto a prima.

Quindi quella al Primavera Sound non sarà la tua prima esperienza live all’estero?

No, a Barcellona ho vissuto per un paio d’anni, e lì avevo già iniziato a suonare con Persian Pelican, con una band di musicisti catalani, una formazione abbastanza diversa rispetto a quella che mi accompagna ora, tutto in acustico: c’erano una viola, un flauto traverso, tutto molto più “bucolico”. Poi c’è stato il Liverpool Sound City Festival, nel 2013. Per Sleeping Beauty però sì, sarà la prima volta all’estero, e il fatto che sarà a Barcellona per me è molto significativo. Conosco bene la città e l’atmosfera che si respira al Primavera Sound, dove finora sono stato solo da spettatore, e tornarci per suonare simbolicamente sarà molto importante.

Beh, direi non solo simbolicamente! Ma secondo te cos’è che generalmente impedisce alla musica italiana di varcare i confini nazionali? Perché non credo che la questione sia legata solo alla lingua, anzi, spesso invece di essere un ostacolo l’italiano si rivela un escamotage folkloristico sfruttato anche dagli stranieri (i Phoenix, tanto per citare gli ultimi).

In realtà mi sembra che negli ultimi anni siano aumentate le possibilità per far uscire la propria musica fuori dall’Italia, anche se è vero che si continua a far fatica nel fare il passo successivo, quello di affermarsi oltre i confini nazionali. Secondo me non è un problema linguistico, ne’ per gli italiani che cantano in lingua madre ne’ per quelli che scelgono l’inglese. Credo sia per lo più un problema “produttivo”, legato a dinamiche manageriali. In fondo ci sono molti gruppi italiani, dediti a sonorità più rumorose rispetto all’alt folk – Father Murphy, OvO, ma anche Soviet Soviet – che sono noti all’estero. Per alcuni generi come doom e metal in Europa c’è una rete di contatti molto ben intessuta, in cui la scena italiana è ben distinta e collocata. Insomma, al di là delle dinamiche di etichetta è tutto il contesto che funziona bene. Se sei interessante in Italia non necessariamente vuol dire che lo risulterai anche fuori, dove il percorso è necessariamente più lungo e va coltivato pian piano e costantemente.

Sì, ma potenzialmente le tue sono sonorità che fanno presa all’estero, per cui mi viene da porre la questione al contrario: cosa c’è nella tua musica che possa dirsi italiano? Perché gli eventi del Primavera Pro mirano anche a questo, ad essere una vetrina rappresentativa dello stato di salute di scene indipendenti meno conosciute come la nostra.

Ascolto poco di quello che attualmente propone il panorama italico, e credo che in Persian Pelican ci sia poco di assimilabile alla musica italiana contemporanea. Tra le cose che sento di portare in dote c’è il pop di artisti come Battisti, Tenco, Paolo Conte, Battiato, Enzo Carella. Mi piace quel cantautorato tra i 70 e gli 80 in cui la scrittura aveva un altro tipo di leggerezza rispetto a quella del pop attuale, leggerezza e pregnanza allo stesso tempo, con le strutture sonore che riuscivano ad essere semplici e insieme psichedeliche.

Per cui che succede se ti chiedo qualche consiglio su artisti italiani da tenere d’occhio? Ne hai?

Ma sì, ne ho. Ci sono molti italiani che stimo, uno è Giorgio Tuma, poi i Solki e Serena Altavilla, Alessandro Fiori, mi piace la scrittura di Giovanni Truppi. Non è che in Italia non ci siano proposte valide ma purtroppo spesso sono altre le cose che emergono e – senza fare alcuna polemica – di solito non le trovo interessanti, non mi emozionano. Sarà perchè ci trovo poca sincerità nei progetti che oggi vanno per la maggiore. Sarebbe bello se ci fosse più curiosità da parte del pubblico e più ricerca da parte degli artisti, mentre da una parte mi sembra che il gusto di chi ascolta sia in qualche modo indotto e dall’altra che chi suona segua una sorta di ricetta per il successo rapido. Ma sono scelte, nessun tipo di critica a chi fa questo, ed è ovvio che il successo è cosa gradita a tutti.

E invece a Barcellona chi ci consigli di non perdere? Dove andrai da spettatore?

Non ho ancora avuto modo di spulciare tutto il programma come si deve ma sicuramente cercherò di scoprire nuove band, i festival come il Primavera Sound sono belli proprio perché dietro ai grandi nomi si nascondo molte piccole sorprese, e poi cercherò di recuperare i live di progetti che non ho ancora avuto modo di apprezzare dal vivo, come The Magnetic Fields, Whitney e Kevin Morby.

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Gli appuntamenti a Barcellona
Giovedì 01/06 ore 21.00 | Night Pro stage – Parc del Fòrum
Venerdì 02/06 ore 13.30 | Day Pro stage – CCCB, Raval

Last modified: 21 Febbraio 2019

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