2016 Tag Archive
Ex-Otago @ Tipografia, Pescara 07/12/2016
Mercoledì 7 dicembre 2016, gli Ex-Otago fanno tappa per la prima volta a Pescara per presentare il nuovo album Marassi. Il concerto si apre con il singolo “I giovani d’oggi” per proseguire tra brani vecchi e nuovi, accompagnati da un pubblico divertito che canta e balla dall’inizio alla fine del live, che si conclude con “Cinghiali Incazzati”.
Scorre con leggerezza, questo concerto degli Ex-Otago, che nel corso di quasi 15 anni si rinnovano senza forzare il loro cambio di rotta. Il talento melodico che contraddistingue la band genovese dagli esordi tiene insieme questa manciata di canzoni fatte di synth e anni 80 tocca il suo culmine quando parte la bellissima cover di “The Rhythm of the Night” e nel bis con “Quando sono con te”.
Per un’ora e trenta sono tutti contagiati dalla musica dolce-amara degli Ex-Otago. Un concerto leggero, ma sincero, in cui i primi a divertirsi sono quelli sul palco.
Black Tape For A Blue Girl – These Fleeting Moments
Nuovo album, nato da una campagna di crowdfunding, per la creatura di Sam Rosenthal a ben 9 anni dal precedente 10 Neurotics. Il progetto ha quest’anno compiuto i trent’anni di attività e con questo nuovo lavoro (trattasi dell’undicesimo full length) li festeggia nel migliore dei modi.
Se il disco precedente poteva infatti aver fatto storcere il naso a qualche fan di questa band, un culto nel suo genere, con These Fleeting Moments ritroviamo i Black Tape For a Blue Girl che tutti noi più amiamo per quanto durante l’ascolto non manchi qualche sorpresa a rendere l’album più differenziato ma mai meno profondo, e non potrebbe che essere così visto tra l’altro il ritorno della più celebre voce della band: Oscar Herrera. Il tenore, presente nei primi 7 album del gruppo, rientra quindi dopo ben 17 anni alla corte di Rosenthal e lo fa, oltretutto, accompagnandosi alla figlia Danielle, nata poco prima dell’uscita di The Rope, prima fatica della formazione.
Il nuovo album è formato da 13 canzoni per 70 minuti di durata e riporta sin dalla bellissima traccia iniziale al freddo calore dei Black Tape anni Novanta con i 18 minuti di “The Vastness of Life”, brano etereo e malinconico che non sfigurerebbe nella loro perla Remnants of a Deeper Purity. La traccia, ricca di pathos, è suddivisa in più parti ed esplora i temi fondamentali dell’album facendosi domande sulle scelte della vita, sulla propria storia personale, su quanto e come sia possibile credere ad eventuali ideali ed agire seguendoli. Il brano è inizialmente un Goth/Neofolk assai cupo dove subito ritroveremo la considerevole solennità della voce di Oscar Herrera che tanto ci mancava, nel suo sviluppo incontreremo poi una parte Neoclassica evocativa e rarefatta dominata da un violino piangente prima che le tastiere di Sam introducano alla seconda metà del brano dove faremo conoscenza con la voce fortemente espressiva di Danielle Herrera; saranno i synth ad accompagnarci al finale, la parte più intimamente gotica di questa ottima apertura di disco, che impegnerà nuovamente al canto Oscar che la figlia Danielle accompagnerà dalle retrovie con la sua angelica voce.
Nel disco ogni traccia ha un suo valore, non troviamo riempitivi. Trovo personalmente da segnalare “One Promised Love”, dolcissimo brano con meraviglioso violino e chitarra acustica in primo piano, delicatezza che fa da contraltare al canto sì delicato ma estremamente denso di Herrera (padre); “Affinity” dove la voce sognante di Danielle emerge dolce e malinconica dal mesto tappeto di synth, o l’ancor più funerea “Please Don’t Go” strumentale di ottima fattura dove la malinconia delle tastiere e degli archi (Nick Shadow è indubbiamente un altro grande protagonista di questo album) scava nei vuoti dell’animo descrivendoli con perfetta desolazione.
