2015 Tag Archive

Bonomo – Il Generale Inverno

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Bonomo, aka Giuseppe Bonomo, annata 1978 da Taranto, esordisce solista in queste dieci tracce di Pop Rock melodico, comodo ma competente, raccontando di tutte le cose che, nella vita, ci bloccano, ci rallentano, ci contrastano, simboleggiate dalla suggestione che dà titolo al disco: Il Generale Inverno. Bonomo mette nell’album tutta l’esperienza accumulata negli anni. Ha studiato, e si sente; ha suonato, e molto (vanta collaborazioni con, tra gli altri, Alberto Fortis, Filippo Graziani, Matrioska) e d’altronde anche in questo frangente si occupa di praticamente tutti gli strumenti – esclusa la batteria – e gli arrangiamenti, oltre a comporre tutti i brani del disco. I pezzi sono tutti molto orecchiabili e con una freschezza che arriva diretta all’ascoltatore senza eccessive complicazioni, anche grazie ai testi, che, se pure difettano in ricerca e stile, portano una leggerezza Pop che, date le coordinate del disco, può solo giovare alla sua fruibilità. Si sente l’amore per la musica d’oltremanica e d’oltreoceano (gli echi californiani de “La Visione”, o i riff Funk di “DNA”) e per il Pop elettronico (“Insonnia”), si sente la forza con cui si cerca di – e si riesce a – rendere ogni brano un potenziale singolo, anche perché Bonomo non sembra fare troppa fatica nel giostrarsi tra mood pure molto diversi, regalando al disco una varietà invidiabile: tra l’energia de “La Mia Rabbia”, pezzo alla Bluvertigo, e la dolcezza sospesa de “I Pesci Non lo Sanno” c’è un abisso, così come tra il Pop da radio primi 2000 di “Otto Ore al Giorno” e di “Araba Fenice” e la freddezza in 6/8 de “L’Ultimo Valzer”. Il Generale Inverno è, sostanzialmente, un disco di solido Pop Rock senza eccessive profondità ma che lascia un piacevole sapore in bocca, anche se magari senza rimanere sul palato molto a lungo. Le fondamenta per costruire qualcosa di più personale e inconfondibile ci sono tutte. Aspettiamo il seguito.

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June and the Well – Gudiya

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Seconda prova per i June and the Well, creatura sognante fatta di Rock emozionale, colori nineties e melodie carezzevoli. I quattro, capitanati da Luigi Selleri, già con i Suburban Noise, si lanciano in sei brani per quasi venticinque minuti di chitarre distorte ma morbide, batterie agili e un cantato (in inglese) dolce e dall’apparenza spensierata, nonostante il disco sia dedicato ad una bambina indiana vittima di violenza, di cui la title track porta il nome. Il lavoro ha il pregio della leggerezza: è un album breve e rilassato, che anche sulle batterie più appuntite si fa trovare liquido e scorrevole, anche sotto le chitarre più spesse fa affiorare una melodia trascinante, comoda, suadente (come esemplifica bene “S-low”, con un’apparizione di Matilde Davoli). Nostalgico, certo, ma non senza una rilassatezza di fondo che lo rende un ascolto piacevole e frizzante, per quanto disimpegnato. In più suona decisamente bene, che non è un male. Da ascoltare nelle domeniche di sole, malinconiche a tradimento.

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To Kill a King – To Kill a King

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Secondo lavoro per la band che esordì due anni orsono per Lead Astray Music con l’album Cannibal With Cutlery e mezzo passo indietro rispetto a quel gradevolissimo misto di Orchestral e Psych Folk che era. L’album omonimo di Ralph Pelleymounter (voce e chitarra acustica), Josh Platman (basso), Jon Willoughby (batteria), Ian Dudfield (chitarra elettrica) e Ben Jackson (sintetizzatore e tastiere) riprende la strada battuta dagli illustri colleghi Mumford & Sons e Lumineers ma, rispetto al precedente lavoro, mette da parte una certa attitudine Post Punk Revival stile The National per calcare territori più Pop, lavorando maggiormente sulle melodie e quindi rinunciando alla complessità degli arrangiamenti per dedicarsi piuttosto ad una gradevolezza estetica immediata che se da un lato aiuta l’orecchio a farsi una prima buona impressione, dall’altro finisce per suonare tediosa dopo diversi ascolti. To Kill a King è comunque opera decisamente curata in ogni suo intimo particolare, ed in questo I londinesi dimostrano di essere se non maestri, certo allievi talentuosi ma l’evidenza della ricerca dell’unanime consenso finisce per ridurne l’appeal verso chi dalla musica cerca ben altro, oltre al semplice intrattenimento da siesta pomeridiana. Undici tracce tanto armonicamente gradevoli quando profondamente deludenti rispetto a quelle che erano le promesse lanciate in un non troppo lontano 2013 ne fanno un’opera da godersi giusto il tempo che si spenga la fiamma d’un fuoco troppo freddo.

