Decidere di fare i conti con i propri demoni non è mai un lavoro facile; se poi scegli di passare questo tempo di pura introspezione tra la nebbia dei canali di una Venezia spettrale e misteriosa, fra anonime maschere e freddi stucchi è probabile che la tua anima nera e buia si amplifichi e si dilati tanto da farti cadere lentamente in un percorso buio e tortuoso di esplorazione e solitudine. Questo viaggio, espressione di una profonda interrogazione di sé, lo racconta The Soft Moon aka Luis Vasquez nel suo terzo album Deeper. Un disco introspettivo, nero, claustrofobico, che eredita molto dai precedenti lavori, ma che al tempo stesso fa un enorme balzo in avanti in termini di sperimentazione e innovazione. Post Punk ed Elettronica continuano a essere l’humus di base, al quale però si aggiungono brani che contengono vere e proprie melodie e un cantato d’ispirazione Pop. La Dark Wave, gli anni 80, i Depeche Mode, i Kraftwerk, i Nine Inch Nails, il Kraut Rock, Minimal Man e l’Industrial e qualcosa dei Tear For Fears non sono altro che fili nelle mani di un esperto burattinaio, che con maestria confeziona undici tracce intese, catartiche, ansiogene, a tratti rabbiose, spesso sospese e rarefatte. L’atmosfera generale è dark, opprimente, seriale, il ritmo è uno degli elementi decisivi, cuore e veicolo di tutti i brani, martellante e sincopato in “Black”, modulato, esotico e primordiale nelle percussioni di “Deeper”, elettronico, ricco di bassi e danzereccio in “Feel”. Il tutto è sapientemente condito da synth distorti, incursioni martellanti di ronzii e sirene, suoni robotici, voci effettate, echi e riverberi. Tra gli undici brani le tracce più sperimentali sono “Try” dal sapore vagamente decadente e distante, “Without” dove per la prima volta il piano e la melodia sono protagonisti e “Wasting”, che riesce a trasmettere il senso di solitudine e distacco di una base strumentale con un cantato delicato. Il gran finale, la risalita dopo la caduta, è affidato a “Being”, che ci lascia con un’ineluttabile verità e un nastro, che nel suo continuo riavvolgersi, ripete in maniera ossessiva “I can se my face”. Luis Vasquez ha realizzato un album inteso e coinvolgente, estremamente autobiografico e per questo maledettamente vero.
2015 Tag Archive
Patton – C
Formato nel 1994 in Belgio, il progetto Patton, composto dai fratelli Max Bodson (guitar, vocals, electronics) e Sam Bodson (drums, vocals, electronics) con l’aiuto di Philippe Koeune al basso non è certo band di sprovveduti ragazzetti alle prime armi, pur non vantando una produzione troppo vasta con soli due album alle spalle, lavori profondamente diversi tra loro soprattutto nel risultato. È il 1997 quando vede la luce l’esordio Love Boat (un ep) proprio con Philippe Koeune. Lavoro intimamente teso all’Elettronica e al Post Rock con liriche di stampo narrativo. Il primo lavoro sulla lunga distanza è però di circa tre anni dopo, Jr for “Jaune-Rouge”; opera che non avrà il merito di suscitare l’entusiasmo della critica ma che, comunque, farà lievitare, nei limiti del caso, l’attenzione attorno al nome Patton. Da qui, i due fratelli spostano nuovamente il loro campo di ricerca, stavolta nelle terre d’America, nel sound Blues di Mississippi John Hurt e Lead Belly puntando ad una evoluzione del genere verso territori tendenti ad un Folk sperimentale misto ad Hard Rock, sempre con la commistione di fattori elettronici. Il risultato è il loro piccolo capolavoro del 2009, Hellénique Chevaleresque Récital. Da qui si chiude la collaborazione con il bassista e si va verso l’album chiamato semplicemente C, oggetto della mia recensione. La tendenza strumentale/sperimentale viene portata agli estremi, le liriche (in diverse lingue e, nella timbrica, non troppo gradevoli) sfiorano il surrealismo e così le melodie da esse scaturite. Resta la voglia di creare brani che abbiamo il sapore del Rock vecchio stampo ma il risultato è decisamente oltre il passato, sia per la ricchezza dei suoni e degli stili (oltre ai già citati, si possono cogliere divagazioni Math, Prog e Post Rock come in “Mauve=Blanc”) e sia per il risultato non solo molto ambizioso e complesso ma anche di non facile ascolto. Un lavoro che a volte diventa fin troppo pretenzioso e manieristico ma che nasconde perle di una bellezza inaudita (“Dead Flies Song”) specie per la naturalezza con la quale unisce strumentale ed elettronica. La grandezza e la mediocrità stessa di C stanno tutte qui; tanta ambizione e voglia di stupire che alternativamente ci lasciano a bocca aperta, a tratti per noia, a tratti perché sanno come farci sognare
