A volte è difficile giudicare un disco, soprattutto quando si tratta di dargli un voto (cosa, secondo me, poco utile ai fini di proporre o presentare un lavoro). Prendiamo ad esempio The Relation Between Brain And Behaviour dei tre Aidan: sette tracce strumentali che toccano lo stoner meno fantasioso, si fissano su elucubrazioni sludge/doom e un impianto metallaro, lento e cupo, fatto più di atmosfere che di pressione sonora. Ve ne potrei parlare in mille modi: dire che non picchiano forte quando ti aspetteresti, che non c’è niente che rimanga in testa (stiamo parlando di una musica di non proprio facile ascolto, dopotutto), che il gusto per l’horror un po’ si perde in progressioni armoniche dark che non brillano d’inventiva; d’altra parte, potrei anche dirvi che come colonna sonora di una disperazione, di un’angoscia, di un’apocalisse gli Aidan ci starebbero benissimo, che le atmosfere bagnate (lente, ossessive, scure) sono costruite con sapienza, chitarra, basso, batteria ed effetti che echeggiano, infestano, disturbano, e che hanno sottesa, s’immagina, una ricerca anche poetica, di senso (quale, non vi saprei dire). Quindi, che fare? Proporre e presentare, senza dubbio, come ho cercato di fare finora: farvi capire se è il disco per voi, o meno. Il voto? Solo un mio personale indice di gusto. Ora tocca a voi: scaricatelo (qui) e fateci sapere cosa ne pensate.
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Herba Mate – The Jellyfish Is Dead And The Hurricane Is Coming
Con la ristampa in 200 esemplari in vinile di questo bel disco del 2009 “The Jellyfish is dead and The Hurricane is coming” della band ravennate Herba Mate da parte della Blind Proteus di Simona Gretchen, tornano ad esalare i nuclei originari dello stoner desertico, avido di dolcezza e dipendente dalle sabbie aride e granulose di Kyuss e QOTSA, quelle belle desolazioni compresse e amplificate che evocano riti senza tempo e macerie fumanti di deliri post-qualsiasi cosa.
L’alchimia della band è insaziabile, si alimenta su basamenti ed ingredienti dilatati, massicci e stordenti, un rombo costantemente oscuro che erutta senza abbellimenti atmosfere percussive e cupi motori ipnotizzanti tra riffs e pelli esangui, un acido e sinistro incedere che è poi un crescendo inesorabile di subliminali ricerche che mordono tutta la tracklist, una sequenza di dissonanze e frequenze high level impressionante; certo è una ristampa con qualche nuovo innesto effettato, un disco da ascoltare dopo una nottata di baldoria come sustain sonoro all’infinito, privo dell’arroganza di insegnare qualcosa di nuovo, ma che tutto sommato riesce a rimettere insieme una eco degli anni Novanta inestimabile nella sua giusta devastazione d’ascolto.
Il marchio di fabbrica Herba Mate è incrollabile, avvolge arcani profondi e affascinanti, primordiale nel morso e beatificante nelle evoluzioni esplosive, buone le chitarre e il suono vintage valvolare che griffa l’orecchio e animo, animo che ribolle nelle cavalcate psichedeliche di “Imargem”, nello shuffle settantiano che corrobora “Aragosta vs Panther”, animo che si stordisce nelle allucinazioni offuscate che rimbalzano in “Nicotine” o nella tribalità malefica che echeggia tra le volte di “Bugs”; è un disco stratificato, organico e tutto d’un pezzo, perfetto nell’esprimere il sottovuoto arido delle grandi dissolvenze elettriche, e che coglie in pieno – anche da sobri – l’urgenza oppiata dello stoner più puro e della lisergia in musica “Sputnik”.
Passa il tempo ma rimane ancora bello come una tempesta di fuoco.
Alphabetagamma – Alphabetagamma
Gli Alphabetagamma sono una band di Pesaro nata nel 2008 che quest’anno, dopo aver realizzato solo un demo, decide di regalarci il primo vero album, l’omonimo appunto ABG.
Giacomo Pieri (chitarra), Christian Del Baldo (voce/basso) e Stefano Aluigi (batteria) sono una band che ha deciso di mettersi in mostra nel modo peggiore possibile. Imitare. Come se non volessero fare altro che suonare quello che gli piace, senza sbattersi troppo, senza fottersene del giudizio mio o di chiunque dovesse ascoltarli. Imitare senza paura. Suonare senza troppo sforzarsi. Imitare per paura. Sottile la linea. Menefreghismo fasullo, di chi si pubblicizza sul MySpace. Menefreghismo illusorio di chi in fondo cerca giudizi positivi. Ingenuità o menefreghismo. Sottile la linea.
