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Gypsy Chief Goliath – New Machines of the Night

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Gira e rigira stai sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo e vedi che alla fine il tuo intento lo raggiungi. È sempre stato cosi, non ci sono santi, il mondo è pieno di bella musica, basta solo avere un po’ di pazienza nel cercarla. Questa volta mi è toccato scovare i Gypsy Chief Goliath, un gruppo i cui membri non sono affatto nuovi sulla scena Rock mondiale. Il gruppo è giunto al suo secondo platter, New Machines of the Night, un lavoro carico di bei riff, arpeggi e giri di chitarra, insomma un’esplosiva miscela di Blues e Southern Rock.  Girando per il web notavo che qualcuno li considera come una versione moderna dei Black Sabbath e, molto probabilmente, detto con molta onestà, chi ha diffuso queste voci non ha tutti i torti. Ad ogni modo, non appena ho ascoltato questa band e questo disco, la prima cosa che mi è saltata in mente è: questi tizi sono fra quei pochi che possono fronteggiare i Down, se parliamo di Southern.

Già dalla prima traccia, “Uneasy Kings”, è noto l’ andamento e il tipo di proposta dei G.C.G.;  questa traccia fa parte delle più belle del disco insieme a “Dirt Meets Rust”, “St. Covens Tavern”, la successiva “Got No Soul” e l’ eccezionale “This White Owl”. Andando per ordine: “Dirt Meets Rust” è la traccia più rocciosa, la song con il sound più graffiante; “St Covens Taverns” invece è probabilmente il cavallo di battaglia di New Machines of the Night, una sorta di ballata che vede una ritmata melodia che ricorda un po’ certe musiche folkloristiche. “Got No Soul” vanta di una serie di riff di chitarra da brividi insieme alla buona fisarmonica; vi basterà ascoltare come comincia; l’ultima traccia da tenere in considerazione è “This White Owl”, dalla struttura piano-forte, anche qui sono presenti incantevoli  trascinanti giri di chitarra; in questa song soprattutto i G.C.G. hanno dato dimostrazione di grande dote artistica. New Machine of the Night è un gran disco.

È piacevole ascoltarlo nel pomeriggio steso sul letto in un momento di riflessione ma lo è ancor di più durante un viaggio in macchina mentre si percorrono le lunghe autostrade. Date una possibilità a questi ragazzi Canadesi non ve ne pentirete affatto.

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Il Video della Settimana: Scatramundus – New Slave (Kanye West)

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Senza pretesa di originalità alcuna, ma animata dalla sola volontà di creare situazioni live molto naif, la Black Vagina records presenta le Marble’s Tower Sessions, sessioni acustiche su un terrazzo della ridente Foligno. L’intento è quello di inseguire (per quanto possibile) la religione del first take, facendo suonare le proprie band, le band di amici, le band affini allo spirito audace dell’etichetta e le band che, semplicemente, la Vagina consiglia. Ogni sessione è affidata ad un regista diverso e comprende un quantitativo variabile di video.

Da queste clip abbiamo scelto il nostro nuovo video della settimana, optando per qualcosa di curioso, diverso dal solito, che speriamo possa incuriosirvi e piacervi, non solo sotto l’aspetto musicale. Si tratta di un’originalissima cover di “New Slave” di Kayne West, realizzata dagli Scatramundus (band Stoner/Acid/Noise dalle molteplici influenze). Come sempre, trovate il video di seguito e sulla home per tutta la settimana.

