2015 Tag Archive

Frisino – Tropico dei Romantici

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Tropico dei Romantici non è un nuovo parallelo terrestre dedicato agli innamorati, ma è il titolo dell’album di debutto di Antonio Frisino, in arte solo Frisino. Pugliese di nascita, è un cantautore giovane ma al tempo stesso “d’epoca”, che propone un Pop immediato, orecchiabile con marcati richiami a melodie d’antan e uno stile che trae spunto dai grandi cantautori italiani degli anni 60 come Battisti ed Endrigo, ma anche da autori più moderni come Dalla, Conte e Venditti, senza escludere i contemporanei Di Martino e Tommaso Paradiso dei Thegiornalisti. Tropico dei Romantici è un album classico dove la forma canzone strofa-ritonello-strofa è padrona assoluta, anche se i vincitori indiscussi sono i ritornelli coinvolgenti e diretti, dei veri e propri tormentoni già dal secondo ascolto, come nei brani “ Lontanissimo” e “Che Cosa Vuoi da Me”. Frisino, da bravo cantautore, pone molta attenzione alle storie che racconta e come, anticipa il titolo, il territorio sul quale si muovono i dieci brani è l’amore, sentimento che impregna totalmente i testi, che si tratti di riflessioni amorose, storie reali o incontri immaginari. Il punto di vista si sposta di frequente, a volte è personale altre è quello di un semplice narratore, ma da qualsiasi prospettiva Frisino ci propone un ritratto spesso amaro a tratti nostalgico del sentimento per eccellenza. Si parla di tradimento in “Con o Senza di Te”, di rimpianti amorosi in “Domani è un Altro Giorno” o rotture disastrose in “Le Tue Parole”.  Nonostante le pene d’amore narrate le melodie, altro punto fondamentale del disco, sono leggere, ritmate, ammiccanti, i suoni sono puliti, ariosi senza ombre e tormenti atavici. La delicatezza di Frisino e degli arrangiamenti dona ai brani intensità e veracità privandoli della parte più oscura e cupa. Tropico dei Romantici è un album per cuori teneri, per la maggior parte autobiografico, ma che racconta esperienze e sentimenti universalmente condivisibili che generano immediata empatia e coinvolgimento. I brani sono fatti per essere ricordati facilmente e richiamano alla mente le canzoni di Dalla e Battisti, che hanno cresciuto due, se non tre generazioni d’italiani. Un debutto promettente per un genere, quello cantautoriale italiano, sempre più ricco e vario.

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The Underground Youth – Haunted

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Tanta cassa dritta, voce cupa, monotona e suoni sommessi e ovattati. Non è un caso che The Underground Youth provenga dalle stesse terre della più grande band Post Punk mai esistita, i Joy Division. Il solco è quello ma con sfumature sintetiche e psichedeliche maggiori, un’attitudine rivolta più al Gothic che al Punk e un suono tendenzialmente Wave che se non fosse per l’indolenza delle ritmiche sarebbe perfetto per far ballare i vampiri quasi a guisa di violenta Ebm (“Drown in me”). Quelli che sembrano i punti di forza di Haunted finiscono inevitabilmente per diventarne gli stessi limiti. Laddove le chitarre osano con più insistenza, si evidenziano non solo le influenze della band di Manchester ma anche le similitudini con formazioni contemporanee ben più note e talentuose. Stessa cosa possiamo rilevare nella sezione ritmica e se da un lato ci si potrebbe aspettare un qualche conforto dalla voce, non resta che rassegnarsi anche alla sua banale piattezza e timbrica involontariamente sgradevole. Tutte queste considerazioni sembrano far protendere il giudizio verso una solenne bocciatura eppure c’è qualcosa di buono in questo settimo Lp della band formatasi solo nel 2009 (certo quello che non le manca è la prolificità). Quando le derive psichedeliche si fanno più marcate e Craig Dyer e soci prendono le strade più Experimental Noise Rock (la parte iniziale di “Self Inflicted” ad esempio o “The Girl Behind” che può ricordare certi Have a Nice Life o ancora “Slave”) mostrano tutto il loro potenziale talento e il rimpianto è di non aver assistito alla definitiva crescita stilistica di una formazione che probabilmente avrebbe potuto dare molto di più al genere pur avendo fornito prova di evoluzione considerevole rispetto agli esordi.