Tangled Thoughts of Leaving – Yield to Despair
Dopo lo split del 2009 in compagnia degli Sleepmakeswaves, australiani come loro e postrocker come loro, e a quattro anni di distanza dall’esordio full length Deaden the Fields, tornano i ragazzi di Perth con cinque brani che uniscono gli aspetti più poderosi dell’Hardcore, alle precisioni del Math Rock di scuola statunitense anni Novanta, il tutto in forte chiave Post Rock solo in parte vicina alle icone leggendarie 65daysofstatic e Godspeed You! Black Emperor. Se gli aspetti più aggressivi e nerboruti, quasi Sludge e Post Metal a voler rischiare, sono subito messi sul piatto con l’opening “The Albanian Sleepover – Part One”, specie nei primi cinque minuti, ricalcando lo stile mogwaiano di The Hawk Is Howling soprattutto (leggi “Batcat”) la part two dello stesso brano ci mostra i Tangled Thoughts of Leaving sotto tutt’altra veste, grazie ad un uso matematico del piano, delle ritmiche, dei tempi e delle note, lambendo territori Neo Classical. Si abbassano ancora i toni con “Shacking Off Futility”, cupa ed emozionante, perfetta per evidenziare tutto l’eclettismo della band. Con “Downbeat” si torna in territori più impetuosi, infernali e oscuri, grazie ad una miscela di Noise, Avant Rock, Doom, ovviamente Post Rock e divagazioni Modern Classical prima della conclusiva e quasi toccante “Yield to Despair” che sembra voler chiudere l’album mostrandoci il lato più disturbato della formazione australiana, più tormentato e inquieto, nel suo crescendo sonico. Yield to Despair è un disco di non facile interpretazione, ponderoso per orecchie non abituate e appesantito da una moltitudine di similitudini e dalla poca freschezza del genere in sé eppure realizzato con una cura non indifferente e trasudante una sensibilità artistica notevole. Se OzProg lo ha definito come se i Dirty Three suonassero con the Necks, io non vedo loro di scrivere che i Tangled Thoughts of Leaving suonano esattamente come i Tangled Thoughts of Leaving.
Thegiornalisti & Maria Antonietta + Chewingum
L’estate a Torino è uguale a quella di tutte le città dell’Italia del nord lontane dal mare: il caldo, l’afa, la riduzione delle corse degli autobus che costringe ad interminabili attese, le zanzare e, peggio del peggio, la riduzione dei concerti per dare più spazio ai festival estivi. Ma i festival si svolgono quasi sempre nel fine settimana, e durante le settimana che si fa? Ci pensa la Scuola Holden che, in collaborazione con Hiroshima Mon Amour, ha organizzato per il secondo anno consecutivo la rassegna Stand by Me – Racconti di un’Estate. Stasera tocca all’esibizione dei Thegiornalisti seguiti da Maria Antonietta + Chewingum. Il sole è già tramontato da un po’, ma la band romana non può che cominciare con “Per Lei”(il sole splende anche a Torino) per dare il proprio saluto alla città. L’atmosfera si scalda subito, tanto che il pezzo successivo ci vede ballare tutti con “Balla”, appunto. Il clima è ormai torrido in tutti i sensi e là sul palco lo è ancora di più, lo dimostra anche l’abbigliamento Moda Mare a Positano del frontman Tommaso Paradiso: costume giallo e maglietta. Si rallenta in po’ con “Proteggi Questo Tuo Ragazzo”, ma ci pensa “Fine dell’Estate” (suonata giustamente a metà concerto, è ancora troppo presto per farla diventare un finale) a riattivare il mood mani in alto ed urla al cielo. Si prosegue ancora con altri cavalli di battaglia tratti da Fuori Campo (“Mare Balotelli” e l’ “Importanza del Cielo (Miyazaki)”) ma non mancano anche brani appartenenti ad altri album come“Io Non Esisto” (Vol.1), con la quale i Thegiornalisti tentano di simulare il finale, ma si tratta di una farsa e lo sappiamo tutti, manca uno dei pezzi forti, che abbiamo già cantato in macchina o fischiettato in giro per tutto l’inverno appena trascorso; “Promiscuità” arriva puntuale a chiudere il concerto, portandosi dietro quell’atmosfera estiva che non riusciamo ancora a goderci appieno. Tommaso scende dal palco e viene a cantarla tra il pubblico che gli si stringe intorno in un unico grande abbraccio promiscuo di odori, sudori, Autan sulla pelle di uno che si mescola all’ Off sulla pelle dell’altro. Certo, gambe abbronzate ne ho viste ben poche, abbiate pazienza, ma posso garantire sulle tette sudate e le mani sul culo.
