“That boy on the stage”, quel ragazzo sul palco che a distanza di trent’anni non riesce a smettere di regalarci incredibili emozioni.
Sembra una grande famiglia finalmente ricongiunta, il pubblico dei Suede. Decine e decine di persone che aspettano pazientemente in un’ordinatissima fila l’apertura delle porte prevista per le 18:30, nell’umida e uggiosa atmosfera di un sabato sera nel cuore di un campus universitario fuori dal centro di Norwich. Sotto giacche e camicie intravedo svariate t-shirts con l’inconfondibile logo della band. Hanno l’aria di chi sa esattamente cosa aspettarsi da un evento del genere, quell’espressione tipica di chi la sa lunga e sorride sotto i baffi.
E poi ci sono io, che per un attimo, ma soltanto per un breve istante, provo il fondato sospetto di non essere all’altezza di tutto ciò. Io, che per qualche frazione di secondo mi sento piccola piccola, minuscola ed insignificante, mi confondo e mi perdo in quella calca traboccante di venerazione, quasi nel timore di non sentirmi abbastanza “fan”.
Una doverosa confessione: se dovessero chiedermi quale sia il mio album preferito dei Suede, risponderei – non senza una punta di imbarazzo – Autofiction. L’album più recente, che ad oggi ancora non ha fatto in tempo a compiere un anno. L’album più punk, più maestoso, altisonante, graffiante ma a tratti estremamente morbido, incalzante ma gentile; un capolavoro la cui riuscita non era affatto scontata per una band con più di trent’anni di carriera alle spalle, più di tre decenni vissuti pericolosamente fra eccessi, cadute e risalite, scioglimenti e riunioni.
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Un tour perfettamente incastrato nell’anno che parrebbe voler segnare una sorta di rinascita del brit pop (Blur e Pulp fra gli annunci più eclatanti): l’occasione perfetta per una piacevole trasferta. Non faccio in tempo a terminare questa riflessione, ed è già il momento di immergersi nella magia.
I cancelli si aprono, la trepidazione diventa quasi palpabile, l’attesa inizia a farsi tremendamente insopportabile: tutto ciò che mi circonda trasuda emozione pura ed autentica, e il concerto non è ancora iniziato.
Il compito di scaldare la folla, già visibilmente eccitata, tocca ai Desperate Journalist. L’incantevole voce della frontman Jo Bevan si destreggia abilmente fra inquiete chitarre che riportano la mente agli Smiths, robuste linee di basso, estatiche incursioni nel dream pop e solidi innesti post punk; la band londinese rapisce l’interesse dei presenti e dimostra di essere un validissimo supporto al live della storica formazione che li seguirà.
Un breve cambio palco che sembra durare un’eternità precede l’ingresso in scena dei Suede.
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I primi accordi di Turn Off Your Brain And Yell introducono l’attesissimo frontman Brett Anderson, ancora in forma smagliante sebbene l’aspetto androgino, provocatorio e ambiguo che lo aveva da sempre contraddistinto nel fiore della carriera abbia ceduto il posto ad un piglio più maturo e consapevole; il passare del tempo lo ha inevitabilmente cambiato, ma c’è una luce nel suo sguardo e una bellissima vitalità nella sua presenza che sembra non averlo mai abbandonato.
I brani tratti da Autofiction predominano nella primissima parte del live, in un concentrato di energia ed entusiasmo, per poi alternarsi ad alcuni grandi classici del repertorio della band che mandano in visibilio l’intera platea: The Drowners, Animal Nitrate, We Are The Pigs smettono improvvisamente di essere lontane memorie degli anni ’90, si scrollano la polvere di dosso e tornano in vita più splendenti che mai.
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È quasi impossibile distogliere lo sguardo e l’attenzione dal carismatico Brett Anderson; salta, corre da una parte all’altra del palco e si scatena durante i momenti più elettrici della sua performance e regala emozioni da brividi negli episodi più intimi – degna di nota una versione acustica da pelle d’oca di The Wild Ones, suonata da solo sotto un riflettore, avvolto da un inverosimile e devoto silenzio.
What Am I Without You?, cosa sarei senza di voi: non solo il titolo di una struggente e dolce ballata, ma l’essenza di tutto ciò a cui abbiamo assistito quella sera. Mentre canta Anderson scende in mezzo alla folla più volte, abbraccia i fan estasiati in uno slancio di affetto sincero e commovente, si rivolge a loro con un unico interrogativo: “what am I without you?”.
Cosa sarebbe una band senza il proprio pubblico, cosa sarebbe un pubblico senza una band che suona sul palco: due entità collocate esattamente sullo stesso piano che si completano a vicenda, che sembrano così distanti fra loro, eppure così incredibilmente vicine e legate.
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Beautiful Ones e Trash sono i due brani finali che chiudono in grande stile un live perfetto sotto ogni punto di vista, prima che le luci si riaccendano. Una grande famiglia che si congeda dopo una straordinaria esperienza collettiva, gruppi di gente che si disgregano come particelle, ma ancora saldamente incatenati fra loro dal mantra di una promessa mai pronunciata ad alta voce.
La promessa di ritrovarsi ancora una volta al cospetto di “that boy on the stage”; tanti sconosciuti uniti più che mai da qualcosa in comune, un amore troppo grande per poter essere descritto a parole. E anch’io, non una fan di vecchia data ma una semplice appassionata incuriosita, mi ritrovo nuovamente catapultata in una piovigginosa nottata britannica e d’un tratto inizio a sentirmi una piccola ma indispensabile parte di quell’indecifrabile tutto.
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Last modified: 17 Aprile 2023