“Michael is done”, o forse no: l’instancabile creatura di Michael Gira dimostra di poter sfuggire ancora una volta agli artigli del tempo.
[ 23.06.2023 | post-rock, experimental rock, avant-folk | Young God Records ]
Solitamente non amo credere nelle coincidenze. Mi piace però pensare che, per qualche bizzarra ragione, The Beggar, l’ultima imponente fatica degli Swans, abbia bussato alla mia porta in un momento perfetto.
Mi trovo in una strana fase della mia vita, in cui mi interrogo incessantemente sul trascorrere del tempo e sul suo valore. Il tempo che è denaro, ma il denaro che non è tempo.
Quel tempo che ci sfugge tra le dita e scivola via, letteralmente, come la sabbia in una clessidra. Il tempo maledetto che perdiamo sui social network, che brucia e si consuma come l’ultima sigaretta della sera prima di andare a dormire.
Quegli attimi che sembrano non avere tutti la stessa importanza, i pochi, indifferenti secondi che impieghiamo a spegnere il pc in ufficio prima del weekend, sono gli stessi preziosi secondi che servono a frenare bruscamente e salvare la nostra vita da un incidente fatale. Misuriamo continuamente il tempo che è passato, e quello che ci resta, nella continua illusione che tutto ciò ci appartenga.
Indirettamente, e del tutto inaspettatamente, la multiforme personalità di Michael Gira ha offerto alle mie paranoie un’uscita di emergenza tutt’altro che banale.
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Intervistato da Glide Magazine, a proposito del fatto che i pezzi scritti per quest’ultimo album potrebbero effettivamente essere i suoi ultimi, Gira risponde seraficamente: “Un’acuta consapevolezza della morte, la sensazione che infonde ad ogni respiro nei polmoni, è a mio parere il modo più sano di vivere”.
È esattamente questo ciò che pare essere il tema centrale di The Beggar.
La celebrazione della vita attraverso l’esplorazione del mistero della morte, non in toni rassegnati, tutt’altro: con una pacifica accettazione, in un clima quasi mistico, spirituale.
Dopo quarant’anni di carriera alle spalle, la creatura versatile ed imprevedibile guidata dal temibile e singolare estro creativo di Gira non sembra aver smesso di produrre capolavori.
L’album, registrato a Berlino ai Candy Bomber Studio, annovera la presenza di vecchi e nuovi compagni d’avventura: abbiamo gli storici Kristof Hahn, Larry Mullins e Phil Puleo, ma anche i più recenti Christopher Pravdica e Dana Schechter.
A completare il quadro Ben Frost, compositore e produttore australiano, già ospite illustre in alcuni dei precedenti lavori della band.
Pochi accordi di chitarra introducono la solenne voce di Michael Gira in The Parasite, pezzo che apre una composizione monumentale di ben due ore di durata.
Il parassita a cui il testo fa riferimento potrebbe essere il lento insinuarsi della vecchiaia in un corpo senza armi per difendersi (“you are not free, come to me”), che ha un’unica soluzione a propria disposizione: l’accettazione della propria condizione.
E, proprio come parassiti, inquietanti droni irrompono ad infestare e sovrastare il tutto dopo il bridge di metà brano: un’atmosfera imponente, un’esperienza ascetica.
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L’opera trasuda cattivi presagi dall’inizio alla fine, che si fanno più acuti nella successiva Paradise Is Mine. Gira si dichiara consapevole del poco tempo che gli resta da vivere e si domanda, quindi, se sia pronto a morire, danzando ipnoticamente su sé stesso in un intrigante e tenebroso crescendo.
Nella lenta e salmodiante Michael Is Done, poi, egli stesso decreta definitivamente cosa succederà alla fine dei suoi giorni: “when Michael is done, some other will come”.
Il pezzo lascia intravedere, sin dai primi secondi, uno spiraglio di speranza che via via si apre sempre di più, fino a spalancarsi nel meraviglioso paradosso sonoro della seconda parte, con tanto di campane in festa e canti angelici.
Sono due le anime, tanto differenti quanto complementari, che in questo lavoro convivono e sconfinano l’una nell’altra.
Se da un lato abbiamo una componente più triste ed introspettiva, fatta di ballate folk malinconiche come quelle di Unforming o No More of This, dall’altro incontriamo uno spirito scuro che conserva e manifesta ancora un disagio quasi palpabile. La parte più efferata, indecifrabile e carica di mistero dei Cigni, con cui abbiamo imparato a familiarizzare nel corso della loro evoluzione, rappresentata qui in particolar modo da The Beggar e Why Can’t I Have What I Want Any Time That I Want?.
L’unica eccezione è rappresentata dalla piacevole deriva art rock di Los Angeles: City of Death, con i suoi riff vintage e tanto di tastiere indemoniate à la Velvet Underground.
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Un connubio, quello di cui si parlava poc’anzi, che trova la propria massima e libera espressione nel fiore all’occhiello dell’intero disco, in quello che si potrebbe definire a tutti gli effetti “un album dentro un album”.
È il caso di The Beggar Lover (Three), epica suite di quasi quarantaquattro minuti che detiene ad oggi il record assoluto di composizione più lunga degli Swans.
Si usa spesso dire che, quando siamo in punto di morte, la nostra vita ci scorra davanti agli occhi come fosse un film, fotogramma dopo fotogramma, quasi come se fossimo stati soltanto spettatori di qualcosa che non ci è mai appartenuto veramente.
In tre quarti d’ora sospesi sul filo di un rasoio, con approccio teatrale e maestoso, Michael Gira ripercorre idealmente la propria esistenza in musica fatta di sperimentazioni, eccentricità, genialità.
L’impenetrabilità quasi insostenibile che parte a ritroso da Filth, datato 1983, e si snoda tra quattro decenni fra noise, industrial, rarefazione, incursioni elettroniche e ambient, pause strozzate, voci infantili e femminili, sinistri fruscii che sfumano infine in un denso finale jazz: uno scorrere di diapositive sonore accompagnano l’ennesima conversazione incentrata su una fine preannunciata che non appare mai come un triste testamento, ma come uno dei tanti imprescindibili stadi della vita che è necessario affrontare.
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The Beggar ci racconta una storia.
Una narrazione potente, tanto terribile quanto intenzionalmente accessibile, che esorcizza la paura della morte ed intreccia l’immortalità dell’arte con la vulnerabilità dei suoi creatori e dei suoi fruitori.
Penso alla formidabile interpretazione di Brendan Gleeson in The Banshees of Inisherin, stanco, stremato, che pone fine alla propria improvvisata carriera da violinista mutilandosi con un paio di cesoie da giardino, nel suo goffo e disperato tentativo di intrattenere sé stesso mentre “rimanda l’inevitabile”.
Che cos’è in fondo la vita, se non un continuo e costante bisogno di ingannare il tempo mentre attendiamo che l’inflessibile Atropo recida il filo?
Nel frattempo, se anche voi state pensando a come investire il vostro tempo mentre rimandate l’inevitabile, non esitate: queste due ore d’ascolto ne varranno sicuramente la pena.
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Last modified: 2 Luglio 2023