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Malerba – La Deriva dei Sogni

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Devo dire che ho avuto molta difficoltà a giudicare questo primo album dei bolognesi Malerba. Sebbene sia un esordio, appare come un disco d’esperienza, un disco che pesca qua e la nel tempo e spazia in tutto lo scibile musicale italiano. Il risultato è interessante ma a tratti insipido. Sicuramente da apprezzare c’è il lavoro di produzione al limite del maniacale e alcuni spunti di buona musica italiana. L’incipit non è dei migliori e non rende giustizia ai bolognesi. “Francine” è un po’ sciatta come il personaggio di cui si parla: un tentativo di aggressività sonora non totalmente riuscito. Prova di forza che guarda troppo alle prime produzioni dei Litfiba. “Dove Crescono i Fiori del Male” vacilla per la poca “pompa” (master un po’ trascurato?), ma richiama i vecchi fasti della New Wave con tanto di testo cupo e voce dalle tenebre. Per sentire la prima perla dobbiamo attendere l’arrivo di “Sunshine”. Soffice, parlata, una vera confessione a cuore aperto. Forse troppo simile a “Volo Così” di Paola Turci ma comunque personale e vincente. Superlativi anche l’incastro con la voce femminile e il sapiente arrangiamento di fiati. Perfetta canzone d’amore, per nulla scontata. Il tema caldo del lavoro sbuca fuori con un titolo divertente come “Il Blues della Cassa Integrazione”, che però scade in un testo banalotto. Peccato perché qui basso e batteria tirano avanti un bel groove. Il tempo storto di “Ricordando te – Fingere di Essere Felice” ci sbilancia con qualche slancio Prog  Rock. Purtroppo non ci fa cadere, dopo lo sgambetto iniziale; questo pezzettino strumentale ci conduce a “Marylin” porta ad un suono più standard, acustico e moderno ma con un testo vero e sincero, che richiama la mitica “Albachiara”. Nonostante le rullate incerte, il pezzo è trascinante insieme alla sua storia di dita che toccano punti proibiti e i lati oscuri del piacere. Ci lascia poi con una frase che esalta il realismo del pezzo: “Il sesso è una scintilla che illumina l’amore”. Come dargli torto? Anche perché il filone acustico continua con “Allo Specchio”, chiacchierata, intima, quasi adolescenziale e che sta volta fa l’occhiolino a Luca Carboni. Con lo stesso stampo ma meno riuscita è “Tra le Pagine”, un po’ stanca e lenta rispetto alle precedenti. Rimane l’epica di una melodia molto sentita “la tua voce che resta dopo la piena, resterà qui per sempre ma smarrita, tra le pagine che hai scritto della mia vita”. La band chiude il cerchio poi con citazioni del romanzo “Cuore di Tenebra” e una vera cavalcata Progressive che non manca di regalarci le ultime melodie in bilico tra PFM e Timoria. Difficile davvero è valutare un lavoro così complesso e eterogeneo, a volte povero e a volte pieno di idee, che riescono ad inondarci e stupirci. Sicuramente da ascoltare, perché la musica italiana potrebbe non averne necessità e voglia di ascoltare una band così, ma sicuro ha bisogno di stimoli e
di voglia. E qui ne troviamo da vendere.

