Tra una prova e l’altra, la band concede volentieri qualche riflessione sull’ultimo album, sul panorama musicale odierno e su tanto, tanto altro.
In una calda serata di inizio agosto abbiamo incontrato i Dang Dang, quartetto di Cesena le cui sonorità new wave ci hanno conquistato sin dal primo ascolto. La band è composta da Nicola “Rospo” Bustacchini (basso), Fabio Borroni (chitarra e voce), Lara Zambelli (sintetizzatori e voce) e Matteo Castagnoli (batteria elettronica, chitarra, sintetizzatori e voce) e ha all’attivo tre album: You Should Be Happy (2016), Bellaria (2019) e Liar, uscito nell’aprile di quest’anno. Per l’occasione, i quattro membri del gruppo si sono concessi una piccola pausa dalle prove serali e si sono seduti con noi per fare due chiacchiere.
Come vi siete conosciuti e com’è nata l’idea di formare una band?
Matteo: I Dang Dang sono nati da un’idea mia e di Fabio nel 2013, circa. Io suonavo in un’altra band e nel frattempo io e Fabio abbiamo composto alcuni brani con l’ausilio di batteria elettronica e sintetizzatori, così abbiamo portato avanti questo progetto per quasi un anno. Abbiamo registrato il primo album, You Should Be Happy, ma avevamo bisogno di altre persone per portarlo in giro dal vivo. Abbiamo chiamato Nicola e Lara (che suonavano insieme in un’altra band) e così sono nati i Dang Dang per come li conosciamo oggi!
Il vostro ultimo lavoro, Liar, sta andando piuttosto bene, sia nelle recensioni che come riscontro del pubblico. Voi cosa vi aspettavate?
Fabio: Sì, il feedback è positivo e siamo contenti. Non avevamo particolari aspettative, venendo dal periodo di pandemia. Il primo disco è passato più in sordina, il secondo album, Bellaria, aveva una produzione più da studio, avendo registrato insieme ad Enrico Zavalloni, quindi ha avuto più respiro. Liar sta girando di più sui circuiti alternativi online, sia italiani che esteri. Siamo anche andati in onda in una trasmissione di Enrico Silvestrin, sul suo canale Twitch.
Era una domanda che avrei voluto farvi, in questa chiacchierata. Io seguo Enrico Silvestrin e vi ho ritrovati proprio nel suo format band aid, avendovi scoperti pochi giorni prima. La vostra musica ha un forte respiro internazionale, per cui non avevo molti dubbi sul fatto che gli sareste piaciuti.
M.: Sì, stavamo tremando perché i 9 progetti andati in onda prima di noi non erano andati benissimo… (ride, ndr)
Di chi è stata l’idea di mandare un vostro pezzo in trasmissione?
M.: Sono stato io! Lo seguo da un po’, perché credo che sia uno dei pochi in Italia a fare una divulgazione quanto meno onesta e obiettiva. Quando ho visto il bando per partecipare, gli ho inviato il nostro materiale senza troppe aspettative e invece siamo stati selezionati insieme ad altri 11 progetti musicali.
Lara: Le critiche non sono mancate, ma quando sono costruttive come ha fatto lui, fa sicuramente piacere.
Come sono stati i 4 anni di transizione tra Bellaria e Liar? Come hanno influito gli anni della pandemia sul vostro modo di lavorare?
L.: Tutti e 3 i dischi sono molto diversi tra loro. Il primo disco è molto rock, nel senso classico del termine. Bellaria ha un genere differente, più italo-disco, e la produzione è un po’ pop, io la definisco “patinata”. Con Liar l’approccio è stato diverso, proprio per il periodo di pandemia che stavamo vivendo. Abbiamo deciso tutto a tavolino, quindi la costruzione è stata differente. Il disco è nato in studio.
M.: Quando lavori in studio senza avere la possibilità oggettiva di fare le prove, tendi ad orchestrare di più gli arrangiamenti. Avendo registrato tutto in studio, abbiamo coinvolto diversi ospiti a suonare con noi, tra sax, fiati, trombe, percussioni cubane. Sono tutti elementi che ci hanno permesso di spaziare molto senza porci dei limiti.
Se volessimo dividere l’album in due parti, direi che la prima parte può essere considerata più lineare, meno caotica e più definibile, mentre nella seconda parte c’è un guizzo in più, una sperimentazione che mette in rilievo alcune tracce tra cui After The War, dalle sonorità trip hop che ricordano quelle di Mezzanine dei Massive Attack. Com’è nato questo brano?
M.: Ho creato diversi beat e ne ho proposto uno di batteria con la linea di basso (che Nicola ha implementato con un basso vero) e io e Lara abbiamo costruito il testo in modo del tutto naturale, in tempo reale, cantandoci sopra. Abbiamo utilizzato degli strumenti non convenzionali, come una kalimba e una piccola percussione indiana di legno, rigorosamente registrati dal vivo.
Nicola: Effettivamente il disco sembra diviso in due parti ma la scaletta è uscita fuori come se fosse stata pensata per essere suonata in quell’ordine anche dal vivo, come in un crescendo. I pezzi più psichedelici e atmosferici vengono suonati all’inizio, quelli più movimentati e sperimentali occupano la seconda parte dei nostri concerti, proprio come nel disco.
F.: La componente d’improvvisazione è sicuramente molto importante, anche nei live.
A proposito di live, avete aperto i live di band come i Protomartyr. Come potreste riassumere l’esperienza di aprire ad importanti formazioni della scena estera?