Sito Black Vagina

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Cani di Diamante – Le Mie Creature

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Undici pezzi che sanno di amore acido sparpagliato tra arrangiamenti Rock e solide atmosfere pesantemente Stoner, è il secondo disco in studio per i bergamaschi Cani di Diamante, il frutto delle registrazioni completamente in presa diretta si chiama Le Mie Creature uscito sotto etichetta Ulula Records.  Non si scherza affatto con una visione decisamente Rock Italian Style portata gelosamente nel cuore dai Cani di Diamante, forti influenze provenienti dalle band più conosciute del Rock tricolore a comporre questo disco vario e imprevedibile. L’imprevedibilità che Le Mie Creature crea a volte risulta uno scombussola umore per chi ascolta. Il disco è tiratissimo ma con dei suoni vecchi arrangiati e suonati benissimo, la voce “precisina” e“fiscale” potrebbe piacere (perché merita davvero) ma con il rischio di stancare già dal secondo ascolto, esaltazione della tecnica per una mancanza di stimoli, un effetto innaturale quanto costruito a tavolino. Però c’è sempre un però a cui fare capo. Togliamo adesso il fatto che non ci troviamo davanti a nessun tipo di inventiva nel campo musicale e guardiamo il disco sotto la luce di un prodotto “normale” che non vuole fare la rivoluzione. L’album si apre con “Il Cantico”, pezzo bello tosto e dritto dalle somiglianze (soprattutto vocali) molto Litfiba, comunque sia una gradevole soddisfazione. Poi arriva “Seta” con un graffio dispettosamente Grunge. Il resto lo ascolto senza troppo entusiasmo perché non mi emoziono affatto nell’udire canzoni di puro Rock esageratamente italiano con delle chitarre obbligate a suoni molto sporchi per ragione di risultato. La presa diretta della registrazione risulta insostituibile per la riuscita dell’impatto de Le Mie Creature, non riesco ad immaginare una soluzione diversa, la forza dell’album deve tutto a questa scelta. Poi Rock italiano, Rock italiano, Rock italiano fino alla fine dei sensi, con un basso pesante e martellante preso in prestito alla produzione dei Tool o dei Kyuss (a voi il piacere della scelta), e la voce assume qualcosa di diverso in “Viola Cade”.  Poi Rock italiano.

E la sorpresa che non ti saresti mai aspettato arriva proprio nel finale con “Meglio di Così”, brano in cui spicca la notevole partecipazione di Nagaila, la cantante dei viaggi interstellari. Tutto sommato ci troviamo dinanzi un disco valido con alcune problematiche riguardanti la singolarità del sound, viene inevitabile il paragone di somiglianza con questo piuttosto che con quest’altro, Le Mie Creature dei Cani di Diamante risulta poco originale (e questo si era stra-capito) ma dalla buona orecchiabilità, un disco onesto di musica italiana che comunque si difende dalla feccia che ormai siamo costretti a spararci nelle orecchie. Non sarà sicuramente il miglior disco dell’anno ma neanche il peggiore. Un disco di Rock italiano.

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Bloody Hammers – Spiritual Relics

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Uno dei dischi che più attendevo era proprio questo: Spiritual Relics, il secondo platter partorito dai mastodontici Bloody Hammers. La curiosità di ascoltare il seguito di quell’omonimo album che aveva decisamente infatuato il sottoscritto era davvero tanta. A distanza di un anno dall’uscita del disco d’esordio questa piccola voglia viene colmata, la band statunitense torna a far parlare di se con Spiritual Relics. All’ascolto del disco la prima impressione scaturita riguardava la tempistica: per una band emergente fare uscire un secondo album a distanza di un anno dal precedente disco d’esordio è prematuro e poco costruttivo ed effettivamente il lavoro in questione ne fa da prova. Sia chiaro che la qualità del prodotto è buona ma non si sono scostati di molto dalla precedente proposta, anzi, addirittura troviamo qualcosa in meno. Se facciamo un confronto tra i due dischi notiamo da subito che  la band ha evitato quell’atmosfera cupa e sinistra che in un modo o nell’altro è stata caratteristica dell’omonimo; i riff Sabbatiani e quei particolari giri di chitarra sono rimasti (anche se questi ultimi nel disco precedente erano molto più elaborati) ma mancano di quella melodia oscura creata dagli effetti delle tastiere che sembrava rapirti. Insomma vi chiederete perché questo confronto cosi approfondito? Semplice: Spiritual Relics è come l’ omonimo del gruppo ma con qualcosa in meno, il che va a discapito dei Bloody Hammers e ammetto che mi dispiace dirlo perché è una band che a me personalmente piace davvero molto e ritengo che abbia grandi doti. Spiritual Relics non è affatto un cattivo album ma va al di sotto delle possibilità del gruppo, Anders Manga e soci potevano fare di più ed in questo disco invece di aggiungere hanno tolto. All’ interno del platter le uniche tracce che si fanno notare sono: “What’s Haunting You” ovvero l’ opener chee vanta un ritmo e dei giri di chitarra lodevoli; “The Transit Begins” che molto probabilmente è l’unica traccia che conserva quel fascino oscuro del quartetto e la rocciosa “Flesh of The Lotus” dallo sgargiante ritornello. Infine troviamo una canzone di chiusura che ti spiazza; trattasi di “Scienze Fiction”, una melodica canzone molto lieve e pacchiana in cui in risalto c’è la chitarra acustica. Come ho sottolineato spesso i Bloody Hammers hanno ottime potenzialità; purtroppo però credo siano stati troppo precipitosi e la creazione di questo lavoro è stata presa troppo sottogamba. Potevano fare molto di più.