Poi è la volta di Maria Antonietta e dei Chewingum, la band con cui ha realizzato il suo ultimo Ep Maria Antonietta Loves Chewingum, una raccolta di brani tratti da Sassi e dotati di nuovi arrangiamenti in chiave electro-pop, che talvolta arrivano ad alterare perfino le linee melodiche tanto da rendere alcune canzoni a tratti irriconoscibili. Tutto questo scatenerà un vero e proprio dibattito in auto a fine concerto sulla questione: è giusto o meno alterare così tanto delle canzoni già scritte in un determinato modo, tanto da farle sembrare altre canzoni? A parte un lieve problema iniziale della voce, il concerto procede tra alti e bassi perché costretto a sormontare le montagne di scazzo cosmico di Maria Antonietta, che durante la serata raggiunge almeno tre picchi: uno nel momento in cui ci dice che questo mondo non fa per lei e non riuscirà mai a capirci niente, l’altro quando annuncia che lascerà per un po’ le scene per mettersi a fare la casalinga, e l’ultimo quando nell’annunciare la sua canzone “Con gli Occhiali da Sole” dice che la suddetta le fa schifo ma fortunatamente con i Chewingum ha trovato un modo di suonarla che le piace (e meno male!).
Verrebbe da abbracciarla forte forte Maria Antonietta. Verrebbe da dirle che noi in questo mondo non ci capiamo un cazzo da più tempo di lei, ma non è il caso di deprimersi e deprimere l’intero universo. Verrebbe da chiederle se anche lei non si stanca di questo personaggio decadente, nato probabilmente dal suo reale carattere (può saperlo solo chi la conosce di persona), ma che tiene ormai le redini di tutta la performance quando invece a cavalcare un concerto ci dovrebbero essere prima di tutto le canzoni. Il concerto si chiude con la piacevole cover di “Fotoromanza” di Gianna Nannini. Mi porto a casa una piacevole serata, qualche dubbio sparso qua e là e le prime gocce di un temporale che ha deciso di non scoppiare più
Africa Unite
Con grandissimo onore, ospitiamo sulle pagine di Rockambula una storica band Reggae italiana. Sono gli Africa Unite con Bunna e Madaski, ovvero i fondatori e membri principali. Con immenso piacere siamo riusciti a scambiare qualche parola con queste due icone. Tra qualche chicca passata, l’uscita del nuovo disco intitolato Il Punto di Partenza e uno sguardo sulla realtà di oggi, siamo riusciti nella realizzazione di un’interessante intervista tutta da gustare.
Ciao ragazzi e benvenuti su Rockambula, è un grande onore per noi ospitarvi. Cominciamo l’ intervista dicendo un po’ come sono cambiati gli Africa Unite dal 1981 ad oggi?
MADASKI: Direi che non siamo più tanto ”ragazzi” (ride), ma ci piace sentircelo dire. Nell’albero genealogico degli Africa ci sono talmente tanti rami. Io e Bunna siamo i sopravvissuti, ne siamo estremamente felici.
