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Aa. Vv. – The Reverb Conspiracy Vol. 3
Nuova coproduzione per la label europea Fuzz Club Records e l’americana The Reverberation Appreciation Society, fondatrice dell’Austin Psych Fest, e nuova bomba sonica che raccoglie alcuni dei nomi più interessanti della scena psichedelica del vecchio continente. Si parte con lo Space Rock di “No Place to Go” dei londinesi The Oscillation per poi volare in Spagna con “Moon” degli Holy Science. Psichedelia mantrica dal sapore Post Punk stile Soft Moon che è anche il modo più efficace, apprezzabile e diretto per introdurci a questa compilation la quale ci regalerà non poche sorprese. Si cambia completamente sound con “You Now” dei norvegesi Deathcrush; voce femminile cazzutissima e pura potenza Psych Noise per uno dei momenti più rabbiosi e violenti dell’intera raccolta, in totale contrapposizione allo Shoegaze di chiara ispirazione My Bloody Valentine della successiva “Suddenlines”, brano eccelso opera dei berlinesi The History of Colour Tv.
Con “You Drive Me Insane”, torna una nostra vecchia conoscenza, l’islandese Henrik Baldvin Bjornsson, leader anche dei mitici Dead Skeletons e qui con la storica formazione Singapore Sling, del cui ultimo lavoro vi abbiamo ampiamente parlato e tessuto le lodi. “Meltdown Corp.” Dei nostri connazionali Newcandys segna il passaggio più Stoner di questo The Reverb Conspiracy Vol. 3 e si lega perfettamente al suono sabbioso di “Death Is on the Way” dei Sound Sweet Sound e alla successiva “Green Like an Alien” degli Undisco Kidd che figura il punto centrale della tracklist. Sezione ritmica martellante, voce marcissima e riff di chitarra taglienti come rasoi sporchi di ruggine.
La seconda parte si apre con “Ausland” che aggiunge altra carne al fuoco a un’opera la quale ha già messo sul piatto una miscela di Blues, Folk, Rock’n Roll e Krautrock da farvi uscire di testa. Si sente tanto dei Neu! nel brano dei Camera e la sensazione è che si sia davanti ad una sorta di vero e proprio omaggio al capolavoro “Hallogallo”. Prima dei nuovi nomi pesanti che scopriremo in chiusura, è la volta della Darkwave “Side Effects” dei Future la quale, sempre con attitudine Psych, incorpora quel quid sintetico che sembrava essere l’unica effettiva mancanza dell’album. Fatto il giro d’Europa, si vola ancora nel Regno Unito, precisamente a Liverpool, dai grandi Mugstar che, con “Hollow Ox”, faranno traballare le pareti della vostra stanza con un cocktail lisergico di Space Rock e Stoner interamente strumentale.
Distorsioni violente, voce cupa, sommersa, affogata in un Noise aggressivo in “Tungsten” dei sempre britannici One Unique Signal. Siamo in dirittura d’arrivo e manca qualche nominativo spesso. Nessun problema perché prima è la volta di Goat con la sua “Hide from the Sun”, mixata da Anton Newcombe dei Brian Jonestown Massacre, che regala un sapore Apocalyptic Folk a quest’ultima parte e poi ai londinesi Lola Colt con “Away from the Water”, pezzo che fornisce anche il titolo all’album dello scorso anno prodotto da Jim Sclavunos di Nick Cave and the Bad Seeds, il quale ha trovato un discreto favore del pubblico anche in terra italiana. Post Punk psichedelico, vaghi accenni Hard Rock nella sezione ritmica, voce che ricorda i poetici lamenti d’una certa Patty Smith e chitarre evocative, distese ma inquietanti fino alla conclusione devastante con un minaccioso muro di suono, solo a tratti graffiato da una tastiera che ricorda il Blues dei Doors. Ottima la scelta di chiudere la tracklist con “As We’ve Been as One” di François Sky che qui vede il featuring di Jeff Levitz dei Brian Jonestown Massacre.
Il trip su e giù per l’Europa è concluso e le prime sensazioni sono quelle che ti fanno ben sperare e credere che di talento ce ne sia ancora tanto da scoprire. Qualche nome nuovo e vecchie leggende dello Psych Rock si sono alternati in un’opera che a essere sinceri ha poco senso, se si vuole analizzare oltre l’apprezzabilità dei singoli brani, specie per il fatto che siano già editi e quindi poco stimolanti per i più attenti seguaci della scena ma che, presa per quello che è, senza troppi entusiasmi, vi regalerà ore di puro godimento chimico.