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Zulus – II

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Preparatevi per bene. Disponete corpo e mente ad essere calpestati da un’orda di note barbariche pronte a fare razzia di ogni vostro sentimento benevolo, leste a distruggere la vostra serenità d’animo, decise a stuprare le vostre orecchie, devastare il vostro cuore, seminare sul terreno arido delle vostre certezze l’inquietudine pura, la rabbia disillusa e il desiderio malsano di una violenza gratuita. Il sospetto che qualcosa di pericoloso stia per accadere vi sarà sopraggiunto già con la visione della cover, dettagli dell’opera Procne & Philomela di Hazel Lee Santino. Secondo la mitologia greca, Procne era la moglie di Tereo, re della Tracia e sorella di & Philomela. Tereo, innamorato segretamente e non corrisposto di Philomela, la violentò e le taglio la lingua per non permetterle di informare la sorella. Questa ci riuscì comunque e Procne uccise il figlio avuto col re e glielo diede in pasto. Il resto della storia potete trovarvelo da soli. Parte da queste tragiche premesse la band del New Jersey per la realizzazione di II, ovviamente il secondo album dei quattro Aleksander der Prechtl, Daniel Martens, Jeremy Scott e Julian Bennett-Holmes, tutti con alle spalle esperienze di stampo Punk e Hardcore (Battleship, Necking, Teenage Nitewar, Rice, Prsms, Aa, Fiasco, The Homosexuals, Wand). Ironicamente, i quattro yankee dichiarano che il progetto Zulus nasce come un tentativo di formare una pop band da parte di ragazzi che chiaramente non sono in grado di scrivere canzoni pop. Meglio così, perché se già l’esordio omonimo sembrava avere tanto da dire, con la sua dirompente miscela di Gothic e Post Hardcore, il seguito è una conferma piena e una godibilissima variazione sul tema con le sue derive (qui il marchio Aagoo Records è indelebile) Psych Garage. Le chitarre affilate come rasoi, seguono le ritmiche morbose e asfissianti, martellando con loro e generando un Noise Garage dal sapore acido. A condire il tutto la voce malatissima, che sembra sprigionarsi dal cuore nero di un palco sudicio, completamente ricoperto, offuscato, da una nebbia di fumo acre e marcio. Ascoltare II è come assistere all’ultimo delirante grido d’un folle in procinto di ricongiungersi con il signore delle tenebre. II è malessere psichico allo stato puro che prova a darsi una parvenza di lucidità e non fa altro che acuirne il delirio.

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Avere cura di sé || Intervista a Levante

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È un pomeriggio di metà settembre, inspiegabilmente afoso per essere a L’Aquila. La scia dell’estate appena trascorsa è di buon auspicio per il live di questa sera, penultima data del tour di Levante, al secolo Claudia Lagona, cantautrice siciliana trapiantata a Torino che deve il successo a uno sconosciuto di nome Alfonso.

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Jamie XX – In Colour

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A dover scegliere un colore da abbinare a quello che fu l’esordio omonimo del progetto The XX ci si trova inevitabilmente ad optare per il nero. Se imboccare la strada da solisti è una tentazione a cui in pochi riescono a resistere, ben venga se serve a dimostrare che c’è dell’altro, e in questo senso Jamie Smith di certo non ha perso l’occasione di sfoggiare il suo intero spettro cromatico.
La tavolozza è a tinte sature come quelle che campeggiano sull’artwork di In Colour, cromie squillanti eppure mai pacchiane: un esito quantomeno imprevedibile, considerato che la materia in gioco è essenzialmente Rave culture, distillata in undici tracce e diluita con estetica estremamente contemporanea.

Che Smith fosse un fuoriclasse nello stravolgere la logica di qualsiasi composizione musicale armato di estro e campionatori era chiaro da tempo. Dopo aver fatto sfoggio delle proprie abilità sull’opera di Gil Scott-Heron (è sua la materia che nel 2011 Jamie si diverte a smembrare e ricomporre in chiave Lo-Fi in We’re New Here), è ora pronto a mettere in tavola un progetto compiuto e personale, un pastiche retrofuturista di vocazione innegabilmente Pop che mentre sibila nostalgia per l’House dei chiassosi anni 90 scivola elegante verso un variopinto avvenire sonoro. Niente peripezie dall’ascolto ostico: le sintetiche trame sonore di In Colour si arrampicano sui beat in un gioco di giustapposizioni raffinate ma ammiccanti, lungi dal suonare pretenziose.