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Jesus Dies Alone – Jesus Dies Alone

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James Rossetti (alla voce) e Marco De Masi (a tutto il resto: chitarre, bassi, sintetizzatori, cori), dopo avventure varie sotto altrettanto vari moniker, si stabiliscono definitivamente nella nuova casa Jesus Dies Alone con l’esordio omonimo, porta d’ingresso di un palazzo sintetico e polveroso, oscurato da uno spleen onnipresente e accidioso. Voci strascicate, basse, in un mare di sintetizzatori e batterie finte che creano una penombra che rischia troppo spesso di risultare posticcia e poco a fuoco. Le canzoni ci sono, anche se non sorprendono né innovano nulla; le movenze sono mimetiche, tendono a farsi dimenticare, e i suoni non catturano, non conquistano. La voce pure c’è, o almeno ci prova, ma non riesce (nemmeno lei) a superare la china e a farsi trovare oltre un orizzonte che, dietro la bruma, s’indovina ancora lontano. Un disco che fa il suo senza risultare particolarmente geniale, che dimostra quel tanto di stoffa che può bastare per non risultare fastidioso, senza però quel valore aggiunto che gli farebbe superare con un salto la mera sufficienza.

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L’Introverso – Una Primavera

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“Mi rialzo da me, mentre affondano i marciapiedi”. L’Introverso da Milano stanno per dare alle stampe il loro primo album, Una Primavera, lavoro che parla di sconfitte incassate e di immediate resurrezioni con un taglio Brit Pop, Indie Rock. Dall’opener “Tutto il Tempo”, gradevole presa di coscienza di stampo Coldplay (anche se a loro piacciono gli Oasis)  si passa a “Manie di Grandezza”, pezzo con volontà catchy dal ritornello orecchiabile che risulta essere il brano centrale del lavoro ma che non riesce a pieno nell’intento del singolo spaccatutto, vittima di un eccessivo controllo e determinismo. D’improvviso però ci troviamo di fronte ad un calo, un freno a mano fisiologico poco motivabile che una band apparentemente “macchina da guerra dal vivo” non può di certo permettersi: “Il Finestrino” parla (anche) di sesso in macchina ma non percepiamo nulla di un momento così intimo; “Uguali” sceglie un arrangiamento irritante di stampo sanremese come anche “Prima o Poi”. Cosa succede, quindi? I quattro di Milano, e questa è una nota di gran merito, hanno ascoltato, studiato e fatto proprie molte formule tipiche del Brit Pop senza però, e questo è il problema, riuscire a plasmare  un prodotto nuovo e fresco e rimanendo spesso aggrappati a un certo Pop melodico italiano da (bassa) classifica. Ma non tutto è perduto, un disco va ascoltato fino alla fine per dare un giudizio. Sai che c’è, potrebbe andare meglio e credimi avrei diritto al meglio. Sento di rinascere, da oggi voglio una primavera per me: questo estratto dalla traccia di chiusura “Primavera” racchiude l’essenza di ciò che L’Introverso vuole esprimere. Semplicità, molto contenuto e una poetica diretta e precisa che, insieme a “Estranea” (dentro c’è tanto Marlene Kuntz) va a risollevare le sorti di un lavoro indubbiamente sopra la sufficienza ma a tratti incomprensibilmente tedioso. L’introverso ha idee, know-how e voglia ma per arrivare dritti al cuore dell’ascoltatore (come afferma lo stesso Nico Zagaria, voce della band), magari proprio come un “Pugno allo Stomaco”, bisogna liberarsi dalla gabbia virtuale e cercare di osare sempre di più.

