A volte mi chiedo che senso ha predicare di qualcosa, riferire di un disco o di un progetto musicale per la precisione, per parlarne esclusivamente con termini non lusinghieri. Non sarebbe meglio andare oltre, riporre il cd tra la pila delle cose che riascolteremo forse un giorno lontano o forse domani e provare a scoprire qualcosa di valido che ci permetta di riversare il ritrovato entusiasmo nelle poche righe di una recensione? A volte me lo chiedo ma alla fine mi rispondo sempre la stessa cosa e cosa dovreste averlo intuito.
L’Ep di debutto del piemontese Matteo Palazzolo è un lavoro intriso di nuovo cantautorato italiano, quello più semplice tra Dente e Colapesce, in cui sono ovviamente la voce e le parole del cantautore, i protagonisti assoluti della scena, mentre sullo sfondo chitarre, piano e poco altro non fanno che suonare come un delicato, quasi improvvisato e di certo non ricercato accompagnamento. Termini che vogliono infondere un senso di speranza, nonostante tutto, con l’aiuto di un suono e di melodie essenziali come potrebbero strimpellare canzoni azzardate da un vostro amico innamorato che imbracci la chitarra in riva al mare in una fresca notte d’inizio agosto. Il fatto è che qui tra le mani ho un disco, un ep, la copia fisica realizzata da qualcuno che, si suppone, avesse la necessità di dire qualcosa in più di quel vostro amico sfigato che pensa ancora a suonare la chitarra con la sabbia tra le chiappe mentre gli altri limonano dietro i cespugli. Qualcuno che avrà pensato di dover raggiungere qualche persona in più di quei quattro amici al bar per cui sei sempre il più bravo di tutti. Il problema è che qui c’è pochissimo per cui essere felici e non è solo questione di punti di riferimento non proprio tra i più elettrizzanti possibili.
La voce, per timbrica e stile, non è molto di più di quella di una persona che non possa dirsi stonata; i testi sono la solita solfa un po’ melensa all’italiana, le melodie affannate e affaticate, con un appeal ridotto ai minimi termini e la musica ha un’aura di apparente improvvisazione ed eccessivo minimalismo che non c’è da stare fiduciosi.
Avrei voluto scrivere altre parole; non avrei mai potuto parlare con entusiasmo di un Ep come questo ma avrei voluto scrivere che roba così, pur non trovando il mio apprezzamento e quello di un qualsiasi altro critico diffidente a ogni nuovo cantautorino nostrano, avrebbe tutte le carte in regola per funzionare con la gente, con chi non sta lì a farsi troppe pippe con un “ma ‘sta roba è sempre la stessa roba” e simili. Avrei voluto dire, come ho detto più volte ascoltando un Calcutta o un Lo Stato Sociale, che questa mercanzia alla fine venderà, purtroppo. Non posso dire neanche questo stavolta; e allora perché parlare di questo disco, direte voi? Semplice, perché spero che Stramare o chiunque altro possa fare scelte simili, dopo aver insultato me o chiunque altro come me con l’onere pessimo di fare “critica”, possa fermarsi un secondo a capire cosa fare per fare di più; cosa fare per dire nella maniera migliore possibile quelle cose che immagino, avrà da dire; che alla fine una critica, anche la più sbagliata, anche la più spietata, è sempre costruttiva se serve a spronarci a fare di più.
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Last modified: 20 Febbraio 2019