L’attitudine DIY esplode sin dall’incipit con l’essenza Jungle di “Gosh”, per lasciar spazio all’EDM sofisticata e terribilmente catchy di “Sleep Sound”.
Al fianco di Smith nell’intagliare alcune delle sue gemme di indietronica ci sono gli alfieri fidati. Il timbro suadente di Romy Madley-Croft suona a tinte cupe sulla ritmica Hip Hop di “See-saw” (nella cui produzione c’è lo zampino di Four Tet) e ammicca inevitabilmente al sound alla The XX in “Loud Places”. Quello di Oliver Sim impreziosisce e fluidifica i vellutati beat di “Strangers in a Room”.
Unico episodio che recide il morbido fil rouge che percorre il disco è la stridente “I Know There’s Gonna Be (Good Times)”, in cui la presenza di Young Thug spinge il risultato finale verso derive Rap invadenti e un po’ scontate. In compenso, la doppietta finale (“The Rest is Noise”, “Girl”) chiude perfettamente il cerchio, cristallizzando la cifra stilistica della personalissima rilettura di Smith della club culture d’oltremanica.

La riproducibilità esclude il beatmaking dal novero delle arti? Potrà anche darsi, ma sembra però che tanta bellezza Pop figlia illegittima del proprio tempo farà a meno del titolo nobiliare senza crucciarsene.

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De Rapage – Droga e Puttane

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È uscito lo scorso luglio l’ultimo lavoro dei De Rapage, la band abruzzese che, nessuno  sa bene per quale motivo (forse nemmeno loro), porta un nome francesizzante che ognuno pronuncia un po’ come cazzo gli pare. Io, personalmente, lo pronuncio con tanto di “r” catarrosa iniziale: Rrrrrapage. Insomma, chi parla francese sa di cosa sto parlando.

Un lavoro corposo, composto da 12 brani ufficiali, 11 intermezzi e 2 ghost tracks, che porta il titolo di Droga e Puttane. È un concept album che la band stessa definisce come il proprio disco definitivo, nel quale si racconta la storia di Johnny Swindle, giovane perditempo al quale, scampato a morte certa, appare Gesù Cristo che gli offre la possibilità di vivere ancora a patto di dedicare la sua vita al Rock e di restare sempre fedele alla musica vera. A Johnny vengono subito in mente droga e puttane, suoi personali traguardi per affrontare l’impresa. Fra prime prove, battaglie con i vicini di sala prove, coverband e colpi di culo, Johnny otterrà il successo ma allo stesso tempo si vedrà costretto a piegarsi al mercato.
Una storia avvincente che si sviluppa tra le pieghe del Rock più classico, tra assoli, riff, e sezioni ritmiche incisive. Diversi gli stati emotivi che si affrontano: dalla più spavalda “Free Albany Cappotation” alle più drammatiche “Droga e Puttane”, “Compromessi” e “Vai con la Morte – Living Ingulammammete”. Non mancano nemmeno sonorità distorte (“Inferno Larsen” e “Bordello Acerbo”) e tonalità più rivolte al Blues (“Coverband”).
In pieno stile De Rapage anche i vari intermezzi, necessari per non perdere il filo logico della storia, ma che non perdono l’occasione, come tutti gli altri pezzi, di ironizzare su tutti quei cliché che accompagnano la vita di una rockastar. Un esempio? L’esilarante “The Faina Candau”, che già dal titolo prende per il culo i grandi maestri italiani della pronuncia inglese ed introduce il discorso verso una delle maggiori piaghe sociali dei nostri tempi:  le cover band.
Eh già, perché un dei meriti di questo gruppo di musicisti anziani (come anche loro si autodefiniscono senza problemi), non è tanto quello di aver rivoluzionato i canoni della musica Rock, ma quello di aver preso una posizione ben definita nei confronti di cover e tribute band, ribadita anche nel booklet del disco: “Droga e Puttane è un concept album basato su una storia di fantasia (…). Non si intendono offendere persone per motivi legati al sesso, all’etnia o alle preferenze politiche, ma solo le cover band e le tribute band in genere che speriamo si estinguano proprio come hanno fatto i dinosauri che, almeno, erano fighi”.  Tutto questo li rende decisamente molto meno anziani di tanti ventenni pronti a vendersi l’anima (e non solo) pur di raggiungere una finta celebrità che non appartiene a loro ma agli autori delle canzoni che interpretano; una finta celebrità che non fa rima proprio per niente con la parola dignità.