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Sorry, Heels – The Accuracy of Silence

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Ci sono voluti dei finlandesi per dare una svolta alla carriera degli italianissimi Sorry, Heels. Sarà a causa di un genere piuttosto internazionale come il Gothic Rock, spesso non compreso appieno nella nostra terra. Se la fiducia al giorno d’oggi sia un azzardo o meno lo scopriremo ascoltando The Accuracy of Silence, loro primo album ufficiale dopo due EP autoprodotti, passati in sordina. Le atmosfere decadenti di “Light’s End” e “Carving a Smile”, gemelle di Joy Division e Bauhaus, non sono ben sorrette dalla voce piatta di Simona. Scoprirò più avanti che non sono episodi isolati: c’è un piattume di fondo in quasi tutto il disco. Pochi momenti rompono il confine dell’approssimazione. Sono racchiusi nel bel ritornello di “Last Day on Earth” e nella linea melodica di “Fragments”, un brano che sta alla New Wave come i Germs stanno alla Musica Classica. Anche la cover di “N.I.B.” dei Black Sabbath interpretata in chiave Gothic resta un esperimento evanescente che grida vendetta. In The Accuracy of Silence è un sound crudo e spietato a spadroneggiare, soffocando la vena artistica dei quattro ragazzi laziali, lasciando il senso di un lavoro svolto a metà. Mi aspettavo un Van Gogh e mi sono trovato tra le mani un dipinto di Teomondo Scrofalo. Delusione.

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Federico Bagnasco – Le Trame del Legno

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Il titolo del primo disco solista di Federico Bagnasco, diplomato in contrabbasso, esecutore militante in orchestre e formazioni di vario genere, arrangiatore, compositore, è una metonimia: il legno altro non è che il contrabbasso stesso, emanazione diretta, in questo caso, della fisicità dell’autore e del suo spirito. Il disco, interamente musicale, è una sperimentazione incessante di tutte le potenzialità fonico-timbriche del contrabbasso, potenziate e amplificate con l’ausilio dell’espediente elettronico. Si va da echi più classici, a tratti puntellati di contrappuntismo bachiano, come in “Spire” e “Apnea”, si passa per sonorità quasi etniche che rimandano ai didjeridoo in “Tempo al Tempo”, fino a successioni scalari dal sapore debussiniano di “Coincidenze Combinate”. Il suono del contrabbasso, in realtà, è meno elaborato elettronicamente di quanto l’incipit possa lasciar intuire. Le tracce successive, infatti, non sono che un’esplorazione timbrica delle diverse altezze che lo strumento può intonare, conducendo l’ascoltatore in una specie di trance estatica che si risveglia al settimo brano, “Velato”, con dissonanze struggenti che aprono a solari accordi maggiori inaspettati. Intensa è “AbIpso”, in cui addirittura si può sentire il respiro di Bagnasco che accompagna il gesto musicale in un crescendo agogico, dinamico e patetico che non può lasciare indifferenti. L’arrangiamento elettronico – più una modifica dell’onda che una vera e propria manipolazione tout cour – si percepisce in “Sterpi e Frattaglie”, dove echi delay e distorsioni creano un’atmosfera paurosa: l’impressione è di essersi realmente persi in un bosco fitto e insidioso da cui non c’è scampo alcuno. Con “Legno Pesante” si torna a sonorità tribali ed etniche, che proseguono, per certi versi, in “In Vano”, la traccia forse più sperimentale di tutto il cd, che sfocia in un atteggiamento chitarristico – se mi concedete il termine – nella successiva “Comunque”. Un certo Noise orchestrale regola e anima “Residui”, mentre il disco va a chiudersi in una marina e onirica “Lunari di Giada”. Il rischio di cadere nella noia – mai nello scontato, questo no – è altissimo per un lavoro del genere, eppure Federico Bagnasco riesce a catturare l’attenzione dell’ascoltatore traccia dopo traccia. Un disco da meditazione, di quelli da accompagnare con una buona grappa e una certa quantità di sigarette e pensieri. Mai banale e davvero consigliato.