BUNNA: Gli Africa Unite sono sicuramente cambiati da quegli anni in cui si cominciò questo viaggio fino ad oggi. Innanzitutto quando cominciammo avevamo una grossa dose di ingenuità, l’ingenuità di un gruppo che si innamora di un genere e cerca di capire come imparare a riprodurlo suonando. Tutto è cominciato senza un preciso progetto, suonavamo perché ci divertiva e anche perché era l’unico modo per promozionarci. Negli anni abbiamo capito che cosa volevamo e quali scelte sarebbero state più importante da fare affinché gli Africa potessero provare ad avere un loro carattere musicale ed essere riconoscibili. Oggi, siamo contenti di essere ancora qui, dopo tutto questo tempo, a lavorare sul progetto con lo stesso entusiasmo che ci ha fatto muovere i primi passi.
Sempre in questo arco di tempo come è cambiata la vostra scena musicale e come il mercato, considerando che avete vissuto sia l’epoca delle musicassette, che dei dischi fino agli mp3 di oggigiorno?
MADASKI: Il mercato è cambiato tantissimo, passando attraverso i vari supporti e i vari formati, fino quasi all’annullamento odierno. È cambiato molto l’atteggiamento delle persone, fino a pochi anni fa c’era più ricerca e fidelizzazione, la musica non mainstream era cercata e amata come cosa particolare. Ora si trova tutto a portata di mano e, se questa cosa ha risvolti positivi, in parte, dall’altra viene meno proprio quella voglia del possedere il prodotto musicale che, un tempo, era rappresentato dal disco, o vinile o cd.
BUNNA: Agli inizi, il pubblico che vedevamo ai concerti era un pubblico molto connotato. Il pubblico del Reggae, di allora, condivideva tutta una serie di elementi estetici e non solo che lo accomunavano. Per fortuna negli anni il pubblico che viene ai nostri concerti è un pubblico assolutamente eterogeneo, un pubblico che è solamente accomunato dalla passione per la musica e per l’atmosfera che solo ai live si può respirare. Questo sicuramente anche perché gli Africa sono sempre partiti dal Reggae come ispirazione originaria ma hanno molto spesso cercato delle soluzioni musicali che sconfinavano dal genere stesso. Abbiamo sempre avuto un approccio sicuramente trasversale. La scena musicale è sicuramente cresciuta sia dal punto di vista di chi la musica la fa che da quello di chi la musica l’ascolta. Ci sono state negli anni, molte situazioni gruppi, festival, trasmissioni radiofoniche dedicate, che hanno propagandato la musica Reggae e la sua ideologia ed hanno inevitabilmente fatto crescere il pubblico. La nostra generazione ha vissuto poi i vari passaggi dalla cassetta al vinile, al cd ed infine agli mp3. Con questi cambiamenti, penso, sia inevitabilmente cambiato anche l’approccio alla musica ed agli artisti che la producono. Quando compravamo un vinile lo facevamo perché adoravamo quel gruppo, perché eravamo curiosi di capire un po’ di più su i musicisti, c’era molta affezione. Questa cosa, col passare del tempo, mi sembra stia venendo meno gradualmente. Le nuove generazioni si ritrovano con lettori mp3 imballati di brani che il più delle volte non ascoltano neppure, sono sempre alla ricerca della cosa più nuova che c’è come se questa fosse la cosa più importante. Ormai siamo arrivati al punto in cui, per assurdo, anche il download è superato. Perché andare ad occupare una parte dell’hard disc con dei file, quando è ormai tutto disponibile on demand? Ormai la musica è come l’acqua, che abbiamo a casa, quando la vuoi apri il rubinetto quando non ne vuoi più lo chiudi.
“Il Punto di Partenza” è il titolo del vostro nuovo disco. È un lavoro davvero personale e introspettivo. È una sorta di rivincita o un modo per affermare una volta e per tutte la propria posizione?
MADASKI: Certo, ma affermare la propria posizione dovrebbe essere una cosa normale e quotidiana per chi è musicalmente sincero e ispirato, anche se a volte non è così purtroppo, ma sono contento non sia il nostro caso.