Aa. Vv. – Happy Birthday Grace!
Ci sono album e musicisti che la bravura e il destino hanno reso immortali, imprimendoli nella memoria e nell’immaginario di molti. Jeff Buckley è sicuramente uno di loro, una vera meteora che ha illuminato per troppo poco la scena musicale mondiale, ma che ha saputo in così breve tempo lasciare un’impronta indelebile nella storia del Rock. Nell’agosto del 1994 usciva il suo capolavoro, Grace; vent’anni dopo, lo studio di registrazione QB Music di Milano, pubblica in free download una compilation che ne celebra il ricordo. Parlare di semplice tributo non è corretto perché il lavoro di reinterpretazione e omaggio alle dieci tracce che compongono Grace va aldilà della semplice “coverizzazione” dei brani. Gli artisti presenti hanno saputo, grazie alle sapienti mani dello studio, creare qualcosa di veramente nuovo e non scontato, basando il lavoro su una forte ricerca dei suoni e degli arrangiamenti, portando le melodie di Grace negli anni 2000 attraverso la New Wave, il Funk, l’Elettro Pop e le sperimentazioni musicali. Capita spesso che le reinterpretazioni e i tributi, nella ricerca dell’omaggio perfetto a tutti i costi, inciampino nella miope rete dell’emulazione e finiscano per essere solo delle brutte versioni dell’originale. QB Music e gli artisti coinvolti sono riusciti invece a trovare il giusto equilibrio e mix tra la versione originale e le diverse personalità degli interpreti che si susseguono, offrendo un punto di vista differente e tratti irriverente e un po’ impudente. Così ci si ritrova ad ascoltare “Mojo Pin” in versione New Spleen Wave, dove la carica interpretativa di Buckley viene resa materiale dai synth effettati degli Starcontrol; una veloce e ritmata “Grace” “groovizzata” grazie alla sorprendente voce ed energia di Naima Faraò dei The Black Beat Movement.
Tra le dieci tracce ce ne sono due che si contraddistinguono per intensità e sperimentazione, anche se lo fanno muovendosi su territori ben distinti e sono la scura “So Real” in cui i Two Fates, attraverso un tappeto di suoni sintetici, attualizzano il senso claustrofobico e di angoscia affidati a basso e batteria nell’originale, e “Corpus Christi Carol“ solenne e celestiale che si trasforma in terrena e quasi tribale grazie alla ritmica dei piatti e dei tamburi dello Zenergy Trio. Due interpretazioni altrettanto interessanti e ricche di emozioni sono quella di “Lilac Wine” che diviene un blues scarno e graffiante con la sensibilità di Sergio Arturo Calonero, e dell’immortale “Hallelujah”, uno dei compiti più ardui, che gli Io?Drama superano brillantemente grazie alle grandi capacità vocali di Fabrizio Pollio e al violino di Vito Gatto. Happy Birthday Grace! È un lavoro curato, bello da ascoltare, cha valorizza gli artisti che vi hanno partecipato e rende omaggio alla grande musica e alle capacità interpretative di Jeff Buckley con altrettanta qualità, sempre con la giusta consapevolezza del confine tra imitazione e tributo.
Aa. Vv. – Son of a Gun A Tribute to Kurt Cobain
Il cinque aprile di venti anni fa muore, apparentemente sparandosi una fucilata alla testa, quello che è innegabilmente uno tra i personaggi più importanti, influenti, sfrontati e idolatrati che la storia del Rock ricordi, uno di quei loser (al fianco di Ian Curtis, Elliott Smith e pochi altri) capaci di affascinare intere generazioni per decenni e anche oltre. Per l’occasione, Big Red Agency e RuSsU (Totale Apatia) in collaborazione con La Città della Musica e Rock House, hanno promosso questa raccolta di cover, reinterpretate da band e musicisti lombardi, per ringraziare Kurt per quello che ci ha consegnato. Tutto fantastico, in apparenza, ma poi ci tocca stendere una recensione di questo lavoro, cercando di tirare fuori tutto il cinismo possibile trattandosi di rievocare un personaggio a noi tanto caro e scomparso in circostanze così atroci. Come si può discorrere in modo ostile di un tributo a un’artista come Kurt Cobain? Infatti, non è quello che farò, perché la scelta di mettere insieme questi diciannove riarrangiamenti da parte di Big Red Agency e gli altri è totalmente comprensibile, gradito e, la quasi generale assenza di desiderio di speculazione mi spinge ad accettare con ancor più appagamento questa pura voglia di ricordare e omaggiare attraverso le note dei Nirvana.
