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Anna Calvi 21/02/2014

Written by Live Report

Il venerdì notte è la mia notte. È un momento carico di una strana euforia, di una stanchezza che ubriaca, di un’energia potenziale che dilata il tempo e gli conferisce un aspetto simile all’eternità. È venerdì notte, e tutto può accadere. Vi starete chiedendo se siete stati catapultati improvvisamente alla Sagra delle Banalità, dato che questo pensiero accomuna buona parte della popolazione planetaria ed è già stato ampiamente espresso, anche in maniera più eccelsa, da altri prima di me (un certo Robert Smith ad esempio, nei suoi momenti di rara esaltazione, cantava “Friday I’m in Love”). Ma cosa che volete che vi dica? A me basta così poco per essere felice stasera, un bicchiere di vino con un panino, ed un concerto di Anna Calvi. L’Hiroshima Mon Amour è stranamente calmo e poco affollato all’esterno; il pubblico è già tutto all’interno, tranquillo, in attesa, C’è ancora il tempo per tutto: una birretta al bancone, due chiacchiere per riassumere le sfighe della settimana appena trascorsa e due chiacchiere per anticipare quelle della settimana che verrà, commenti di varia natura su questi bicchieri di birra che hanno drasticamente ridotto la loro capacità pur avendo lasciato inalterato il prezzo, discorsi vari ed eventuali. Poi si guarda l’ora, ed è meglio avvicinarsi al palco, perché tra un po’ le danze avranno inizio, e così succede. Anna Calvi arriva e sembra uscita da una foto, una di quelle che compaiono quando si digita il suo nome su Google: stessi capelli color miele, stessa acconciatura, stesso rossetto (rosso), stesso colore (rosso) per la maglia, stesso look per farla breve. Dal vivo sembra  piccola, una Lolita pura nelle espressioni ma accattivante se le metti una chitarra in mano. Invece ha trentatré anni. Penso che ho ancora tre anni di tempo fare qualcosa di buono nella vita.

Il pubblico accorso all’evento è un pubblico sensibile e colto; lo si capisce dal fatto che davvero in pochi, pochissimi, hanno il coraggio di sfoderare gli Smartphone per improvvisarsi fotografi delle migliori riviste di musica. Tra i non colti vince il primo premio colei che, presa da un raptus feroce di intelligenza, mi chiede: “Ma si può fumave qui dentvo?” (Ha pure la “r” moscia, cosa volete da me?). L’animale che mi porto dentro avrebbe voluto rispondere “Cogliona. Sono  anni che in Italia non si fuma nei locali, e poi, ti sembra che qualcuno stia fumando qui dentro? Non ti accorgi che quella nebbiolina che vedi in controluce sul palco altro non è che un effetto scenico ormai in uso (e in disuso) da diverso tempo?”. Tuttavia mi volto lentamente con uno sguardo che chi era con me ha definito da madre incazzata, misuro l’ampiezza cerebrale della mia interlocutrice, e decido di limitare al minimo il mio consumo di energie rispondendo: “Non credo proprio…”. “Peccato” mi dice. È inutile, non ha proprio speranza. Ritornando al pubblico, trovo che sia anche molto eterogeneo: giovani, meno giovani, adolescenti, rockettari incalliti ed attempati con segni di calvizie in stato avanzato, uomini serrati in maglioncini Tommy Hilfiger con tanto di camicia abbottonata fino all’ultimo bottone, madri di famiglia forse in cerca delle figlie scappate di casa per l’ennesima volta, hipsteromani che invece non cerca nessuno; di tutto di più insomma.

Una volta sul palco Anna mette subito le cose in chiaro: in questo concerto si darà spazio nient’altro che alla musica. Pronuncia poche, pochissime parole, rigorosamente in inglese (anche se da una che si chiama Anna Calvi almeno un grazie in italiano ce lo aspettavamo),  rigorosamente sussurrate al microfono, in netta contrapposizione con la potenza che la sua voce può raggiungere. A fine concerto sussurra qualcosa che quasi nessuno riesce a capire. Potrebbe aver detto Thank you so much, ma anche Fuck you so much, è un aggrottarsi di sopracciglia generale. Facci capire, Anna,  facci capire se dietro tutta questa ricercatezza nascondi un innato spirito Punk, facci capire se ci hai mandati tutti a fanculo con la dolcezza della tua voce melliflua, facci capire che peso dare alla serata; non abbiamo paura degli stravolgimenti, non abbiamo pregiudizi, ci piace voltare le carte in tavola e cambiare strada all’improvviso. Ma lei continua a pronunciare parole sottovoce, e noi continuiamo a non capire. L’intera esibizione è come un giro sulle montagne russe. Anna ci porta in alto, con la voce, con il suono, è un’esplosione di chitarre e vocalizzi (forse ce ne sono anche troppi). Poi un attimo dopo siamo in basso, in profondità, siamo acqua stagna che cerca un varco per entrare in luoghi segreti. Ci prende in giro Anna, a metà serata, tra alti e bassi. Accelera, arriva in alto, poi frena di botto, rasenta il silenzio. Crediamo sia finita lì, parte un applauso fuori luogo mentre lei riprende ad accelerare, sale di nuovo veloce e poi riscende in picchiata, e noi ci ricaschiamo una, due, tre volte. Penso che siamo un pubblico di merda; non sappiamo nemmeno quando applaudire. Poi però penso anche che non siamo a teatro, ma in uno di quei posti dove si suda, e che certe formalità le abbiamo volutamente lasciate chiuse a chiave nelle nostre case.

Siamo a tre quarti di concerto e tocchiamo l’apice quando Anna si perde in un assolo da capogiro. È là, sul palco, ci sono solo lei ed il suono, ha i fari puntati addosso ed il collo teso verso l’alto, mentre le dita inseguono corde ad una velocità inaudita. È in estasi. Mi guardo intorno. Mi chiedo cosa pensano gli uomini quando vedono certe donne impugnare la chitarra in quel modo. Sei o sette rockettari stempiati di cui sopra la osservano a bocca aperta, con lo sguardo inebetito e la faccia persa nel vuoto, ed inutilmente cercano di stare dietro a quelle dita accennando movimenti con la testa. Io invece penso che sia cazzuta, ed il fatto che non ha bisogno di dimostrarlo con gesti e parole eclatanti, con cavalcate faraoniche del palco e movimenti eccessivi mi piace parecchio. Siamo fin troppo pieni di fronzoli in questo mondo, un po’ di sostanza non può che farci bene. Dopo il teatrino uscita-applauso-uscita si levano le ancore e si torna a casa, con un bella scorta di Bellezza per i giorni futuri, che sono sempre un punto interrogativo troppo grande, ma non è il momento di pensarci ora, non me ne frega niente in questo momento. Sono le 3.30 di un venerdì notte qualsiasi, è vero, ma è quella la parola magica, Venerdì, è quella che conta. Sorriso in bocca ed occhi che cedono al sonno. It’s Friday I’m in Love.

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