Nella seconda metà del disco troviamo l’intensità Tribal-Psych Rock di “Zug Köln” che ci porta ad incontrare la chitarra di Erik Wøllo (artista prodotto dalla Projekt di Sam Rosenthal) co-autore del brano, per poi trovare sentori di Dead Can Dance nei 10 minuti di bellezza ipnotica e ancestrale di “Meditation on the Skeleton” e nella dolce nenia più Folk-Pop “Desert Rat-Kangaroo” con le sue eleganti trame di pianoforte. Sarà dunque il momento di “She’s Gone” brano che mette in risalto la grazia della voce di Danielle che qui, vulnerabile, ci racconta di un amore perduto, il pezzo, triste e dolce, scandito da una chitarra pizzicata con gran delicatezza, nella parte finale va a sposarsi meravigliosamente con l’intensità portata da percussioni, violino e chitarra elettrica che forniscono l’ideale trampolino per il tuffo negli umori Shoegaze/Post Rock delle fragili e vigorose note dell’ottima “She Ran So Far Away That She Can No Longer Be Found”. Nella conclusiva “You’re Inside Me” un Oscar Herrera in gran spolvero si congederà su una base elettronica di pregevole fattura al quale il violino di Shadow andrà ad aggiungere nella parte conclusiva del brano la giusta tensione.
Un disco che offre 70 minuti di seducente malinconia in un riuscito incontro di ricchezza di nuovi spunti e magico stile datato capace di scorrere piuttosto fluidamente nonostante lo spessore (nella durata come in buona parte delle musiche e dei messaggi) che lo contraddistingue. L’opera che aspettavamo, l’atmosfera che aspettavamo, perfettamente descritta dalla copertina dell’album dove troviamo una donna rannicchiata all’interno di un violoncello fracassato all’ingresso di un bosco. Dedicategli il tempo che merita. Sam Rosenthal ed il suo romanticismo filosofico hanno ancora molto da darci.
Erica Mou @ Museo delle Genti d’Abruzzo, Pescara 01/12/2016 [LIVE & PHOTO REPORT]
Con la consueta invidia aquilana mascherata da spocchia, mi dirigo di forza in terra pescarese per il MagFest – Festival di donne nel teatro contemporaneo. Il menù per la giornata del primo dicembre prevede una combo musicale distante per intenti, provenienze e finalità ma con le medesime cura e ricercatezza. Da un lato Doriana Legge, cantautrice e compositrice aquilana, che porta sul palco la sua sonorizzazione elettronica dell’unico film in cui vediamo Eleonora Duse, nota in questi lidi più per le sue frequentazioni che per il suo innato talento. Dall’altro lato Erica Mou, al secolo Erica Musci, pugliese trapiantata a Roma che per l’occasione raccoglie in uno spazio buio, intimo e quasi confidenziale la sua personalità e la sua chitarra.
La performance di Doriana avviene in un auditorium, il Petruzzi, tanto brutto quanto acusticamente impeccabile e ad accoglierla trova un pubblico discreto ma attento che non si risparmia dal fare domande che coinvolgono la Doriana Legge compositrice come la Doriana Legge docente di teatro.
La location della Mou è assai accattivante, una sorta di antro volutamente lasciato buio, due palloncini, una chitarra e lei. Poco più di una ragazza solo sulla carta d’identità. La profondità dei suoi testi ben si bilancia con l’ironia frizzante ma mai sopra le righe della sua persona. L’esecuzione è perfetta, suoni talmente puliti da sembrare quasi semplici eppure mai banali tanto da chiedersi come mai non sia ancora riuscita ad ottenere la notorietà che vantano alcune illustri colleghe. In controtendenza Erica si mostra timida mentre si esibisce e incredibilmente socievole nello sciorinare piccoli racconti e aneddoti sul suo ragazzo, sulla nonna o sul cambio di vita geografica e musicale. Un live ‘sottovoce’ ma mai noioso che regala ai presenti un’esecuzione de “L’Edera” di Nilla Pizzi che avrebbe emozionato anche lei e al contempo delle piccole sperimentazioni acustiche con un bicchiere colmo d’acqua e un cucchiaino.