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Rhyme – The Seed And The Sewage

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Ero davvero curioso di ascoltare i Rhyme; già tempo fa sentii parlare di loro. Poi, nella mail, mi capitava di trovare spesso della pubblicità da parte della My Kingdom Music che mi evidenziava l’ uscita del loro nuovo disco, stipulando cosi delle discrete premesse per non portarla troppo alla lunga. Mi decisi a prestargli attenzione. Le news li presentavano ottimamente, come lo stesso le foto promozionali e il loro logo;  insomma, tutto si preannunciava nel migliore dei modi, almeno fino all’ ascolto del nuovo disco, The Seed And The Sewage.  I Rhyme, sia  chiaro, sono un gruppo ben preparato tecnicamente e durante l’ ascolto dell’ album ve ne accorgerete ma,  venendo al nocciolo della questione, il loro intoppo stilistico è tutto nella eccessiva ripetitività che, precisamente, si nota con evidenza da “Fairytopia”, la quinta traccia del disco, in poi.  Il primo ascolto fila liscio ma già il secondo diventa pesante da mandare giù; magari potranno attrarre le prime tre canzoni che in un modo o nell’ altro hanno i loro perché: “Manimal” è pulsante e ritmata, una buona apertura tutto sommato e poi “The Hangman” e “Blind Dog”, anche queste di un certo spessore.  “Slayer To The System”  si ammorbidisce un po’ rispetto alle tre precedenti  ma comunque la struttura piano/forte fa il suo effetto. Da questo momento in poi il disco diventa piatto e monotono e la sensazione è che sia un vero peccato perché i Rhyme hanno talento.  The Seed And The Sewage è cosi un disco che finisce per non convincere poi molto; sicuramente raggiunge la sufficienza perché in un modo o nell’ altro la stoffa c’è ma ha lasciato un po’ l’ amaro in bocca il loro sforzo, che attenzione, non è minimo ma probabilmente superficiale. Il disco parte discretamente e mostra ottime intenzioni ma purtroppo sfocia nella ripetitività e nella tediosità che senza ombra di dubbio finiscono per influenzarne il giudizio. Voglio esagerare comunque; a parer di chi scrive questo disco poteva essere un capolavoro, le prime tracce, come dicevo, hanno davvero una marcia in più e un potenziale certamente notevole ed è da li che si capiscono i Rhyme. Non posso che attendere il prossimo disco con la speranza che questa volta facciano davvero centro, perché tutto sommato possono farlo, eccome.