F.: Abbiamo aperto ai Protomartyr al Bronson di Ravenna, dove ormai siamo di casa. Se c’è un’affinità di genere con chi è headliner, come in quel caso, c’è occasione di condividerci il palco.
N.: Lo scambio con loro è stato limitato ma nel cambio palco ci siamo incrociati e ci hanno fatto i complimenti, dunque non sono così schivi come sembrano!
C’è un brano del vostro ultimo album a cui siete più legati o che vi diverte di più suonare dal vivo?
N.: Uno di quelli che mi piace di più sin da quando lo abbiamo registrato, è Cheap Chinese Clothes.
F.: Io prendo quello che ha preso lui! (ride, ndr)
L.: Io dico After The War, anche per il fatto di averla potuta cantare in un certo modo. Ma è difficile, mi piacciono tutte!
M.: Forse Liar, perché finire il pezzo in studio è stato molto complicato. Si ispira molto ai dischi dei The Sound, band che noi apprezziamo. Mi piacciono molto anche gli arrangiamenti di Not Safe Enough, uno dei pezzi più maturi che abbiamo fatto.
Sulle ultime battute c’è una cover che colpisce, cioè quella di Vamos A La Playa. Come mai proprio questo brano?
F.: La canto io, quindi tocca a me rispondere! Si tratta della cover della famosa hit, in chiave più new wave. Il primissimo demo dei Righeira di Vamos A La Playa era molto più alla Joy Division e quando abbiamo ascoltato questa versione, l’abbiamo sentita subito nostra. L’abbiamo suonata diverse volte dal vivo e ci piaceva, così l’abbiamo anche registrata e inserita come penultimo brano del disco.
N.: è venuta fuori in modo del tutto spontaneo, ci ha davvero colpito il primo demo di questo pezzo e siamo andati dritti nel creare la nostra versione.
Avete accennato più volte alla dimensione live. Avete in programma date imminenti?
N.: L’unica data sicura al momento è quella del 2 settembre alla Rocca di Cesena, dove hanno luogo diversi festival in estate. Ad ogni modo rimaniamo in casa.
C’è qualche gruppo nuovo o meno nuovo che vi sentite di consigliarci?
N.: A me piace molto l’hip hop e attualmente credo che tra le cose più belle e innovative ci siano Little Simz e Sampa The Great, tutto quel mondo hip hop “etnico” che nel mezzo ha afrobeat, elettronica, è molto affascinante. Della scena post-punk direi gli ultimi album di Viagra Boys, Shame, Idles e Sleaford Mods.
F.: Anch’io li ascolto volentieri ma ultimamente sono più orientato nel passato, sto facendo il percorso inverso.
N.: Ah, ci sono anche gli Algiers!
M.: Sì, gli Algiers sono una grande band. Mi è piaciuto molto l’ultimo disco di Puma Blue, molto elegante.
L.: Io segnalo un’artista che mi piace moltissimo, si chiama Orville Peck e ha fatto due dischi. Personaggio molto scenografico che io adoro! Tra le uscite più recenti direi lui.
Avete qualche progetto dietro l’angolo dopo Liar?
F.: In realtà pensavamo di scioglierci! (ridono, ndr)
N.: In realtà c’è una rassegna di cinema-suono a Cervia, in cui dei gruppi musicano dal vivo un cortometraggio e/o lungometraggio. Parteciperemo il prossimo anno nel mese di luglio. Di certo rappresenta uno stimolo in più per noi, qualcosa di diverso e originale.
Ho notato come, nel parlare dei vostri ascolti musicali più recenti, non avete menzionato artisti italiani. Cosa ne pensate del panorama musicale del nostro paese?
M.: La situazione è desolante, parlando di mainstream. A livello locale (la Romagna), avendo io anche gestito quest’inverno un piccolo circolo Arci, ci sono molte cose interessanti davvero, ma davvero underground, che non vedi in giro ma che esistono. Ben oltre tutto quello che viene proposto in questo momento, cioè un copia-incolla continuo. Ma il problema sono anche gli spazi. I locali non sono strutturati per accoglierci e dare una resa a chi, come noi, suona musica elettronica.
N.: Si spera che nella ripresa post-pandemia, la situazione della musica dal vivo migliori.
F.: Negli ultimi anni anche le band internazionali vengono sempre meno nel nostro paese, ed è un dato di fatto.
M.: L’età media dei presenti a concerti come quelli degli stessi Algiers, tra l’altro, si è decisamente alzata.
F.: Sì, c’è un buco generazionale tra quella che è musica alternativa e le nuove influenze che viaggiano tra trap e hip hop.
Avrete saputo della recente notizia di un probabile Primavera Sound a Torino, al Parco Dora. Cosa ne pensate di questa possibilità?
M.: Noi saremo gli headliner! (ridono, ndr) A parte gli scherzi, è una bella opportunità. Torino ha una storia musicale alle spalle molto importante ed esportare un format del genere sarà una sfida interessante.
L.: Speriamo che sia da stimolo per iniziare a fare qualcosa di realmente diverso anche qui, nel nostro paese.
M.: E speriamo anche che un evento come il Primavera Sound, fatto a Torino, possa risvegliare gli animi e far avvicinare le nostre nuove generazioni a sonorità più alternative.
F.: Anch’io penso che possa essere un’ottima opportunità. Mancano festival del genere in Italia.
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Last modified: 13 Agosto 2023