Addentrarsi nell’imponente cattedrale sonora messa in piedi dalla band californiana è un’esperienza a dir poco destabilizzante.
[ 01.09.2023 | noise rock, post-rock, experimental rock | The Flenser ]
Le reazioni che si scatenano al cospetto di album dalla durata mastodontica sono quasi sempre polarizzanti e di norma si collocano presso le antitetiche categorie “noia”/“esaltazione”.
Non che gli Sprain in primis, pubblicando un lavoro dalla durata complessiva di ben novantasei minuti, non sapessero a quale dicotomia di pensiero sarebbero andati incontro, ma una cosa è certa: tirare fuori un monolito del genere nel 2023, epoca in cui tendenzialmente si fa già fatica ad ascoltare un disco di mezz’ora e la soglia dell’attenzione dura pressappoco quanto un brano hardcore punk, è sintomo inequivocabile di ambizione. E forse anche di menefreghismo.
E, per quanto mi riguarda, ambizione e menefreghismo sono due tra le caratteristiche imprescindibili per una band che voglia farsi largo nell’affollatissima scena musicale odierna.
The Lamb as Effigy arriva a tre anni di distanza dal debutto di As Lost Through Collision e segna un definitivo cambio di rotta in seno alla band californiana. Dagli esordi a forti tinte slowcore dell’EP eponimo alla dissonanza rumorosa e spigolosa che caratterizzava il primo LP, il quartetto di L.A. ha via via reso sempre più potente e magniloquente il proprio sound, arrivando a partorire un lavoro che sembra quasi essere un punto di non ritorno.
Del resto, già il primo singolo estratto lasciava intuire la portata dell’album in arrivo: Man Proposes, God Disposes è pura ansia dissonante in stile Unwound, con un basso penetrante che si erge fieramente sugli scudi e una selva di chitarre imbizzarrite dal vago sentore di Polvo. E una menzione la merita anche l’interpretazione vocale teatrale e urgente di Alex Kent, che ricorda Glenn Branca in più di un’occasione.
Un pezzo che, anche attraverso il testo (“the ox turned butcher, the slave turned master, the band turned audience”), prova a ribaltare la prospettiva dell’ascoltatore e ad insinuarsi sordidamente nella sua comfort zone.
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Tra i due ciclopi di ben ventiquattro minuti contenuti nell’album, il primo in cui ci si imbatte è Margin For Error. La voce che emerge lamentosa e sofferente su un tappeto di organi conferisce al brano una certa aura di sacralità: chiudendo gli occhi, sembra quasi di sentire nell’aria odore di incenso, e l’ambientazione potrebbe benissimo essere quella di una solenne cattedrale gotica senza tempo. Per intensità e drammaticità, ripensare ai Black Country, New Road di Ants From Up There è tutt’altro che fuori luogo. Ad aumentare il pathos concorre anche la batteria che di tanto in tanto fa capolino dietro le quinte, con i colpi sui rullanti che sembrano tuoni in lontananza a preannunciare chissà quali temporali.
La seconda metà del brano assume pian piano le sembianze di una coda strumentale in pieno stile post-rock, con esplosioni sonore che richiamano Godspeed You! Black Emperor, Mogwai e simili. Una suite maestosa in cui gli Sprain scandagliano ogni anfratto della propria anima sonora.
Sebbene il gruppo californiano non spicchi certo per dono della sintesi, c’è spazio anche per episodi più diretti, stringati e condensati. La sguaiata e dissonante Reiterations, ad esempio, presenta un certo retrogusto à la Daughters e si vanta di un muro di suono davvero spaventoso.
Non da meno è la mefistofelica We Think So Ill of You, decisamente l’episodio più affine alle sonorità post-hardcore tanto care alla band. Un brano in cui i concetti tipicamente biblici di peccato, agnello sacrificale e senso di colpa primigenio, temi assolutamente centrali nell’opera tutta, sono più lampanti che mai.
I’m the guest on some obscene talk show
In a cell of moral compromise
The audience is made up of everyone that I have ever met in my entire life
Every sin I’ve ever committed is put up on display by screens hung around
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Privilege of Being, il cui inizio drammaticamente sospeso viene sconvolto da schegge sonore che sembrano destarsi da un sonno finito troppo presto, è una litania sotterranea e inquietante che sembra presa in prestito dalla penna di Michael Gira. La sensazione che traspare dal brano è assimilabile alla vaga amarezza che persiste per svariate ore dopo aver fatto un brutto sogno. Il mistico e soave finale sublimato dai violini sa invece di liberazione e salvezza, seppur fragile e temporanea.
Ologramma degli Swans che appare anche durante la cantilena oscura e maledetta di The Commercial Nude, in cui si arriva a flirtare con lo slowcore. Tra i lamenti di Kent e svariate strofe annichilenti (What am I now if not my failures?), l’imponente cattedrale sonora messa in piedi dalla band vacilla più che mai.
In tutto questo, gli Sprain non si risparmiano, anzi: l’album sembra continuamente pervaso da una sorta di irrefrenabile stream of consciousness rumoroso, un’urgenza espressiva in cui i vari brani sembrano fiumi in piena che esondano senza trovare alcun tipo di resistenza. Un songwriting torrenziale solca l’intero lavoro e si fa beffe della forma canzone.
L’ultimo scoglio da superare prima di uscire a respirare un po’ d’aria è la conclusiva God, or Whatever You Call It, l’altro macigno incastonato nell’album. L’inizio noise, sperimentale e chitarroso fa pensare che Thurston Moore e Lee Ranaldo si siano inopinatamente intrufolati in studio, ma il finale delicato e sussurrato dominato dal piano sa davvero di definitiva e ultraterrena liberazione.
Dopo novantasei minuti densi ed estenuanti, finalmente si esce a riveder le stelle. La teatrale conversazione con Dio è la sublimazione ultima della lucida follia che caratterizza l’opera degli Sprain, acuita da sparute ed improvvise bordate harsh noise, allarmi inquietanti che sembrano destarci da un torpore durato fin troppo.
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Diciamocelo: la sensazione complessiva è che tutto questo sia troppo. È evidente che una maggior sintesi avrebbe giovato alla fruizione del lavoro e aumentato la godibilità dello stesso, ma gli Sprain non sono qui per mettervi a vostro agio.
L’album è stato pensato esattamente così: complesso e sfiancante, estenuante e divisivo, per nulla incline a concessioni o compromessi di sorta. Un’opera che, nonostante gli inevitabili momenti di stanca, va presa nella sua interezza, come espressione massima dell’urgenza sonora, emozionale e filosofica della band.
A livello strettamente musicale poi, l’impressione è che le più o meno palesi influenze sonore del gruppo non siano ancora del tutto superate, ma, se si pensa che si tratta appena del secondo album in studio, il livello di ispirazione, composizione e arrangiamenti è davvero invidiabile. È indubbio che siamo di fronte ad uno dei lavori più densi ed intensi ascoltati in questi anni.
Ansia, inquietudine, senso di precarietà, instabilità emotiva. Il tutto, intrappolato per sempre in questi interminabili novantasei minuti di musica. Se avete voglia di trovarvi faccia a faccia con un totem misterioso e imperscrutabile, The Lamb as Effigy è l’album che fa al caso vostro. Sarà una partita a scacchi con la vostra capacità di resistenza.
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Last modified: 20 Ottobre 2023