Il nuovo lavoro del cantautore statunitense afferra il cuore di chi lo ascolta e lo stropiccia fino a farlo sanguinare.
[ 06.10.2023 | indie folk, cantautorato, chamber folk | Asthmatic Kitty Records ]
Non giriamoci intorno, questo album è devastante. Raramente mi salgono le lacrime ascoltando musica, anche se, per un motivo o per l’altro, sono emotivamente coinvolto. Ma, ascoltando Javelin di Sufjan Stevens, le lacrime sono arrivate eccome, sia per i temi affrontati nel disco che per le recenti dichiarazioni del cantautore pubblicate proprio in concomitanza dell’uscita del suo nuovo lavoro. La scoperta di essere affetto dalla Sindrome di Guillain-Barré che lo ha reso incapace di camminare, i successivi durissimi mesi di fisioterapia per cercare di riacquistare l’uso delle gambe e la perdita del suo compagno Evans Richardson, morto lo scorso aprile a soli 43 anni: tutti eventi terribili che si sono riversati in questa opera.
Questa volta Sufjan ha messo a nudo la sua anima affinché potessimo scrutarla. Non mette in mostra solo i suoi tumulti interiori, ma ci fa entrare nelle fessure più oscure della sua mente e della sua vita. In pochissimi sono riusciti ad aprirsi così tanto e ad esternare i propri sentimenti senza apparire mielosi, senza rischiare di piangersi addosso solo per accalappiare nuovi fan. In Javelin, Sufjan si apre ai suoi fan che già lo conoscono da anni, alle persone che già lo seguono e lo adorano così com’è. Non vuole pacche sulle spalle, frasi fatte di conforto. Vuole solo dire a chi lo ama già “ecco la mia vita com’è ora, sto passando questo momento pesante e ve lo voglio raccontare, perché di voi mi fido”.
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Dalle prime note di Goodbye Evergreen si capisce che l’album è un lungo addio ad Evans. Un brano chamber folk, fatto di soli piano e voce, che sfocia poi in una caleidoscopica e cacofonica parte strumentale con cori di bambini, ritmi tribali, flauti, xilofoni. Tutto suona così familiare e potente, minimale eppure pieno di anima.
“I grow like a cancer / I’m pressed out in thе rain / Deliver me from thе poisoned pain.”
Nello splendido singolo Will Anybody Ever Love Me? torna il tanto amato banjo, e la drammatica malinconia a cui Sufjan ci ha abituato negli anni. Un testo violento, disperato e pieno di tormenti, che fa male a noi che, inermi, ascoltiamo le sue parole: “Tie me to a tiny wooden raft / Burn my body, point me to the undertow / Push me off into the void at last / Watch me drift and watch me struggle, let me go.”
In un racconto di Flannery O’Connor si narra la storia di un ragazzino figlio di una bianca snob e razzista nell’America degli anni ’50, che un giorno, stanco delle frasi xenofobe della madre, si alza dal suo posto per bianchi sull’autobus e va a sedersi in fondo, dove dovevano stare i neri, proprio accanto ad uno di loro. Da questo racconto prende ispirazione Everything That Rises, brano folk ridotto all’osso, con la sola chitarra acustica ad accompagnare la voce. Un pezzo che tira fuori il lato più religioso di Sufjan, che abbiamo già imparato a conoscere in Carrie & Lowell. La canzone sembra essere una supplica al cielo di sfuggire alla lotta e alla disperazione del mondo.
Come in tanti degli altri brani dell’album, appaiono cori e momenti strumentali quasi psichedelici, memori delle sperimentazioni elettroniche dell’album The Age of Adz del 2010.
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So You Are Tired è forse il pezzo più complesso e profondo di tutto il disco. Un brano che ha a che fare con il fallimento di una relazione durata per ben quattordici anni e che Sufjan ha deciso di chiudere. Quattordici anni che il cantautore mette in musica come un carosello fatto di momenti divertenti, tra malcontento, sopportazione, energia, amore, discussioni. Insomma, una relazione umana, come tutti noi probabilmente abbiamo vissuto, che a un certo punto crolla. Ma non c’è rancore e disperazione, c’è anzi il pensiero di un filo invisibile che in qualche modo rimarrà per sempre e terrà per sempre legate queste due persone ormai lontane.
“So you are dreaming of after / Was it really all just for fun? / I was the man still in love with you / when I already knew it was done.”
E alla fine arriva Shit Talk, che ci getta in un mondo di distruzione e dolore. Una sola arpa e una sola chitarra riescono a strapparci di dosso la carne pezzetto dopo pezzetto, lasciandoci doloranti e senza forze. Stevens qui affronta con un’intimità distruttiva la sua insicurezza sul dopo, sul futuro dopo la morte del suo compagno. “Potrò ancora amare qualcuno come ho amato lui?” si chiede, cantando in modo tanto sussurrato quanto potente, per poi chiudere il brano ripetendo quasi ossessivamente “I don’t wanna fight at all / I will always love you.”
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Javelin è probabilmente uno degli album più spirituali, tristi e in qualche modo edificanti di tutta la sua carriera di Sufjan. Un lavoro che combina perfettamente quasi ogni epoca e suono sperimentati negli anni in un unico pacchetto, dalla produzione cinematografica e uptempo di Illinoise alla strumentazione e alla voce semplicistiche ma ugualmente brutali di Carrie & Lowell, fino alle derive elettroniche di Age of Adz.
È un album che ci afferra il cuore e ce lo stropiccia fino a farcelo sanguinare, fino a fargli perdere la sua forma. Un disco intimo, lacerante, personalissimo. Sufjan Stevens ci ha messo dentro tutto il dolore e la rassegnazione che sentiva dentro puntellargli l’anima con tanti spilli, e lo ha fatto con tutta l’ispirazione e l’intensità che questo dolore ha provocato. Dopo ventitré anni di carriera, il cantautore nativo di Detroit è riuscito a scrivere un altro pezzo di storia del folk americano contemporaneo, e noi non possiamo che essergliene grati.
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Last modified: 6 Novembre 2023