È da tempo che ci ribadiscono che il futuro del Rock è nell’Elettronica e qualcuno ci aveva pure creduto. A distanza di tredici anni da Kid A già cominciano a fare dietrofront in tanti e il futuro del Rock diventa, di volta in volta, “il vintage”, “la riscoperta degli anni 80”, “il revival Rock’n Roll”, “la sperimentazione cinese”, “gli Arcade Fire”, “la Dubstep”, “il Pop”, “il Blues Rock classico”, “il Lo-Fi”, “il Minimalismo”. Sono passati quarantacinque anni dall’omonimo album dei Silver Apples e a quanto ho inteso l’Elettronica non è mai stato il futuro ma solo uno dei tanti mezzi con i quali il Rock si è confrontato e allo stesso tempo una realtà a sé stante, disgiunta dalle dinamiche di mercato e dalle tensioni emotive del Rock. L’Elettronica è un mondo a parte nel quale, di tanto in tanto, i protagonisti della scena Rock si inabissano per cercare nuove vie d’ispirazione (vedi Reflektor). Il futuro è la contaminazione e la distruzione delle classificazioni. Forse e forse lo sottoscrivo ma forse farò dietrofront anch’io, un giorno.
Tuttavia, c’è chi sembra calarsi perfettamente in questo ruolo dell’Electronic Music di secondo interlocutore e prosegue per la sua strada cercando non di scoprire come sostituire corde e pelli nelle nostre orecchie ma come spalancare nuovi varchi stilistici per un settore che ha ancora tanto da dire. Una di loro, di questi neo romantici dell’astrattismo musicale, si chiama Blevin Blectum (voce in A Chance to Cut Is a Chance to Cure e The Civil War, entrambi album degli straordinari Matmos) e da fine millennio cerca una formula ideale miscelando sostanze, spesso con scarsi o modesti risultati, ma che, nelle ultime cose, pareva aver trovato l’ingrediente segreto mancante.
Anche questa volta, giunta al quinto album solista, Blevin Blectum edifica tutto un mondo sonoro (con un utilizzo minimo delle parole) che regge su strutture artificiali ben delineate procedendo lungo la scia di Gular Flutter, album del 2008 nel quale l’artista sembrava essere riuscita a indovinare e rendere a pieno il senso della sua proposta. In apertura scoviamo le due parti di “Cromis” le quali, nella loro semplicità, figurano come l’inizio esemplare di una tanto attesa risposta a chi chiedesse all’Elettronica di cambiare il suo ruolo. Ritmiche e suoni scomposti ma ossessivi fanno da contraltare a una vocalità destrutturata ma puntuale. Manca una melodia precisa eppure le ritmiche poggiano su solide basi tanto da rendere il brano orecchiabile nella sua sventatezza. Ben presto però il sound si altera, perde consistenza, diventa un’accozzaglia neanche troppo articolata di suoni (“Nanofancier”) elettronici alternati in maniera metodica su uno sfondo di illusorio caos che richiama in maniera netta lo stile dei Matmos (“Deathrattlesnake”) ma non riesce a eguagliarne l’intelligenza e la complessità sostanziale. Poche cose, non troppo interessanti e mescolate maldestramente e una delusione evidente in chi, come me, si apprestava ad ascoltare un gioiello, dopo Gular Flutter e dopo l’ascolto dell’opening track. Mi attendevo una strada piena di ritmiche incalzanti, di voci straniate e stranianti, di suoni compositi, variegati e cangianti e per quasi cinquanta minuti subisco un attacco furioso da un quasi nulla sonico buono solo ad annoiarmi senza neanche riuscire a farmi addormentare.
Emblem Album è un passo indietro per Blevin Blectum, greve e in parte inatteso ma è solo un insignificante passaggio a vuoto per il mondo dell’elettronica intelligente che forse non sarà il futuro del Rock, ma di certo ne ha uno tutto suo, pieno di accecanti colori al neon.