Il nome dell’evento, che è lo stesso della sua ultima fatica musicale, a posteriori, sembra quasi un invito deciso. Tienimi il posto.
Bad Dinosaur – The Stone [FREE DOWNLOAD]
Su Rockambula il free download esclusivo di “The Stone”, nuovo singolo dei Bad Dinosaur, quartetto bresciano che viaggia tra il Rock’n’Roll anglosassone dei 70’s e il Garage Punk dei primi Clash., in attesa dell’EP di esordio (Bites) atteso per il 1° febbraio prossimo.
Giorgio Tuma + Laetitia Sadier @ Ohibò, Milano 24/11/2016
Piove da giorni e non potrebbe essere altrimenti: siamo all’Ohibò di Milano per la serata organizzata da Sherpa Live con i ragazzi del Diluvio Festival. La serata si preannuncia densa – gli act in scaletta sono quattro (in realtà cinque, come vedremo) – ma la selezione è stata intelligente e, per non annoiare, la varietà non manca, nonostante una più che giusta affinità di mood (piovoso, spesso). Si parte, sapientemente, con i Tide Predictors, un duo basso+voce/tastiere+synth (+ basi, che saranno una costante per tutti i gruppi d’apertura). Rimango sorpreso: musica di chiaro stampo Electro-Pop eighties in inglese ma con evidenti richiami agli anni Sessanta nei riverberi della voce e in certi suoni di batteria. Nulla di nuovo, certo, ma i ragazzi scrivono bene, con un’attenzione all’armonia e ai ritmi che spesso non si limitano ai quattro accordi in quattro quarti o al motorik più abusato ma variano in modo piacevole, rimanendo sempre in un ambito gustosamente pop e ballabile, con qualche punta godereccia di rumore più sporco che non guasta. Atmosfere ombrose e piglio divertito mescolano cupezza e ironia senza sbilanciarsi troppo. Non il mio genere, ma aprono degnamente la serata. Approvati. Si presenta poi sul palco il solitario Vikowski, voce calda e tastiere (+ basi, come si diceva). La proposta è più comune: il punto forte è la voce, che Vikowski ha morbida e precisa. Canta bene, avvolgente in basso ed energico in modo struggente quando spinge di più. La presenza scenica abbastanza neutra non lo limita più di tanto, considerando che sul palco è da solo dietro la sua postazione, ma nemmeno lo fa brillare granché. Tutto sommato canzoncine piacevoli (e a me le canzoncine piacciono, sia chiaro), ma che non mi hanno colpito molto. Si può crescere, la misura c’è. Mi aggiro per l’Ohibò per dissetarmi e quando torno gli Abbracci Nucleari hanno già iniziato. Sono in due, pianoforte e voce (+ le sempiterne basi). Una sorpresa deliziosa. Un pianoforte mobile, luminoso e spaziale e una voce – femminile – perfetta. Davvero, perfetta: sussurra, si ingrossa, sale scende e fa un po’ il cazzo che le pare. Una padronanza cristallina del mezzo, unita a costruzioni armoniche e sonore in cui può appoggiarsi comoda e accogliente. Le canzoni sono forse il punto debole: rendono molto di più quando cercano di stupire virando sul Jazz o su ritmi più sincopati, da Elettronica quasi-glitch o da R’n’B moderno e cool; quando si appoggiano a una sorta di Post-Rock sui generis più lineare invece perdono molto. Le basi in generale aiutano: si indovina un ottimo lavoro di produzione, che però a volte fa a pugni con la semplicità dei testi, delle linee melodiche, delle strutture dei brani (spesso loop molto circolari, o così sembra). Rahma Hafsi, la cantante, sul palco è a casa sua, canta e si muove con una luminosità e una naturalezza incredibili, a volte forse troppo, considerando il genere. Un’ottima prova, che se non mi ha conquistato al 100% è solo per la mia cronica tendenza a sopravvalutare l’importanza