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Alessandro Bevivino – I Corti di Verbo Nero Original Sound Track Scene Eliminate

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Un personaggio tutto da scoprire Alessandro Bevivino. Sempre pronto a stupirci con la sua carica e la sua energia artistica e propositiva. Anche in questo I Corti di Verbo Nero Original Sound Track Scene Eliminate fa praticamente tutto da solo. Testi, musiche, produzione e artwork. Più che un artista un vero e proprio arsenale d’ispirazione per lo più capace di non prendersi mai troppo sul serio, scherzando e dissacrando con intelligenza tutto il mondo che si è creato intorno. Questo disco non disco come lui stesso lo definisce è solo l’ultima (crediamo, perché non so cosa stia ancora combinando) fatica che in realtà rappresenta un modo per divertirsi e sfuggire dalla realtà. Non è un disco Metal, Western, Southern, Punk afferma Bevivino. Forse è Stoner, forse Folk Rock, forse Blues, forse Rock sperimentale aggiungo io. A dirla tutta è tante cose eppure ha un sound estremamente vintage, classico e affascinante. Dieci pezzi che mi sfido e vi invito a scoprire uno a uno, incespicando magari nelle sue follie, nei suoi richiami, nelle sue oscure profondità d’animo. Bevivino ondeggia con la sua chitarra in una danza calda come l’inferno, sputando sabbie e fumi di rituali indigeni nordamericani (“Fuga di Zakkaria W. Da Broken Pub City”) oppure facendosi trascinare in meandri rappeggianti (“Out of Control”) o ancora sciogliendosi in vortici lisergici e bollenti (“Preludio”, “I’Ma Shit Blues”), perdendosi in contorte intromissioni Glitch ed Experimental Rock (“Western Session”, “Verbo Nero”, “Minimal Cross In ‘Auge”) o accennando ritmiche quasi Punk (“Luisa And Bomber”). La sua voce riesce ad adattarsi perfettamente al ritmo che contraddistingue i pezzi, andando a convergere in timbriche stile Piero Pelù, ma anche Eddie Vedder se non addirittura Garbo (per non andare a scomodare i nomi più altisonanti della Western music a stelle e strisce). Per Bevivino un disco che è quasi solo un gioco. Ascoltatelo e capirete che ancora una volta non sta scherzando perché c’è tanta qualità anche in questi ventidue minuti di scene tagliate, compendio necessario a un film fenomenale.

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Shed of Noiz – Re: Son

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Ci son voluti poco più di quatto anni per la pubblicazione del primo album degli Shed of Noiz, band fondata da Mattia Salvadori, Dario Sardi, Giulio Panieri e Luca Bicchielli che esordì dal vivo al premio “Rossano Fisoni” nel dicembre 2008.
L’impatto con “Re: Son” è davvero all’insegna del Rock anni 2000 con la titletrack che mette subito in chiaro che la stoffa del gran disco c’è anche se con la successiva “Inno Qui” il gruppo riesce persino a superarsi nella bravura e nella precisione, con un sincronismo davvero perfetto.
“Immutevole” invece inizia con tutta l’irruenza che avrebbe un pezzo dei Rage Against The Machine (molte le similitudini con “Killing in The Name of”) e la lingua italiana non limita la violenza sonora anche se rimarrebbe da porsi la domanda “ma come suonerebbe in lingua anglofona?”.

“Corri Dora” invece riprende la dolcezza dei Marlene Kuntz, quelli di “La Canzone Che Scrivo Per te” tanto per capirsi, ma lascia anche spazio a rari momenti un po’ più impulsivi ed aggressivi.
“Psico Area” se il disco fosse in vinile sarebbe l’ideale inizio della facciata b, per il suo spezzare il tutto, perfetta nel suo ruolo da spartiacque sonoro con “Aurora” altra traccia dalla delicatezza unica e dal testo molto profondo (bellissimi i versi “dentro il vento io mi trascinerò nel silenzio se ti incontrerò”).
“Senza Peso” avvicina l’ascoltatore alla fine (peccato!) con sonorità che ricordano da vicino i PorcupineTree di Steven Wilson e Richard Barbieri e si conquista il ruolo di piccolo fiore nel giardino del moderno rock progressivo.