BUNNA: Il Punto di Partenza è un disco nel quale gli Africa prendono posizioni e distanze su e da tutta una serie di cose. Un disco che, come sempre, cerca di essere rappresentativo di quello che siamo e coerente con quello che siamo sempre stati. Un disco che segna un nuovo punto da cui ripartire, con un’attitudine che sia attuale rispetto ai tempi che stiamo vivendo ma che nel suo interno vuole usare la musica per provare a dire delle cose, fornire degli spunti di riflessione sulla realtà che viviamo ogni giorno.
Adoro “L’Attacco al Tasto”, una canzone che ha totalmente rapito il sottoscritto. Ma cosa può essere un attacco al tasto, cioè, che tipo di esperienza o avvenimento vi ha portato a scrivere questa canzone e a considerare la questione proprio come un punto di partenza?
MADASKI: L’attacco al tasto è il primo esercizio di approccio al pianoforte, la base della tecnica pianistica, con la quale si determina la posizione della mano sulla tastiera. In questo testo ho fatto un parallelismo tra la vita e lo studio dello strumento che ha influenzato tutta la mia carriera musicale.
BUNNA: Madaski con questo testo ha voluto raccontare, la sua personale esperienza di approccio alla musica e nello specifico allo studio del pianoforte, usando questa esperienza per tracciare un parallelo rispetto alla difficoltà di fronte alle quali spesso ci troviamo nell’affrontare la vita. Sottolineando l’importanza della determinazione, costanza e del lavoro per ottenere dei buoni risultati, in qualunque ambito.
Sempre riguardo la canzone “L’Attacco al Tasto” successivamente ne è stata realizzata una versione con gli Architorti. Come è nata questa collaborazione e perché vi siete applicati sulla rivisitazione di questa traccia?
MADASKI: Marco Robino, leader degli Architorti ha scelto il brano, evidentemente ispirato dal contenuto e ne ha creato una versione per archi e pianoforte, io la trovo stupenda.
BUNNA: La nostra collaborazione con gli Architorti non è una novità. Abbiamo, anni addietro, condiviso un progetto “Corde in Levare” nel quale il maestro Marco Robino (fondatore dell’ensemble) ha riscritto tutta una serie di brani del nostro repertorio per quintetto e per orchestra. Il risultato è stato un tour di parecchie date in cui Madaski dirigeva l’orchestra ed io cantavo i brani degli Africa su tessiture orchestrali di archi. Un’esperienza difficile ma suggestiva. Quelle emozioni ci hanno fatto ripensare a quanto potesse essere bello chiedere agli Architorti di rifare un lavoro di riscrittura simile a quello, che avevano fatto anni addietro, per un brano nuovo. Così il maestro Robino coadiuvato da Marco Benz Gentile , nostro attuale chitarrista, già membro di Architorti, ha provveduto alla riscrittura del brano “L’Attacco al Tasto”.
Parlando delle altre collaborazioni, nell’album avete come ospiti Raphael e i More No Limiz. Come è nato l’approccio con i due artisti?
MADASKI: Sono amici da molto tempo, ho prodotto alcuni dei loro dischi, diciamo che sono dei personaggi che abitualmente frequentano il mio studio e che, sia io, sia Bunna stimiamo molto.
BUNNA: Le collaborazioni che facciamo nei nostri dischi derivano sempre da un’amicizia e dalla stima che nutriamo per certi artisti. Anche questa volta è andata così. Raphael pensiamo sia un grande talento della nuova scena reggae italiana, More No Limiz è un giovane e bravo cantante con il quale ci è capitato di condividere il palco più di una volta e quindi ci siamo resi conto, anche nel suo caso, della particolarità della sua voce e delle sue tessiture melodiche. Quindi se possiamo far conoscere nuovi talenti al nostro pubblico lo facciamo molto volentieri.
Per quanto riguarda il tour cosa ci dite? Dove suonerete nei prossimi giorni? Una data a Napoli è prevista?
MADASKI: Molto difficile suonare a Napoli. È da molto che manchiamo, a noi farebbe molto piacere ma, spesso, non siamo noi a determinare l’ubicazione delle date, ma i promoter locali a chiamarci.