del testo e della varietà strutturale di un brano – quindi mea culpa. Arriviamo all’headliner della serata… ma no: prima ci aspetta una massacrante mini-scaletta di Laetitia Sadier degli Stereolab, da sola. La cantante sale sul palco con calma, attacca la sua chitarra-elettrica-al-contrario (destra ma suonata alla mancina) e parte. Mood sognante, scarno, con solo la chitarra effettata ad accompagnare la sua bella voce limpida. Le canzoni non sono male, ma lei le suona male (si può dire che suonare fuori tempo, perdendo i colpi, e litigando col manico della chitarra è “suonare male”? O abbiamo già superato anche questa linea?). In più la Sadier si rende protagonista di un seccante teatrino quando ferma il pezzo in corso per ammonire il pubblico troppo rumoroso (c’era chi chiacchierava) per chiedere a chi non sia interessato di andarsene al bar. È seccante, il teatrino, perché il rumore era veramente minimo (e ve lo dice uno che non sopporta certi concerti col pubblico irrispettoso e vorrebbe, da asociale quale è, stare sempre seduto comodo e in silenzio nella poltrona di un teatro); perché, se ti distrai a suonare per due chiacchiere, probabilmente hai sbagliato mestiere; e perché, se pure pensi che la tua musica valga il silenzio del pubblico, o te lo conquisti a forza stile Low oppure fai l’artista inflessibile – con tutta la ragione del mondo! – e te ne vai. L’avrei apprezzata molto di più. Finalmente, dopo quasi tre ore di musica (buona musica, in ogni caso), sale sul palco Giorgio Tuma, che porta per la prima volta dal vivo le sue creazioni in giro per l’Italia nell’anno che lo ha visto pubblicare il suo quarto album, This Life Denied Me Your Love, e che stasera troviamo dietro le pelli e al microfono. Con lui Giuseppe Manta alla chitarra elettrica, Giulia Tedesco alle tastiere e voce e Gigi Cordella ai synth. Tuma è di un’altra scuola. L’impianto, nonostante synth e tastiere, è suonato, acustico in senso lato: è una band più vicina agli anni Sessanta che a qualsiasi altra cosa. L’atmosfera, a volte, si avvicina ai sapori crepuscolari e “liquidi” che abbiamo sentito durante la serata, ma li usa per crescere, gonfiarsi, alzare il tiro ed esplodere in lunghe code strumentali, in passaggi trippy, in sei ottavi rotolanti che Tuma gestisce con umanità da dietro la batteria, tenendo il polso delle canzoni in un modo che non ha nulla del robotico e del meccanico di certe precisioni infallibili, ma che al contrario ha il ritmo del sangue e delle parole che oscillano, ondeggiano, e se si inceppano (di un millisecondo, non importa) fa parte del gioco, fa parte della vita. Le canzoni di Tuma sono un’unica grande canzone, un oceano di suoni che accarezzano e poi trascinano, in cui si percepisce distintamente il suo gusto per l’arrangiamento e la libertà totale nello scrivere, che poi è totale subordinazione alla propria fantasia, alla propria voce interiore. Laetitia Sadier torna sul palco, all’inizio e alla fine del set, per duettare con lui, e il risultato è onirico, celestiale. Un concerto forse troppo breve ma che risucchia e sommerge, piacevolmente. Un’ottima chiusura, e questo senza considerare l’infinita umiltà e dolcezza di questo talento che rimane in disparte, parla poco, tentenna, come se stare sotto i riflettori fosse un male necessario per portare in giro i suoi suoni, la sua musica. Ecco, questa è la lezione numero uno che ci insegna Giorgio Tuma: la musica è ciò che deve stare al primo posto, il resto è e deve essere solo un contorno.
[foto di Eleonora Zanotti]