Produzioni non all’altezza per uno dei rapper italiani più credibili in circolazione.
[ 15.10.2020 | Universal Music | hardcore rap ]
Un po’ casertano e un po’ francese, Speranza non ha mai nascosto le radici transalpine, anzi, come più volte da lui raccontato e come evidente dalla sua musica, i cugini hanno avuto grande influenza sulla musica e sul suo stile, cosa che si palesa anche nell’album L’ultimo a morire.
Lavoro di tutto rispetto, che mantiene intatte le caratteristiche di Ugo Scicolone anche a guardare quella coattata della copertina che sembra fatta da ‘mio cuggino’ o il titolo, gioco di parole col suo nome d’arte di quelli che ce lo vedi a chiacchierare con gli amici mentre gli viene la genialata (“La speranza è l’ultima a morire, io so Speranza, chiamiamo il disco l’ultimo a morire”, e giù, grasse risate). Speranza è così, coatto e fregnone, e non lo nasconde, dimostrando oltretutto una enorme personalità, che supera di gran lunga la qualità di ciò che produce.
Tra le cose che più colpiscono nel disco, oltre a brani davvero eccellenti in tutto tra cui Caminante, chiaramente la varietà dei temi affrontati e la modalità di esaminarli cosa che, ad esempio, non abbiamo colto nel disco di Sfera Ebbasta. Niente a che vedere con ciò che troviamo nei giganti d’oltreoceano, ma almeno Speranza non si limita a sbraitare di soldi e tipe, racconta la quotidianità, episodi di normale criminalità, sentimenti e a suo modo amore, momenti divertenti senza mai strafare, o quanto meno evitando di forzare la mano fino a risultare inverosimile.
Il suo metodo di fare rap, il suo modo di cantare hardcore come se dovesse dare il via ad una rissa, i bassi pompati, il dialetto che si affianca al francese, appesantiscono molto l’ascolto nonostante i tentativi di alleggerimento con parentesi house e dance tamarrissime.
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Insomma, musicalmente e artisticamente c’è un abisso tra l’ultimo Sfera e Speranza: laddove il primo ha provato a fare le cose per bene, ripulite, ottime per tutti, facilmente vendibili, leggere e a suo modo nuove almeno per lui garantendosi un posto nell’olimpo di chi fa i soldi grossi ma fottendosene della qualità e onestà delle canzoni, quest’ultimo ha conquistato il trono della musica delle giostre alle fiere di paese, cafona, grezza, delinquenziale ma vera, continuando dritto per la sua strada senza provare minimamente a conquistare altro pubblico (se non coi feat di Gué e Massimo Pericolo) e, tolto l’aspetto caratterizzato dalla sua persona, non resta molto, ad essere sinceri, almeno parlando di produzioni e non di songwriting; cosa che forse sa anche Speranza, il quale cerca continuamente di focalizzare l’attenzione su di sé, sulla sua voce, sulle sue parole, sfanculando il pessimo lavoro della sua etichetta.
Il poco che resta, tuttavia, è la sua enorme forza: quando Speranza ci parla di strada, sappiamo, ne siamo convinti e lo saremmo anche se non ne conoscessimo la storia, che stia parlando di lui, della sua di strada, dei palazzoni dove ha vissuto, dei rioni in cui ha fumato o bevuto Tavernello, che si tratti di Behren o Caserta. Il rap non è solo tipe fighe, canne e soldi da fare per sfoggiare abiti Gucci su Instagram; ce lo ricorda Speranza: il rap può raccontare e cantare la solidarietà tra gli ultimi che sanno di non poter mai arrivare tra i primi.
Siamo alla fine: Russki Po Russki, brano finto serio che invece somiglia molto ad un gioco, in linea con la strana ironia caratterizzante proprio il rapper; è il pezzo che chiude L’ultimo a morire, un album che non alza molto il livello del rap italiano del 2020 e che in questo, solo in questo, somiglia proprio al celeberrimo Famoso.
Full length che forse in mano a produttori diversi sarebbe potuto essere un grande lavoro ma almeno un disco che non sembra sussurrarti “guarda come si rubano i soldi agli idioti” quanto piuttosto “chist song io, se ti piace bene, sennò cazzi tuoi”. Non lo so scrivere in casertano, perdonatemi. Ho usato il traduttore (esiste davvero).
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Last modified: 24 Novembre 2020