BUNNA: Abbiamo finora fatto una decina di concerti e ne abbiamo ancora un bel po’, fino alla fine settembre. Il calendario è ancora aperto e siamo convinti, per come sta andando, che si aggiungeranno ancora parecchie cose. Napoli, per ora, non è prevista ma ci piacerebbe molto ripassare di lì a suonare. Se succederà, lo saprete! Tenete d’occhio il nostro sito: www.africaunite.com e se ancora non l’avete fatto scaricatevi il disco, è gratis!!!!
In trent’ anni vi sarà capitato di tutto: qualche idea vi sarà maturata, altre ancora saranno mutate e qualche obbiettivo sarà cambiato ma attualmente gli Africa Unite a cosa aspirano?
MADASKI: A fare ciò che più ci piace, con molta onestà. Suonare e continuare ad esprimere le nostre idee, indipendentemente dal genere, cercare di essere originali e fortemente connotati, insomma ci piace essere Africa Unite.
BUNNA: Gli Africa aspirano a suonare il più possibile perché quella è la dimensione che più ci rappresenta, che più ci diverte. Speriamo che il pubblico continui a frequentare i nostri concerti e che il ricambio generazionale che c’è sempre stato continui ad esserci.
Bisogna sempre ricordarsi che un gruppo deve tutto al suo pubblico perché è grazie a lui che si possono continuare a fare i concerti. Il giorno in cui non puoi più contare sul supporto e sulla presenza dei tuoi fan, puoi appendere la chitarra al chiodo.
Prima di concludere vi piacerebbe condividere con i nostri lettori un bel ricordo che hanno gli Africa Unite di un episodio che è accaduto nell’ arco della carriera?
MADASKI: Sono negato per queste cose!!!!!
BUNNA: Suonare in Giamaica è sicuramente stata, per me, un’esperienza indimenticabile.
Nel 1991, andare a suonare il Reggae dove questa musica è nata è stata per noi, gruppo italiano, una cosa che sicuramente non dimenticheremo mai. Ci sarebbero moltissimi altri episodi, magari meno esotici, ma non meno emozionanti da raccontare, ma ci vorrebbero troppe parole. Lasciamo che parli la musica!!!!!
Bene ragazzi l’ intervista si chiude qui, concludete come meglio vi pare.
MADASKI: Avere la possibilità di esprimersi attraverso la musica è una cosa stupenda ma sempre più difficile, occorre riflettere bene su questo concetto perché è alla base della nostra attività. Non tutti nascono musicisti e la tecnica non serve poi a così tanto, anche se è indispensabile per muoversi in questo ambiente. E’ sempre necessario avere ben chiaro cosa dire prima di salire su un palco. Bisogna essere curiosi.
BUNNA: La musica può far ballare, riflettere, viaggiare la si può sentire su un giradischi, in un’autoradio, un lettore mp3, ma la magia che si può respirare ad un concerto è una cosa unica. Quell’ alchimia che si innesca tra chi suona e chi ascolta non si può riprodurre in altro modo se non facendone parte. 1Luv!!!
Bad Love Experience – Believe Nothing
Questo è il Pop che mi piace: complesso ma non complicato, leggero ma con una sua densità. I Bad Love Experience volano alti nei venti minuti e qualcosa che compongono il loro ultimo Believe Nothing. Lingua inglese, sapore internazionale, atmosfera retrò, miscele di Art Rock e Art Pop con innesti Elettronici e sfumature Prog, un parco sonoro che dire vario è sminuire (“Inner Animal”), un gusto per la melodia che si accompagna all’idiosincrasia verso le strutture tradizionali della canzone (“Below as Above” e quel riff…). Gli anni Settanta visti dallo spazio o qualcosa del genere.
C’è poco altro da dire, perché il progetto fila e il disco è godibilissimo. A fine ascolto l’unica cosa che personalmente mi manca è quel qualcosa in più, chiamatelo “sguardo”, “identità”, “voce”, un qualcosa di personale che mi faccia innamorare irrazionalmente di loro, qualcosa che fra un anno mi obblighi a recuperarli e a immergermi di nuovo nei loro abissi luccicanti e vellutati. Ma voi non datevene cruccio e fate un tuffo, poi chissà.
