La musica alternative italiana è depressa. Punto. Non mi riferisco alla pochezza di contenuti, alla scarsità della scena, al basso valore. Anzi. Di cose se ne dicono a bizzeffe nelle canzoni dei nostri connazionali che si affacciano sulla scena musicale (bisogna vedere come, ma è un altro discorso), gruppi ce n’è a iosa, la qualità tecnica e la ricerca squisitamente musicale sono alte.
Eppure non c’è scampo, mi sembra evidente: o ti piangi addosso in stile Radiohead o fai l’incazzato –ma deluso, desolato e prossimo alla sconfitta- sulla scia del Teatro degli Orrori e soci.
A nostra discolpa posso ammettere che un po’ tutto il panorama indie abbia questa tendenza al crepuscolare, con qualche eccezione forse per certe nuovissime leve americane.
Ultimamente, però, c’è un altro faro di allegrezza che sembra illuminare le strade della musica indipendente: il revival della new wave. Fàmose del male, insomma.
Gli Starcontrol sono un terzetto milanese (Laura Casiraghi, Moreno Zorzetto e Davide Di Sciascio) al secondo Ep autoprodotto, The ages of dreams, che ammicca proprio alla new wave.
Sonorità scure, cupe e malinconiche attraversano tutte e cinque le tracce, concepite e realizzate con grande competenza tecnica (pulitissimo il basso della Casiraghi, semplici, lineari anche se già sentite le linee delle tastiere, una vocalità piuttosto personale).
Persian Carpet è onirica e ipnotica (soprattutto il giro di basso e la linea melodica principale), il testo, lode alla band che per una volta dimostra che l’inglese non è solo la maschera per chi non ha nulla da dire, non è affatto banale (Throwing our feelings on a satellite / throwing our feelings on a satellite /thinking about you on my broken side /you will think about me for the very last time) ed è intonato da una voce piena, calda, che ricorda quella di Tom Smith degli Editors, fin troppo pesante per i miei personalissimi gusti, ma adeguata al genere. Il rimando ai Cure è inequivocabile per il trattamento delle melodie strumentali e l’apertura quasi ironicamente allegra. La band di Robert Smith guida idealmente il terzetto anche in A dream, dal suono particolarmente dark, e Forever unknown, in cui la voce pecca di accenti interpretativi quasi epici, inadeguati forse a intonare un testo tanto meditativo (I don’t really know what “love” means/I don’t really know what pain is/I’m just feeling like I’m drowning /I don’t really know what life is).
Heart becomes a cage (un richiamo agli Strokes forse?) sembra un tentativo di inscurire i Depeche Mode, con qualche tocchettino alla Ian Curtis.
Il grande difetto di questo revival più o meno conscio verso cui tende praticamente un terzo del panorama underground, è che ricalca in modo quasi perfetto le glorie Eighties. E con i Cure e i Depeche Mode ancora in circolazione, scusate, gli originali non possono che continuare a imperare. Senza contare che sarebbe necessario una contestualizzazione, una personalizzazione, qualcosa che motivi lo sguardo a un passato che ha più di trent’anni e che lo attualizzi, facendolo diventare espressione dei nostri giorni.
Finché l’approccio sarà quello attuale, si avrà l’impressione che la scelta sia ricaduta su certe sonorità solo per artificio tecnico e sperimentazione.
Last modified: 20 Giugno 2012
One Response