Come abbiamo accennato, però, l’album è fatto non solo di parole dei Nirvana, ma di canzoni della grande band di Aberdeen rivisitate da nostrane formazioni lombarde, non tutte in grado di rileggere con sensibilità nuova quei brani, mantenendone inalterata l’intensità emotiva. La scelta condivisa dalla maggior parte delle band è di non stravolgere eccessivamente lo stile originale, forse mostrandosi saggi o spaventati dagli ovvi paragoni, e quindi, per lo più, la tendenza è sottolineare chi l’aspetto Punk (Andead), chi quello Rock (Mad Penguins, Marydolls, Str8t), chi quello Alternative (Cronofobia, Nessuno, Pay) e chi quello Lo Fi (Il Re Tarantola) della band regina assoluta del Grunge. Diverse le formazioni che provano ad aggiornare con raffinata adeguatezza al presente le note di Cobain, alcune riuscendoci in pieno e altre meno ma comunque palesando una buona dose di coraggio che non deve essere trascurata. Discrete le scelte di Hey! Amber, Incomprensibile Fc mentre ottima è la selezione del brano da parte dei 36 Stanze che offrono una versione Crossover di “Tourette’s”, cosi come non dispiacciono l’intima rivisitazione di “Rape Me” di RuSsU e “Serve the Servants” in chiave Rock’n Roll dei Seddy Mellory. Passando al peggio ascoltato nella compilation, dispiace dover citare le due brutte trasposizioni Rock scialbissimo e Hard Rock dei Deizy e dei Blackline e disturba addirittura lo stile e la timbrica irriverente, in senso cattivo, dei Malena cosi come la “Sliver” dei Totale Apatia che quasi annienta la potenza intrinseca del brano originale. Per fortuna ci pensano prima i Korova Milk Bar con una splendida “Drain You” a risollevare il livello e poi i Matmata con “Dumb”.
Un lavoro senza troppe ambizioni che non ci regala molte positive chiavi di lettura, ma quantomeno pone l’accento su una grande formazione a tratti troppo bistrattata ma che invece ha saputo fare della semplicità e del minimalismo rabbioso una forza capace di resistere al tempo. Un lavoro che aiuterà i più distratti a ricordare di un perdente che il tempo ci ha insegnato a riconoscere come un grande uomo oltre che un immenso artista.
Aa. Vv. – Loves You More
Prima che inizi a parlarvi di questo disco, lasciatemi qualche secondo per raccontare una storia. Siamo a Echo Park, territorio limitrofo alla città degli angeli per eccellenza, Los Angeles, e tra gli alberi che avvolgono l’aria nei loro colori secchi d’autunno si nasconde il cadavere di un ragazzo di appena trentaquattro anni. È il 21 ottobre 2003. Lui è un musicista nato con Post Punk e Grunge nelle orecchie e poi diventato un eccelso cantautore, paladino dell’Indie a bassa fedeltà e tendente, soprattutto agli esordi da solista, a scegliere strade strumentali. Quel musicista ha un tatuaggio sul braccio, il toro Ferdinando, un gigante ma pacifico che alle corride preferisce i fiori, sgraffignato da un libro per bambini. In altre parole un fallito, per chi non riesce a comprendere coloro che si piazzano fuori dagli schemi stabiliti dalla società. Quel cadavere ha un nome: Elliott Smith. Lo stesso Smith che nel 1998 fu nominato agli Oscar per il brano “Miss Misery”, contenuto nel film di Gus Van Sant, Will Hunting – Genio Ribelle. Elliott Smith sale sul palco trasudando un’inadeguatezza quasi malinconica e tenera. Non è quello il suo posto. Forse non è questo mondo il suo posto. Elliott Smith si fa portavoce di una generazione di persone sbagliate nel posto sbagliato. Elliott Smith è infognato nella droga e nell’alcol e nella depressione. Quel cadavere quando ancora era uomo si è preso due coltellate al petto, quel lontano 21 ottobre 2003. Suicidio dicono, eppure pare strano suicidarsi con due coltellate al petto ed è bizzarro che la fidanzata col coltello tra le mani sedesse al suo fianco. Proprio in quei giorni Elliott, nato Steven Paul Smith, stava lavorando all’album From the Basement on the Hill e in quell’ultimo disco abbiamo cercato le tracce che ci donassero la verità, scovando però ancor più il turbamento dell’uomo dietro l’artista.