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Blonderr – Corporate Standards

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Dopo l’EP con cui hanno esordito lo scorso anno, la consonante in più al termine del proprio nome non è l’unica cosa che i Blonderr hanno aggiunto al progetto. Ci avevano lasciati con cinque tracce frutto di un esperimento estemporaneo per loro stessa ammissione, che stuzzicavano palati Garage e Shoegaze senza riuscire però a compattarsi per dar forma a un lavoro che suonasse omogeneo. Tergiversando per evitare una dichiarazione di intenti a cui probabilmente all’epoca non erano pronti, con Radio la band sceglieva di debuttare con qualcosa che somigliava più ad un saggio dei propri gusti personali che a un vero e proprio biglietto da visita.
Se tra le prescrizioni di allora avevamo indicato anche la necessità di levigare, all’ascolto di Corporate Standards bisogna ammettere che la scelta di farlo fino a un certo punto è stata quella vincente perchè, nel voler rintracciare la peculiarità dei Blonderr, questa è senza dubbio la possenza, non la precisione nella mira. Per il resto, a chieder loro di che pasta sono fatti, li abbiamo ritrovati con la risposta pronta.

Otto tracce dal minutaggio ridotto, compresse di Garage Rock della migliore razza, l’evoluzione più auspicabile per questo trio laziale che delle propensioni italiche non sa che farsene e si tuffa di testa nella psichedelia di tradizione californiana, ma che pure segue una certa tendenza nostrana alle fughe sonore oltreoceano (Sonic Jesus, Flying Vaginas).
Il Punk Rock è declinato in ogni sfumatura senza perdere il pregio dell’omogeneità del prodotto finale, recuperando l’intuizione migliore tra quelle manifestate un anno fa: emblematico dello iato che intercorre tra Radio e Corporate Standards è “More Drugs Blue Sky”, saggio di ruvido Post Punk dal ritmo incalzante che apriva l’EP e che ritroviamo qui rimodellato nei volumi e nei dosaggi, testimonianza consapevole del notevole salto di qualità (vale la pena ascoltare in sequenza la versione originaria e l’evoluzione successiva).
“Out of the Way”, piacevolmente sul confine tra Shoegaze e Noise Hard Rock, fa sfoggio di chitarre aggressive ma capaci di ordire trame fitte e avvolgenti, con la voce riverberata di Lorenzo Vermiglio a far da sfondo per poi insinuarsi tra le distorsioni.
Il ritmo si fa più sostenuto in “Electronics”, a base di percussioni nette e implacabili che impongono il mood à la Thee Oh Sees, pochi efficaci elementi tenuti insieme da una nuvola di ronzio Noise, la stessa che pervade tutti gli episodi migliori, come “Jet Set”, che sembra fuggita dalle corde di Ty Segall.
Bentornati.

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Intervista a Frisino

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Antonio Frisino, in arte Frisino, è un musicista e cantautore pugliese. Si avvicina al mondo della musica, in particolare a quello della chitarra, in età adolescenziale.
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Malamadre – Malamadre

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Il progetto Malamadre giunge a coniugare note e matite: il trio abruzzese, infatti, muta gli undici episodi che compongono il disco in una webserie di fumetti musicali, coinvolgendo autori e disegnatori e sconvolgendo il concetto di semplice trama sonora. Un palmares ricco di riconoscimenti nonostante una vita artistica tutt’altro che longeva è il loro biglietto da visita. “Olio”, la prima traccia dell’album, consente alla band di vincere il premio come Miglior Voce al Red Bull Tour Music Fest, Miglior Voce a Streetambula Music Contest e il Pescara Rock Contest, consentendo ai Malamadre di aprire agli Afterhours nella loro data pescarese. Il brano ha un sound attinto dal Grunge, con aperture bucoliche create dal nulla dalla voce di Nicholas Di Valerio. “Chi non Muore si Risiede” prosegue su questa scia e al genere cantautoriale si somma il vigore di Soundgarden ed Alice in Chains. La ballata “Mammarò” e la successiva “Il Tango del Portiere” sono unite dall’invisibile collante della rassegnazione, con testi tristi che ci raccontano di vite al tramonto, senza cadere nella facile retorica. D’ora in avanti sarà tutto un batti e ribatti: a un pezzo simil Pearl Jam risponderà una parentesi con un approccio più bilanciato, spesso e volentieri con risvolti acustici. Racchiudere simili concetti e idee in undici brani mostra una spiccata autostima, nonostante sia ben contenuta, non scivolando mai nell’emulazione o nel plagio più becero, preservando una propria identità. Disco da ascoltare e riascoltare.