“Infetto” chiude all’insegna del miglior Stoner all’italiana ma anche dei Queens of The Stone Age e Tool, tanto per non perdere i riferimenti esteri.
Una prova di esordio insomma perfetta in ogni singolo dettaglio con un drumming sempre impeccabile e preciso a far da padrone con basso, chitarre e voce non relegati  al ruolo di semplici comprimari come spesso succede in questi casi ma a quello di protagonisti di un’amalgama che ha davvero dell’incredibile.
Peccato solo che le tracce siano appena otto, sarebbe stato perfetto magari includere anche gli ep  Shed of Noiz (2009) e Primates (2010) anche per non perdere il filo del discorso di una maturità acquisita negli anni grazie anche a tanti concerti a fianco di band quali Ministri.

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Witche’s Brew – Supersonicspeedfreaks

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Eccolo il disco che attendevo con entusiasmo, Supersonispeedfreaks, il secondo album degli straordinari Witche’s Brew. Venni a conoscenza della band di Mirko e soci qualche anno fa, la fortuna fu che li scovai proprio con il loro disco d’esordio White Trash Sidesow. M’innamorai del disco, aveva una sua personalità, un suo charm, un sound che ti coinvolgeva e ti scuoteva. Rimasi con un ottima impressione del gruppo, adesso finalmente mi ritrovo con il loro nuovo disco tra le mani e posso cominciare a dire che le mie impressioni iniziali erano esatte e che i Witche’s Brew non hanno affatto deluso le aspettative, anzi. La band è senza ombra di dubbio migliorata con gli anni, ha affinato la tecnica e con qualche giusto cambio di line up è riuscita a far conciliare il sound Doom a quello Rock’n’Roll con un eleganza che in pochi hanno, il tutto condito con quella classica spruzzatina di psichedelia che tanto piace al quartetto. Supersonispeedfreaks è un piacevole disco che si fa ascoltare con scioltezza e senza mai stancare. Di questo lavoro sono interessanti le atmosfere che si vengono a delineare le quali ricordano un po’ i tardi pomeriggi nel Far West, immaginate di stare in un Saloon a bere whiskey e nel frattempo intorno a voi ci sono loschi individui che si azzuffano per un Poker mancato accerchiati da stupende ragazze che danzano. La caratteristica dei Witche’s Brew è che la loro musica in un modo o nell’altro deriva da un viaggio mentale, li puoi ascoltare in momenti calmi, bui o più scatenati e il loro effetto varia ma ogni occasione è sempre quella giusta. “Vintage Wine” (l’opener) presenta il disco e la band, il risultato è ottimo, i riff di chitarra sono eccezionali ed anche se l’intera durata della traccia è sui dieci minuti non c’è un solo momento che possa annoiare. “Children Of The Sun” è invece più atmosferica, meno aggressiva rispetto a quella citata prima ma comunque con i suoi picchi. Con “Magic Essence” arriva il momento di scuotersi, in questo pezzo è evidente la vena Rock’n’Roll dei Witche’s Brew, non tanto i riff ma gli assoli anche se di breve durata fanno la differenza. La conclusione del platter è affidata a “Supersonic Wheelchair” in cui ancora una volta si nota il gusto della band per il Rock datato anni settanta e come nella canzone precedente ci si può muovere e scatenare a colpi di “schitarrate”. I Witche’s Brew sanno cosa vuol dire fare musica e sanno come creare un album di pura arte, Supersonispeedfreaks è la loro consacrazione.

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AnotheRule – AnotheRule

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Lo ammetto, sono un nostalgico. Subisco tutto il fascino del supporto fisico: rimuovere l’involucro, aprire il cofanetto, sfogliare il libretto leggendomi i nomi di chi ha collaborato, di chi ha suonato e prodotto e, infine, prendere tra le mani quell’ambita circonferenza sono parte di un rito a cui difficilmente riesco a dire di no. E quando questo capita per un lavoro che mi è chiesto di recensire non posso che esserne felice.La band in questione sono gli AnotheRule, giunti al loro omonimo debutto discografico dopo un’esperienza di palco e di live che si sente e fa la differenza. Ufficialmente nati nel 2008, in realtà radicano la propria storia nel 2002 quando, con il nome di Mayday, fanno il botto nella Londra underground firmando per la Fire Records e condividendo il palco con mostri sacri del calibro dei QOTSA. Tornati a Roma alla fine degli anni zero ripartono all’attacco con questo rinnovato progetto.