Loves You More nasce da un’idea di Davide Lasala dei Vanillina. Quindici brani e quindici artisti che all’Edac Studio reinterpretano Elliott Smith, registrando in presa diretta su nastro magnetico e mantenendo intatto quel sapore Lo Fi che ha sempre contraddistinto l’artista statunitense di Omaha. Si va da interpretazioni più canoniche, a scelte più rischiose e audaci, con qualche punta di vera e spettacolare emozione. Non sono certo io il primo sostenitore di tribute e cover eppure operazioni come questa sono qualcosa con un valore che esula dalla pura essenza artistica. Com’è accaduto con il tributo ai Fluxus di qualche mese fa, questi sono strumenti eccelsi che non solo aiutano a riscoprire i grandi del passato e magari proporli alle nuove generazioni ma hanno il duplice ruolo di promotori di nuovi talenti. Nel nostro caso pochi sono i nomi veramente noti al piccolo grande pubblico, Black Black Baobab forse, C + C = Maxigross, Dellera, Edda, Jennifer Gentle mentre gli altri sono soprattutto artisti dei quali, si spera, sentiremo parlare. Dennis di Tuono, Dilaila, Emil feat Cani Giganti, Eva Poles, Il Vocifero, Kalweit and the Spokes, Labradors, Mr. Henry, Nicolas Falcon e gli stessi Vanillina. Da brividi la versione di “Needle in the Hay” di Nicholas Restivo e Roberta Sammarelli dei Verdena ovvero i Black Black Baobab che reinterpretano il pezzo scelto per la colonna sonora del film I Tenenbaum di Wes Anderson. Edda ha optato invece per la lingua italiana intonando “Angels”, brano pubblicato nell’album Either/Or proprio come “Say Yes” dei Labradors e “Between The Bars” intonata da Mr Henry. Degna di nota anche “Bottle Up and Explode! di Emil feat Cani Giganti che azzarda strade di svecchiamento di un sound che in realtà mai suona vetusto, un po’ come propone Kalweit and the Spokes con “A Fond Farewell”.
Se riuscite a mettere le orecchie su questo piccolo gioiello, non staccatevene troppo in fretta se non per andare a riscoprire questo genio sofferente, un vero outsider e voce di migliaia di ragazzi troppo fragili per questo mondo. Non staccatevene se non andare a scoprire le nuove voci di una generazione sempre più in crisi e in lotta contro un mondo che sembra non amare la diversità.
Aa. Vv. – Brescia C’è New Generation
Prima di ascoltare un qualsiasi disco Punk (e derivati) italiano, soprattutto, bisognerebbe comprendere da che parte si sta. Non è cosa intelligente frazionare il mondo e ogni aspetto che lo contraddistingue, in categorie fatte di opposti eppure, in questo caso, dobbiamo captare se è e sarà nostra intenzione schierarci tra le fila dei nostalgici anni 70, convinti che il Punk sia morto ormai da anni e con esso le illusioni di ribellione e cambiamento oppure tra quelle di chi è convinto che in realtà il Punk, interpretato più come condizione mentale che come stile musicale, non sia mai morto e anzi sia impossibile da sopprimere, almeno finché ci saranno giovani ancora capaci di sognare e di opporsi. Una compilation come Brescia C’è New Generation può essere seguita senza pregiudizi solo da questi ultimi, cosa che non indica necessariamente dover essere ammaliati dalla musica che contiene. Del resto, il valore delle raccolte è circa lo stesso di quello che avevano tempo fa, quando erano allegate alle riviste, o ancor più in là negli anni, quando erano utili a mettere in mostra una marea di emergenti nel minor spazio fisico e uditivo possibile. Del resto, è più facile scoprire una qualsiasi nuova promessa attraverso queste trovate che non ascoltando intere discografie di band trovate a caso sul web, col problema anche di dover stanare, scrutare e sporcarsi le mani. Chi fa un lavoro come il nostro non ha complicazioni ma per un pubblico sempre più impigrito dalla “velocità” del web, scovare la next big thing rischia di diventare un’impresa inverosimile.