Philippe Petit – Multicoloured Shadows
Da sempre teso verso la ricerca sonora estrema ma pur sempre legata ai classicismi meno anacronistici, il marsigliese Philippe Petit celebra i suoi trent’anni di attività con un album che si lega inevitabilmente alle esperienze consumate fatte di manipolazione, field recordings e composizione pura ma lo fa, questa volta, con orecchio rivolto maggiormente agli aspetti melodici. Ovvio che chi si è già imbattuto in passato in opere di Philippe Petit, non si aspetterà quel tipo di melodia di facile ascolto caratteristica dell’Elettronica da dance floor più spicciola. I tre brani (il terzo in due distinte parti) che vanno a formare Multicoloured Shadows sono infatti pregni di quella tensione nervosa, evocativa ed eterea cui il francese ci ha abituati; una miriade di riverberi, ritmiche cupe, una miscela di rumore che pare sprigionarsi dai posti più remoti dell’universo, della terra o della nostra mente in preda a sogni/incubi frenetici. Continui controtempi fanno da specchio alla strumentazione classica generando brani dalla struttura precisa ma con un apparente caos di fondo. Un album di Elettronica moderno ma che sembra giunto a noi dal glorioso passato della Berlino dei Sessanta e Settanta, un’opera che mostra, come uno specchio appunto, il suo lato più istintivo e nello stesso tempo la sua veste più celebrale, a seconda del punto di osservazione dell’ascoltatore, un’opera che mostra il compositore transalpino, o meglio la sua musica, in tutte le sue forme, come una danza di ombre, ognuna colorata in modo diverso, ma che insieme formano il dipinto fantastico delle emozioni umane.
Jovanotti 26/07/2015
Jovanotti @ Stadio San Paolo (NA) – 26/07/2015
Domenica 26 Luglio per amor della mia ragazza mi trovo ad accompagnarla allo Stadio San Paolo di Napoli per assistere ad un concerto veramente emozionante: quello di Lorenzo Jovanotti. Non sono mai stato un grande stimatore del Rapper, questo perché da un lato il genere non è tra i miei gusti dall’altro ero attratto solo da qualche canzone del primo periodo dell’ artista ma comunque senza nessuna escandescenza. Arrivo allo stadio intorno le 19:30, l’ organizzazione è ottima e l’ attesa tra le file brevissima, c’è voluto circa mezz’ ora per andare nel prato. Sono circa 36 mila le persone che sono andate ad assistere Jovanotti e pare che il numero cresce ogni volta che l’ artista calca il palco del San Paolo. Lo show di Jovanotti comincia in orario, le 21:00, ed è anticipato da un breve video che lo vede in una dimensione futura che lo porterà poi a Napoli. In questo video compaiono anche Ornella Muti nella figura di una bellissima donna che gli spiega come tornare indietro nel tempo e Fiorello nei panni di un presentatore che introduce il grintoso artista. Lo show parte gasato con l’ eccezionale “Penso Positivo”, il pubblico è in delirio e si scatena da subito insieme a Lorenzo. Dopo questa la canzone che ha fatto battere i cuori è stata l’ “Alba” e un altro momento di grandi cori è avvenuto con il suo nuovo singolo: “Sabato”. Ma il vero inferno si è scatenato con i suoi grandi classici, in primis, “L’Ombellico Del Mondo” a seguire: “Bella”, “L’ Estate Addosso”, “Serenata Rap” e “Un Ragazzo Fortunato”. Ci si stringe in un grande abbraccio sulle note di “L’ Astronauta” e “Le Tasche Piene Di Sassi”, quest’ ultima, una canzone che Jovanotti dedica alla madre, non a caso la sua espressione quando la cantava la diceva veramente lunga. Verso la metà del concerto arriviamo ad un altro momento commovente: sul palco salgono James Senese ed Eros Ramazzotti. I tre si uniscono per un grande tributo ad una stella di Napoli che si è spenta di recente: Pino Daniele. L’ artista ripete spesso dell’ eredità che ha lasciato Pino alla bella Napoli. Brividi sulla pelle ed occhi pieni di lacrime, questo