Droga e Puttane è un album che narra una vita da rockstar così come ce la immaginiamo, così come ce la propongono, così come a volte accade. E’ un disco piacevole all’ascolto, anche se appare a tratti ripetitivo dal punto di vista musicale. I testi della band abruzzese, a differenza dei loro precedenti lavori, sono dotati di senso compito in quanto parte integrante della storia che vogliono raccontare. Insomma, si può affermare che i De Rapage sono cresciuti (musicalmente parlando, ma il discorso per quel che mi riguarda vale anche negli altri campi della vita), ma non dovete avere paura di tale affermazione. Perché crescere non vuol dire, come pensano in molti, rinunciare a delle parti fondamentali di sé, quello si chiama suicidio. Crescere vuol dire proprio raggiungere la pienezza di sé nei diversi aspetti che compongono la nostra esistenza. I De Rapage sono i cazzoni di sempre, non temete; hanno solo convogliato tutta la loro cazzonaggine nel racconto in musica di una storia da titolo Droga e Puttane, che certo dice tanto di loro, del loro modo di fare ed intendere la musica, di come si sono espressi fino ad ora e di come probabilmente continueranno ad esprimersi in futuro, ma che stavolta racconta anche molto di più.

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H.A.R.E.M. – Enjoy the Show

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Era da tempo che non ascoltavo un disco Hard Rock veramente particolare e degno di nota. Purtroppo negli ultimi tempi, almeno al sottoscritto, sono passati dischi di band che provano solamente ad imitare i grandi pilastri senza riuscire in nessun intento artistico. Non è il caso degli H.A.R.E.M.; loro in fondo fanno un po’ parte della storia del Metal tricolore e nonostante l’ età del gruppo hanno ancora nuove idee funzionanti ed emozionanti. Sono attivi dal 1994, hanno e possono impartire lezioni a tanti gruppi ed Enjoy the Show  ne è l’ ennesima dimostrazione. Quello degli H.A.R.E.M. è un Hard Rock sicuramente personale, che si distingue insomma, e che possiede le sue particolarità, nei riff, nei giri di chitarra e nel sound in generale.  In questo nuovo disco gli H.A.R.E.M. riescono a suscitare un infinità di emozioni: rabbia, grinta, repressione ma allo stesso tempo anche dolcezza e vitalità. E’ l’ effetto della loro musica, delle loro melodie o delle atmosfere che creano. Freddy e soci sono riusciti ancora una volta nel loro intento. Forse  nel loro sound qualcosa è stato contagiato dai Death SS ma i livelli sono davvero minimi. In Enjoy the Show ogni canzone è un punto di partenza nel senso che ha una sua struttura personale ed un suo elemento che si fa distinguere. Vogliamo partire dal singolo, “Angel”, dal ritornello accattivante dovuto ad una melodia ben realizzata, un po’ pacchiana ma riuscitissima. Possiamo parlare di “In Your Hands” che sembra partorita dai Ramones o dagli Stooges, è chiaro quindi che c’è una vena Punk in questa traccia notevolissima.  “The Wizard” si distingue per la sua andatura più lenta e oscura, ma è proprio qui che troviamo un gioco di chitarre che alterna riff e assolo. La titletrack invece, paradossalmente, è quella che verte più al classico con un determinato riff ed una voce che a tratti da un effetto di cori. “Fire On Stage” è adrenalina pura, mette in mostra le qualità degli artisti, questa, una di quelle tracce che ti fa davvero scuotere. Un altro colpo a segno è la cover dei Doors, “Break On Trough”, ospite in questa traccia il noto compagno d’ avventure di Freddy,  Steve Sylvester. Parlando di collaborazioni vediamo che a dare man forte a Freddy Delirio, Matt Stevens, Nick Giannelli e Giuseppe Favia, accore anche il chitarrista Reb Beach (Alice Cooper, Whitesnake e Winger). Insomma, questo lavoro degli H.A.R.E.M. è ben fatto sotto tutti i punti di vista, dal sound alla copertina per chiudere poi con i testi. E’ un gruppo influente, che lascia la sua scia e sa come farsi notare con un organico che è da dieci e lode su diversi aspetti.