Ecco allora che Brescia C’è New Generation acquisisce un valore moderno per certi versi, anche se vecchio come la musica stessa nella realtà dei fatti. L’idea fondamentale è quella di mettere insieme ventidue band in ascesa o comunque non troppo note nel resto dello stivale, così da dare la possibilità a un pubblico più ampio possibile di farsi un’idea di quello che è lo stato di salute delle scene emergenti italiane, nel caso di uno specifico territorio e magari svestire qualche formazione degna di considerazione. A essere sinceri non c’è da aspettarsi molto a osservare l’estetica di artwork e libretto (comprensibilmente inesistente) ed anche la qualità non avvicina minimamente quella delle migliori uscite internazionali. Brescia C’è New Generation mette invece ancor più in evidenza un grattacapo che si fa sempre più critico e che ho avuto modo di rilevare anche durante diverse manifestazioni, contest, eventi nei quali ho potuto lavorare a stretto contatto con gli indipendenti e gli emergenti. Proprio il concetto d’indipendenza, tanto rivendicato a parole, mai si traduce concretamente in una proposta veramente originale, fuori dagli schemi, qualitativamente eccelsa e non solo sotto l’aspetto tecnico. Forse troppe sono le persone che decidono di provarci e il talento finisce per nascondersi. Non voglio con questo gettare fango sulle tante formazioni di tutto rispetto che compongono la compilation, su tutti i grandi punker Totale Apatia che in realtà poco avrebbero bisogno di farsi notare ancora ma non posso, per onesta intellettuale, negare che non siano molti i nomi veramente sopra la media, nel disco qui trattato. Non è il caso di scendere nei particolari perché la mole dell’opera e i tempi ristretti non coincidono, ma gli unici che forse sarebbe il caso di approfondire, oltre ai già citati Totale Apatia, paiono essere i Micro Touch Magics (Crossover), i French Wine Coca (Alternative Rock), i Coffee Explosion (Garage acerbo ma potenzialmente molto interessante, nella sua capacità di unire epoche lontane), La Cena dei Cannibali (assurdamente genialoidi e anche loro dal potenziale notevole), The Mugshots (evidentemente capaci anche, se il brano proposto non mi ha troppo entusiasmato). Non mancano inoltre band di tutto rispetto, come gli Under a Curse, gli Uprising o i DCP, che però seguono troppo i loro idoli e il loro stile, imitando senza scrupoli anche se non facilitati da generi difficili da rinnovare. Poi c’è chi si è proposto con registrazioni veramente improponibile e di scarsa qualità ma, in questo caso, il discorso sul “mettersi in mostra a tutti i costi” si farebbe troppo lungo e complesso. Meglio tornare ad ascoltare questi ventidue brani, alcuni bellissimi, altri grintosi, molti mediocri, pochi veramente difficili da digerire eppure certamente tutti onesti e fatti con cuore e anima, più di ogni altro brano che possiate aver ascoltato oggi sulla vostra Rds.
Aa. Vv. – Tutto da rifare. Un Omaggio ai Fluxus
“Quando non si può tornare indietro bisogna soltanto preoccuparsi del modo migliore per avanzare” scrive Coelho ne L’Alchimista. Quale modo migliore di avanzare, aggiungo io, se non riscoprendo una perla (per alcuni sconosciuta) del Rock alternativo italiano anni 90? Il passato va studiato, capito e molto spesso omaggiato, soprattutto in questo nostro e tanto amato mondo della musica. Con Tutto da rifare. Un Omaggio ai Fluxus la Mag Records in collaborazione con la V4V, produce un’opera decisamente interessante celebrando al meglio la storica band torinese. In attività dal 92 al 2001, il gruppo capitanato da Franz Gloria smuove le viscere dei giovani dell’epoca con quattro album in studio di assoluto valore, lavori che, senza dubbio, hanno lasciato un solco fondamentale all’interno della scena musicale alternativa nostrana ed un’eredità importante per le nuove generazioni.
I tanti applausi e l’ottimo riscontro critico non sono mai bastati ai Fluxus per ottenere un importante riconoscimento mediatico, sta di fatto che il talento non mancava (di certo non inferiori ai colleghi più fortunati e caparbi, per certi aspetti, dell’epoca) e che le loro sonorità Hardcore Punk, Noise hanno fatto storia nell’underground tricolore. Sono quattordici le tracce prese dai loro album (Vita in un Pacifico Nuovo Mondo del 1998, Non Esistere del 1996, Pura Lana Vergine del 1998 e Fluxus del 2002), interpretate da alcune delle migliori band del momento. Un lavoro di assoluta qualità grazie proprio ai gruppi che non si sono limitati a canticchiarne le canzoni, ma le hanno reinterpretate, arrangiate, modernizzate, rendendole proprie, senza intaccare il proprio stile e le proprie peculiarità, ma addirittura ostentandole.