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Andrea Rock – Hibernophiles

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Hibernophiles è un titolo curioso per un album, una di quelle parole che richiedono di essere analizzate per capirne il senso, e in effetti, un significato esiste, sia letterale, sia per il suo autore Andrea Rock. Wikipedia ci da una mano e ci dice che Hiberna è il nome che i romani usavano come riferimento per l’Irlanda, di conseguenza se sei un Hibernophilo sei una persona legata a doppio, se non triplo, filo alla cultura irlandese. Andrea Rock scegliendo questa parola come titolo della sua prima opera da solista, si dichiara quindi amatore incondizionato dell’Irlanda e della sua cultura e ci fornisce subito le giuste coordinate per inquadrare gli undici brani di Hibernophiles.

L’album ha senza dubbio due grandi caratteristiche: una forte impronta autobiografica e la perfetta rappresentazione degli stilemi della musicale irlandese, anche se filtrati e contaminati dalle precedenti esperienze musicali di Andrea. Il cuore selvaggio e irlandese del disco trova forza ed espressione nel singolone “Bury Me a Irish”, conforto nel classicone ritmato e festaiolo “Galway Girl” di Steve Earle, una certa commozione ed emozione nella ballad “Flag”. Il brano “Larry the Legend”, omaggio a Larry Bird, star del basket NBA completa la rose dei brani che usano al meglio le sonorità e i canoni del genere. All’interno di questo mondo popolato da prati verdi, pinte di guinness, violini, banjo e fisarmoniche spuntano qual e là brani meno Irish e maggiormente influenzati  dal Classic Rock come la chitarrosa “Never Stop Drinkin”, la bonjoviana “What It Take To Be a Man” e “Be Still My Heart”, e anche ispirati da un pizzico di Punk come la cover di “Story of My Life” dei Social Distorsion,  anche se il nuovo arrangiamento la priva della grinta e del piglio che la contraddistinguevano. Il racconto di Andrea si chiude con “Not Afraid” un mix ritmato di Hip Hop e banjo, che spazza via le belle immagini di prati verdeggianti e ispirate a favore di un brano più moderno, vicino ad un pubblico giovane. Hibernophiles è un album ben fatto, senza cadute clamorose e molto orecchiabile, fedele alla dichiarazione d’amore dell’autore e per questo forse pecca di poca vivacità. Le tematiche e le storie, perlopiù autobiografiche, sono condivisibili e raccontano un mondo fatto di passioni, esperienze di vita, amici, pub  e pinte di guinness. Tutto questo lo rendono diretto, accesibile e facile da ascoltare.

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Intervista ai NUDi

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Alex Gavaghan – Binman of Love

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L’ex chitarrista della band Garage/Blues cult dei The Cubical, si cimenta nel suo primo lavoro solista con queste dodici tracce di cantautorato old style realizzate con la collaborazione di Keith Thompson. Brani intensi e melodici, minimali nell’arrangiamento ma non per questo meno capaci di evocare l’immediata ricerca di godimento del Pop come ovviamente scavare nella parte più emozionale della percezione sonora.

Lo stile, per quanto abbia la capacità non risultare anacronistico, pesca a piene mani nel Rock statunitense anni 50 e 60, nonostante le origini dell’artista siano nel Regno Unito ed egli operi a Liverpool. Si passa agevolmente dal movimentato Rock’n Roll ad un più consono Pop solo vagamente sporcato dall’attitudine Rock del britannico. Altri elementi caratterizzanti questo Binman of Love sono da ricercarsi nel Doo-Wop, con le dovute cautele del caso, nel Pop barocco appena accennato nei momenti più aggraziati, ovviamente nella tradizione Folk e Country. Una certa tendenza al Lo Fi talvolta regala briciole di Psych Pop, così come l’immediatezza e la leggerezza di taluni pezzi finiscono per scivolare nel Teen Pop e nel Bubblegum. Un disco che quindi, non solo riesce a suonare come un gradevole ascolto senza troppo impegno, ma che pare quasi un moderno compendio di tutta una tradizione yankee di cui la riscoperta pare essere dietro l’angolo.

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