Synthesizer, il richiamo brutale alla vita degli A Place to Bury Strangers

Written by Recensioni

Caos, urgenza, rumore e filosofia DIY: sta tutta qui l’essenza del nuovo lavoro della band guidata da Oliver Ackermann.
[ 04.10.2024 | Dedstrange | noise rock, post-punk, darkwave ]

“La caratteristica del rumore è di richiamarci brutalmente alla vita”, scriveva il futurista Luigi Russolo nel suo manifesto Arte dei Rumori del 1913. In quegli anni Russolo, che nasce come pittore, quindi un “non addetto ai lavori”, desta stupore con la sua personale ricerca di arte polisensoriale. Nel suo laboratorio di Milano inizia a lavorare all’assemblaggio di strani strumenti che chiamerà “Intonarumori”, ossia dei generatori di suoni acustici che permettevano di controllare la dinamica, il volume, la frequenza di diversi tipi di suono.
“Oggi l’arte musicale, complicandosi sempre più, ricerca gli amalgami di suoni più dissonanti, più strani e più aspri per l’orecchio. Ci avviciniamo così così sempre più al suono-rumore. Questa evoluzione della musica è parallela al moltiplicarsi delle macchine, che collaborano dovunque coll’uomo”, scrive Russolo.

Chissà come avrebbe reagito Russolo nel vedere concretizzarsi le sue teorie sulle sovrapposizioni di rumori – portate all’apogeo dalla scena noise statunitense e soprattutto newyorkese – e nel vedere che anni dopo, nel suo studio di New York, un uomo di nome Oliver Ackermann (che un paio di anni fa abbiamo anche intervistato) avrebbe assemblato non l’Intonarumori ma tantissimi pedali (i feticisti del genere possono andare a dare uno sguardo alla sua Death By Audio).

Partiamo da questo per celebrare una band che ha fatto del noise – o forse del neo-noise – il proprio manifesto. Autoproclamatisi “the loudest band in New York”, gli A Place to Bury Strangers arrivano su un vento nuovo, con un album nuovo ed una nuova attitudine.

© Ebru Yildiz
DIY in tutto e per tutto.

Per questo nuovo lavoro, Ackermann e i suoi compagni – Sandra Fedowitz alla batteria e John Fedowitz al basso – riconfermano la loro formula vincente, quella del DIY. Perché, se c’è qualcuno che ha preso alla lettera il senso di tale dottrina, quello è proprio Ackermann.
In effetti, dai pedali allo studio di registrazione, passando per l’etichetta, tutto ha un sapore di fatto in casa. L’etichetta in questione è la Dedstrange, tenuta da Ackermann stesso, Steven Matrick, e Mitchell O’Sullivan. Lo studio di registrazione è quello della band, nel Queens.

Synthesizer arriva a soli due anni di distanza da See Through You, un album che oscillava tra darkwave, psych rock e nu-gaze. Il disco si compone di dieci tracce abrasive e frenetiche, che si adagiano su strati di feedback e reverberi.
Con questo nuovo lavoro però la band si supera. Solo gli APTBS infatti avrebbero potuto pensare di inserire in omaggio all’acquisto del vinile un circuito elettrico per autocostruirsi un sintetizzatore. Così, se dovesse venirvi voglia di lanciarvi nell’ardua impresa di ottenere il sound tipico degli APTBS nella vostra cameretta o nel garage della nonna, potete farlo semplicemente acquistando la versione in vinile.

Disgust, il brano di apertura, è un assalto sonoro alimentato dalla frustrazione, con un refrain che ripete il titolo come un mantra, un urlo convinto. Le chitarre affettate e distorte illustrano sin dall’inizio la complessità dell’album.
Se la descrizione del pezzo non dovesse bastarvi, potete avvalervi di un sopporto visivo. Nella veste di videomaker la band ha infatti scelto Ben Hozie, cantante e chitarrista dei BODEGA che, insieme a Joe Wakeman, ha realizzato le riprese del videoclip. Distorte (neanche a dirlo) come la musica, le immagini ci trascinano in una psichedelia delirante che, secondo lo stesso Hozie, rappresenta la consistenza dissociativa della musica degli APTBS.

Un richiamo alla vita.

Arriva poi il turno di …Don’t Be Sorry, che ci ipnotizza col suo riff, e di Fear of Transformation, che ci intrappola in una paranoia che sa di darkwave anni ’80. È come ritrovarsi in piena notte, in inverno, nella direzione sbagliata. Le atmosfere cupe ed ansiogene strizzano l’occhio anche alla scena industrial di Berlino Ovest.
Join the Crowd You Got Me e Have You Ever Been In Love alleggeriscono il tiro mantenendo comunque un ritmo serrato, trascinato da Bad Idea, una pura esplosione sonora. Con It’s Too Much invece siamo davanti a un muro di noise al rallentatore, il frame in slow motion del momento di crollo nervoso.

Plastic Future ci infila di forza spirale ossessiva che si riflette anche nel testo: “Running away / Feeling nausea / Left on the fence / Left far behind/ I wasn’t good / Now I miss you / I’ll reach out today / Like I reached out before”.
Un’ossessione che continua con Confort Never Comes e che diventa disillusione (“I waited so long for something/ It never comes/ It never comes”), come in un dramma dell’assurdo di Beckett.

Synthesizer è un album tiratissimo, caotico ed urgente, in cui i rumori, quelle vibrazioni che richiamano alla vita, quegli “schiaffi in faccia risonanti”, come avrebbe detto Russolo, non lasciano scampo. E noi questi schiaffi ce li prendiamo tutti volentieri.

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Last modified: 13 Novembre 2024