è ciò che si vede nel pubblico Partenopeo sulle note di: “Yes I Konow My Way”, “Napule è”, “Quanno Chiove” e “A Me M’ Piac O Blues”. Tre canzoni cantate da Jova ed Eros con Mr. Senese che li accompagnava con il suo Sax perchè soltanto nella prima Eros era assente. Un omaggio dalle mille emozioni per ricordare anche quella fantastica tappa del 13 Giugno 1994 nello stesso stadio che vedeva appunto nel Tour Pino Daniele, Lorenzo Jovanotti, ed Eros Ramazzotti. Strepitoso è stato il mini video proiettato nel maxischermo, in cui alla fine delle canzoni dedicate all’artista Napoletano, si vede proprio Pino Daniele ringraziare tutti. Ramazzotti e Senese vanno via, lo spettacolo si dirige verso la conclusione e si vedono le prime facce tristi, nonostante si cominciassero a sentire gli altri grandi successoni di Jovanotti, si concepiva che questa notte magica stava volgendo al termine. Dunque pian piano con: “Tutto L’ Amore che Ho”, “La notte Dei Desideri” e “A Te” si arriva alla conclusione, chiaramente anche in queste canzoni il nostro Rapper è riuscito a far sognare e ad inviare messaggi d’amore e di fratellanza. Si chiude lo show al San Paolo con un grande boato grazie alla canzone “Ti Porto Via Con Me”: tutti a ballare e a rendere indimenticabili questi ultimi minuti di Jovanotti. In questa serata ho visto esibirsi sul palco un artista pieno di grinta e ideali, un ragazzo umile, onesto e con la gioia negli occhi. Non si fermava un attimo, saltellava, correva e ballava in tutte le direzioni del palco per tre ore di fila, un vero uragano insomma. Posso concludere dicendo di esser stato felice di aver assistito a questa sua magnifica data.
Africa Unite – Il Punto di Partenza
Sarò sincero, ho sottovalutato moltissimo gli Africa Unite, li consideravo un gruppo con poca inventiva che imitava troppo pilastri del Reggae come lo scontato Bob Marley e i The Pioneers. Mai errore fu più eclatante. Col tempo ho riscoperto un gruppo con una propria personalità, che crede veramente nel genere che suona e nei valori e nei simboli che ne fanno parte. Un gruppo che parla davvero di attualità e che si adegua ai tempi in cui minimo comune denominatore è una realtà contorta, sempre in via di trasformazione. Una realtà che gli Africa Unite hanno sempre mostrato chiaramente, cercando, in un modo o nell’ altro, di rendere trasparente il loro pensiero. Il Punto di Partenza è il titolo del nuovo disco di Bunna e Madaski, un interessante lavoro che ancora una volta mette in risalto gli intelligenti punti di vista degli Africa Unite. Un lavoro che ha pregi sia per quanto riguarda la musica sia per i testi; insomma, ancora una volta si sono superati. Effettivamente Il Punto di Partenza ha una miriade di messaggi: la personalità del gruppo su determinati argomenti, la loro posizione riguardo al genere che suonano, gli incentivi a ragionare e ad usare il proprio cervello e le riflessioni sulla realtà di oggi. Un disco di alta qualità che non da nulla per scontato. Concentrandoci sull’aspetto musicale, sentiamo che gli Africa Unite riescono a trascinare anche con la mente. Non sarà difficile immaginare una spiaggia ed un fantastico tramonto con un senso di libertà. Per rendervi chiaro il discorso, dovete ascoltare in primis: “Riflessioni”, “L’Attacco al Tasto” e “Thanx and Praises”; canzoni in cui i testi la dicono lunga e la melodia e la tecnica sono spettacolari. Non mancano le collaborazioni speciali: nella traccia d’ apertura, “Pure Music Today”, ad accompagnare gli Africa Unite c’è Raphael; nella canzone “L’Esercito con gli Occhiali a Specchio” troviamo la partecipazione dei More No Limiz, infine, per “Cyclop”, canzone di chiusura, ci sono gli Architorti. Questo nuovo disco di Bunna e Madaski è l’apice della loro discografia, un album che va assolutamente lodato, ascoltato e compreso.