Un sound caldo, maturo, denso, sospeso tra il grezzo e il sognante pervadono questo lavoro. I nostri oscillano tra il caldo rock di matrice Soundgarden e fugaci visioni di psichedelia, in un connubio che vive di un’anima unica e sorprendentemente definita, costellata qua e là da qualche divagazione di chiara origine stoner. Il tutto magistralmente diretto da una formazione che sa fare il proprio mestiere, che mostra un’ottima preparazione ed una capacità di rendere i brani dovuta sicuramente all’intenso lavoro live.Si inizia con un mid tempo sognante, giocato sui tom, su un giro ipnotico di chitarra ed una voce onirica ed evocativa: “Power Trip” ci catapulta direttamente all’interno dell’aspetto più psichedelico dei nostri, ripreso in brani come “Overboard”, “Thinking on” e “Wizen Up” e sapientemente diluito in altri momenti del disco. “Chew Your Pain” e “Who I Am (I Am Not)”, seconda e quarta traccia del disco, rientrano tra i brani più sfacciatamente hard rock. Riff d’impatto, groove sostenuto: la band romana convince anche su lidi più tradizionali.

AnotheRule” è un disco solido, interessante dall’inizio alla fine e ben suonato. I nostri passano a pieni voti questa prima proposta in studio, presentandosi già come una band matura, con un proprio sound e una propria direzione musicale. Ottimo anche il lavoro in fase di produzione. Sicuramente degna di nota è la capacità di aver impresso un marchio sonoro sul disco, rendendolo personale ed inequivocabile, aspetto che a molte release di questi tempi manca, rendendo molti lavori piatti ed anonimi. Tutto in questo lavoro parla la lingua degli AnotheRule e non ci si può sbagliare, non ci si può confondere con altri gruppi: la personalità concreta e importante dei trio romano si fanno sentire. E sicuramente non dovreste ignorarli.

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Devil – Magister Mundi Xum _ The Noble Savage BOPS

Written by Novità

Insomma i Devil si sono decisi a partire in quarta, quasi come se volessero dire <Vogliamo tutto e subito>. Certo, perché a distanza di un anno dal loro disco d’esordio, Time To Repent, sfornano una raccolta che comprende il loro primo demo Magister Mundi Xum e i loro primi singoli “TheNoble Savage” e “Blood Is Boiling”. Si sono dati da fare, c’è volontà di farsi notare con la loro musica, con il loro repertorio, con le loro creazioni. Il disco è un immancabile occasione per chi ha apprezzato i Devil, se Time To Repent è stato di buon gusto questa raccolta non potete perdervela. Chiaro che lo stile è quello Stoner e Sludge alla Black Sabbath condito all’Hard Rock dei Blue Oyster Cult vecchio stampo per rendere l’idea. E’scontato a questo punto che ascolterete poco di nuovo, alcune tracce sono addirittura presenti nel disco d’esordio altre invece, come i due singoli citati prima o “Welcome The Devil”sono in un certo senso la sorpresa della piccola compilation. Personalmente ho apprezzato tantissimi il loro debut album, i Devil hanno dimostrato già in quel momento di avere carattere, con questo lavoro hanno confermato di avere uno stampo eccezionale. Logicamente i lavori di produzione e di registrazione sono molto più avanzati, questo perché ora la band ha un etichetta alle spalle che gli ha potuto permettere un certo tipo  di lavoro e perciò è nota la qualità dei lavori precedenti e di quelli presenti nella raccolta. Detto brevemente, se i  norvegesi Devil vi sono piaciuti  e volete approfondirli, questo è il momento giusto.