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Spondaladra – Bella Topa

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Gli Spondaladra sono un gruppo nato tra Milano e il Lago Maggiore, composto di cinque elementi e attivo dal 2011. A maggio hanno pubblicato il loro nuovo album intitolato Bella Topa. Il titolo è un degno rappresentante dei tredici brani che compongono il disco, che si presenta come un grande calderone confuso di stili e generi che vanno dal Rock alla Disco allo Ska passando per il Pop, con qualche tocco dialettale qua e là. Musicalmente parlando Bella Topa non offre grandi spunti creativi e novità, il quintetto lombardo si limita a creare melodie orecchiabili e facilmente ascoltabili da un pubblico molto ampio e vario. I brani hanno più una vocazione cabarettistica e comica e vengono utilizzati dalla band come veicolo per la realizzazione di uno spettacolo d’intrattenimento in generale, piuttosto che per un concerto vero e proprio. Sul piano dei contenuti si ripete lo stesso concetto di spettacolo di varietà, fortemente influenzato da un certo tipo d’ironia tipica di programmi televisivi anni novanta come Drive In o come il più recente Colorado Cafè. Il linguaggio usato è semplice e quindi diretto, ma l’eccessiva farcitura di luoghi comuni, rime poco fantasiose e modi di dire consumati, rende i personaggi e le storie raccontate piatte, senza spessore e a volte banali. Bella Topa è un disco fatto da intrattenitori per un pubblico che cerca un divertimento superficiale, giocoso e immediato, ma al contempo ordinario e poco frizzante.

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florestano – noh

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Elettronica strumentale delle più convolute, noh del producer e polistrumentista florestano è un accartocciarsi e uno stratificarsi magmatico e ribollente. Layer di synth, rumori, beat e voci infestanti e inquietanti si ripiegano su loro stessi e gli uni sugli altri, a creare una pasta sonora di una fantasmagoria crepuscolare. Una spirale rotante e ipnotica che afferra l’immaginazione, suadente ma allo stesso tempo preoccupante, come una stanza spoglia o un sogno poco illuminato.
I pilastri del lavoro sono la cura per le ritmiche e l’attenzione nella ricerca del suono, ma anche il gusto per certe melodie spiritiche che s’affacciano qua e là (“Grizzled”, “Broken MP3”). Otto tracce d’elettronica poco tersicorea ma parecchio psiconautica.

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La Sindrome di Kessler – La Sindrome di Kessler

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Pezzi al limite dell’imitazione di Afterhours (“Fanfarlo”), Marlene Kuntz (“Parabola di un Desiderio”) e Virginiana Miller (“Le direzioni”) potrebbero, ad un primo ascolto, non essere un buon biglietto da visita per La Sindrome di Kessler. Il primo album della band campana prende spunto dall’omonima teoria americana secondo cui l’enorme mole di detriti spaziali e l’effetto domino scaturito dalle loro collisioni potrebbe causare l’impossibilità di utilizzare satelliti orbitanti intorno alla Terra per le prossime generazioni.  Il caos. Tuttavia il disco sembra molto più ordinato di quanto il nome non suggerisca e, superata l’empasse dovuta ai forse troppi reminder, avviene la vera deflagrazione. “La Detonazione delle Nuvole” è il punto di rottura in salsa Post Rock che spinge la bellissima “Sinuose Alterazioni” a spiccare il volo, raccontandoci cosa è l’inafferrabile e quali siano le sue conseguenze. “Una Carezza in un Pugno” è il fulcro su cui si basa l’intero disco: la spigolosa e mai celata vena Grunge rimarcata dalle doti canore di Antonio Buomprisco racchiude passione sensuale, quasi un culto. La sindrome di Kessler è una prece, un grido d’aiuto ma nello stesso tempo una liberazione e l’inizio di qualcosa di nuovo. Per la band è anche l’inizio di qualcosa di bello, la strada giusta è stata già imboccata.

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