Lasciamo stare il discorso sulle ovvie influenze. Anche il più innovativo rocker di questo pianeta ne ha riversate tante nei suoi lavori. Parafrasando Dali’, quelli che non vogliono imitare qualcosa, non producono nulla. Lasciamo anche perdere il discorso sulle citazioni che, per quanto accettabili, dovrebbero essere quantomeno limitate. Qui abbiamo momenti in cui si sfiora l’assurdo.
Per capirci, la musica che sto ascoltando è un misto di Stoner Rock e Stoner Metal, che non disdegna di ricalcare i riff ossessivi e semplici del Grunge dei Nirvana o sfiorare il Post-Core e il Nu-Metal, soprattutto nelle parti vocali, avvicinadosi anche ai System of a Down, specie nel terzo brano.
Ora vi starete domandando perché questo sarebbe imitare.
Semplice. Premete play e capirete. Kyuss. Kyuss. KYUSS. Sono loro vero? Ovviamente in un momento di grave crisi artistica ed esistenziale ma questi sono i Kyuss. Sound potente e sporco, riff taglienti e ipnotici, percussioni rabbiose, voce che oscilla tra calma e follia urlata. Non sono queste, parole che usereste per descrivere lo Stoner Rock dei Kyuss di Odissey, tanto per citare un pezzo di riferimento? I Kyuss meno Blues e più Metal per capirci. Il suono caratteristico della band di Palm Desert è stato masticato, ingoiato, e digerito a lungo dagli Alphabetagamma che ora, con lo stomaco pieno, hanno deciso di vomitare tutto nelle nostre orecchie. E quella roba verde che ora sgocciola fino a terra non è certo blues per il sole rosso.
È delusione.
Oltretutto, se avrete la pazienza di arrivare al pezzo numero sette, avrete in cambio il disonore di ascoltare una chitarra che copia spudoratamente da quel folle genio di Steve Albini o meglio dai suoi Big Black, ( ai più giovani verranno in mente gli Shellac, altra band di Albini). Un sound inconfondibile che nessuno al mondo è riuscito e riuscirà mai a far passare per originale.
Dunque abbiamo tra le mani un lavoro che imitando i Kyuss, scopiazza qua e là, tra grunge e Big Black. Merda, penserete. E invece non direi. È questa è la cosa più odiosa.
La cosa che fa più rabbia è proprio il fatto che il disco non sia brutto. Il pezzo che apre l’album è anzi molto interessante. Concretamente superiore rispetto al resto. Mostra un’anima propria, cattiva, ci offre i denti come un cane rabbioso. La voce si districa splendidamente tra le lame della chitarra e le martellate della batteria e finisce per liberarsi e urlare carica, viva, pungente e stridula come metallo gelido. Sembra la strada, non proprio facile e in discesa, verso un sound personale, maturo. Il resto è un’altalena tra pezzi mediocri e improponibili e altri tanto interessanti, quanto sempre troppo legati a quella necessità di imitare dovuta alla paura di osare. Se è vero che l’imitazione è la più sincera delle adulazioni, il tempo dei falsi idoli deve però finire.
Il disco quindi non ha nell’aspetto estetico/musicale il suo limite primo. Ci sono tante cose da migliorare, un suono da sporcare e da personalizzare ma c’è qualcosa da cui partire. Ripartire da quella carica sparata nei primi minuti, da quel suono, da quella voce, quel timbro. Partire da li e cercare una strada nuova, diversa, una strada dove mai nessuno sia mai passato prima. È necessario che ogni nuovo pezzo acquisti una sua vita propria, sia distinto dal sound del gruppo e nello stesso tempo sia parte fondamentale per generare le caratteristiche proprie degli ABG. Partire da quei pochi minuti, guardando al resto come a un’ esperienza formativa e far si che la prossima volta che ascolteremo distrattamente musica, il nostro cervello possa ricordare il nome dei pesaresi ad ogni loro nuova nota.
Gli Alphabetagamma sanno suonare, hanno la carica giusta, hanno ora maggiore esperienza. Quello che resta da fare è osare. Staccarsi dal passato e buttarsi dal palazzo in fiamme. Qualcosa da fare troveranno nella discesa. E comunque volare anche per un solo minuto è sempre meglio che bruciare vivi.