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Ogun Ferraille – My Stalker Doesn’t Love Me

Written by Recensioni

Nel momento esatto in cui è partita “Barney’s Version”, prima canzone di questo breve My Stalker Doesn’t Love Me dei cosentini Ogun Ferraille, ho dovuto aprire il mio word processor per buttare giù qualche riga. Ne sono sempre più convinto, alla musica italiana servono due cose: le idee, e, perdonatemi l’espressione, il cazzo duro. Che non è questione di genere, badate bene, anche se gli Ogun Ferraille bruciano di un rock viscerale e anarchico come pochi: si può avere il cazzo duro anche se ci si chiama Uochi Toki o Nicolò Carnesi.
Ma sto divagando.
Torniamo a bomba agli Ogun Ferraille, che ci portano sette tracce di carta vetrata, di acido muriatico, di soda caustica. Ma prima di dilungarmi su ciò che mi ha colpito positivamente, vorrei cambiare routine ed enumerare ciò che secondo me non va in questo disco.

Primo. Non so se in passato il trio calabro abbia tentato o meno la strada dell’italiano. L’inglese si sposa bene con la vocazione rock del disco, ma qua e là mi fa storcere il naso. Sarà la prova di dizione non eccelsa del cantante Mauro Nigro, sarà la frustrazione (provinciale quanto volete) di poter seguire poco dei discorsi che si fanno, consapevoli, in qualche modo, che ci sia qualcosa di più, sotto le urla: e che questo qualcosa sfugga è un peccato.

Secondo. Nonostante tutto il disco, violenza o meno, si percepisca arrabbiato, duro, anche se in modi diversi, la prima metà è quella che stupisce e incanta di più. Come dicono loro, “un LP con due parti ed un intermezzo. Per un unico, breve, graffiante discorso”. Il salto di mood, tra le due parti, è notevole: da “Interrupted Speech” in poi i tre si banalizzano leggermente, nonostante il sound rimanga diretto e aggressivo. Si cercano soluzioni più morbide, più classiche, se vogliamo, e si abbandona la scia che la botta iniziale aveva lasciato.
La botta iniziale, dunque. Ecco ciò che mi ha conquistato subito: i primi tre brani sono uno schiaffo, sì, ma col gomito. I suoni ti disturbano, le strutture, labirintiche, ti confondono. I tre cosentini suonano rapidi, in faccia, imprecisi ed immediati, ma proprio nel senso che si ha quasi l’impressione che ciò che sentiamo sia un’esplosione momentanea, un attimo perso nel tempo in cui gli Ogun Ferraille hanno dato tutto, subito, tanto da svuotarsi completamente, in nove minuti scarsi di musica grezza, scalena, deforme, imperfetta, ma così vera che è quasi fastidiosa (anche se la voce, a volte, non riesce a reggere la pressione, ma è più una questione di timbro che di capacità vocali).

Intendiamoci, non è che l’altra metà del disco sia inutile: c’è roba buona anche da quelle parti, e qualcosa dell’afflato iniziale continua anche lì (penso soprattutto a “Peter”, con le sue arie noise, o alla cupezza di “Sleeping With My Ghost”). Però lì gli Ogun Ferraille diventano più inconsistenti, si confondono un po’ di più tra la folla. Peccato, perché  “My Stalker Doesn’t Love Me” poteva avere i numeri per diventare, nella sua interezza, un piccolo, sporco gioiellino di rock duro & puro.
Nonostante questo, “My Stalker Doesn’t Love Me” ha una sua coerenza, una sua ragione d’essere. È veramente un “unico, breve, graffiante discorso”: anche perché le sette tracce s’inanellano una attaccata all’altra, senza una pausa, un respiro, un vuoto, come a farci sentire immersi in un interrotto live fatto di sudore e mal di gola, densità sonora e calore. Gli Ogun Ferraille sostengono infatti che sia il live la loro dimensione principale, e noi non facciamo fatica a credergli. E, personalmente, spero di riuscire a beccarmi qualche sputo dalla prima fila, se e quando, prima o poi, passeranno da Milano.

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