E’ inutile fare gli artisti maledetti, che vivono di puro istinto. Quelli che si svegliano la notte per scrivere e iniettano litri di caffeina nelle vene, oppure si portano il taccuino sporco di sugo al parco per essere ispirati dalla natura. Io credo che la maggior parte degli scrittori (e per scrittori intendo sia poeti ermetici che giornalisti sportivi) abbia un proprio metodo di lavoro. Io per altro non mi sento neanche troppo tutelato a trovare il mio, dato che faccio lo scrittore come l’impiegato della San Paolo gioca al calcetto coi colleghi il mercoledì sera.
In ogni caso prima di attaccare a scrivere una nuova recensione, vado a pescare informazioni sullo “stile di vita” del gruppo che mi capita tra le mani. Forse per pura curiosità o per deformazione professionale. Avendo una band da tanti anni e conoscendo un sacco di musicisti, provo una sorta di attrazione magnetica in tutti gli appassionati di “suono”.
L’impatto con la band in questione, ovvero 7 Days Training di Frosinone, è stata al dir poco folgorante. Riporterò quindi qui sotto le parole introduttive al loro sito:
Questa band nasce da molto lontano, ma siamo degli inguaribili fatalisti, e in qualche modo ci siamo convinti che avremmo continuato a fare musica insieme così come è sempre stato, e magari anche a far uscire un disco.
Anche se siamo solo in quattro, riusciamo a mettere assieme quasi centotrentacinque anni, ma dicono che non ci sono date di scadenza per il rock ‘n’ roll, e allora continuiamo a far finta di niente.
Questo è il nostro nuovo sito web ricostruito per l’occasione: il 5 aprile è uscito il nostro primo disco, che reca un titolo celebrativo, emblematico, ed “autoesplicativo” (In a safe place) ed è, tra le tante cose, anche un buon motivo per continuare a volerci bene e a riservarci il bicchiere della staffa da condividere quando fuori fa freddo.
E quando il rock è un buon motivo per volersi bene, hai vinto. Chissenefrega se il disco suona molle, se non decolla mai, se la canzone migliore “Beautiful Bleeding” presenta una voce a dir poco traballante, se c’è il timbro sbiadito dei R.E.M. più depressi e dei Radiohead più vivaci, se non hai più il fisico per fare il coglione sul palco e per spacciartela dopo con un bel gin lemon in mano, se non c’è grande personalità nel tuo progetto. Hai vinto il premio più ambito. Nulla ti puo’ sconfiggere, neanche una recensione come questa ti puo’ piegare.
Si perchè nel mio mondo delle favole questo disco sarebbe una bomba: 4 amici che si chiudono in studio dopo tante vicissitudini e tirano fuori il loro capolavoro, un po’ introspettivo e cupo ma viscerale, compatto, denso.
Ma il mio mondo delle favole vorrebbe anche l’uscita di un disco come “Rubber Soul” nel 2012. Infatti in “In a safe place” purtroppo è tutto solo una forte intenzione, un treno di passione che lentamente si va ad arenare contro una muraglia. Le canzoni non esplodono e non si creano mai le tensioni e le atmosfere magiche degne dei maestri moderni di indie-rock.
Poco male, io brindo a un gruppo così. Condividerei con loro proprio un bel bicchiere che fuori oggi fa molto freddo.