Questo è certamente un pregio che rende onore e dà ancora più valore al tributo ai Fluxus, in fondo una cover ha senso se fatta musicalmente propria, solo così può assumere il significato preposto e presentarsi come una celebrazione, altrimenti nulla la renderebbe differente da una canzone cantata al Karaoke cercando di imitare Elvis. Band più o meno note, dunque, si alternano per più di un’ora di musica vera unendo il vecchio al nuovo con rispetto e originalità. Senza citare tutti gli artisti segnaliamo la bella apertura dei Majakovich con “Giro di Vite”, la bellissima interpretazione dei Marnero con “Nessuno si Accorge di Niente”, “Questa Specie” eseguita dal gruppo milanese Nient’Altro che Macerie e la intensa “Talidomide” interpretata da Gli Altri, che celebrano al meglio la musica, i testi e la carriera dei Fluxus.
Tanto bravi questi gruppi, insomma, da creare un legame come meglio non si poteva, tra avanguardisti di un tempo e i “ragazzacci” di oggi.
Aa. Vv. – Streetambula
Streetambula è la compilation, di ben 20 pezzi in due dischi, che è stata prodotta in seguito all’ottima riuscita del concorso omonimo, svoltosi l’estate scorsa a Pratola Peligna (AQ). Prepariamoci quindi ad una carrellata dei brani presenti nei due dischi della compilation: due canzoni per gruppo più alcuni extra affidati ai De Rapage, vincitori del concorso. Aprono le danze The Old School, che, come da nome, regalano una ballabilissima “Rock’n’Roll All The Night” da vera vecchia scuola, sorprendentemente solida e frizzante. Nulla di nuovo, ma di certo un Rock’n’Roll che sta in piedi e che avrà fatto agitare una buona fetta di pubblico. Ci spostiamo in zone più raccolte con “Gloom” de A L’Aube Fluorescente, che invece, a dispetto del nome altisonante, si buttano su un Rock alternativo lineare e molto inglese, anche piacevole se vogliamo, suonato con coscienza e scritto con criterio, ma senza guizzi particolari.
Doriana Legge ci fa prendere una piccola pausa con “Palinsesti”, arpeggi in delay, pad iridescenti di synth in sottofondo, voce alternativamente sospesa e teatralmente piena (anche troppo, a volte) accompagnata da cori leggerissimi, e poi si sale a cercare l’esplosione, il climax, che però non arriva: viene solo suggerito da una chitarra distorta e dall’andamento vocale (pesa forse il non avere in organico qualcosa di percussivo – una batteria – che sostenga il crescendo). I De Rapage, vincitori della kermesse, infiammano tutto con l’energica “Il Grande Rock In Edicola”. Sembra di essere tornati a cavallo tra gli anni 80 e 90, sommersi da riff in distorto sostenuto e batterie ossessive, dove rullo e charlie fanno da padroni, a combattere una guerra assai rumorosa con le voci, sguaiate e sporche, come ben si confà all’impianto ironico-divertito dell’ensemble. La potenza live della band è fuori discussione: granitici, anche se non danno molto di più dell’energia grezza che producono.
“Crazy Duck” dei Dem è una sorta di Blues che triangola tra percussioni povere e continue, riff elettrici pieni di ritmo e groove, e una voce femminile che non sbaglia una virgola. Esibizione stralunata e a mio parere molto, molto divertente, che si perde un po’ quando rallenta sugli accordi di chitarra ritmica – ma poi si riprende, folle come in partenza, in un inseguimento allucinato di chitarra e percussioni. Stravaganti il giusto per spiccare nella massa, orecchiabili quello che basta per farmeli riascoltare con piacere. Approvati. Di nuovo Rock energico, questa volta dai Too Late To Wake: “Smooth Body” parte infuocata, cassa in quattro, promettendo assai bene (zona Foo Fighters); poi rallenta, si appoggia su un Rock in inglese più smorto e banale, con una voce che, sebbene calda in basso, non brilla sulle alte. Niente di eccezionale, nel complesso, ma con qualche idea interessante sparsa qua e là.
Un intro sospeso tra gli anni 70 e gli Arctic Monkeys per i Ghiaccio1, che in “Roby” si lanciano in un brano veloce, con sezione ritmica indiavolata e una voce trasformista, che qua e là tocca la timbrica di un Giuliano Sangiorgi qualsiasi. Poi rallentano, si rilassano, e ripartono, con un basso che sembra rubato a prodotti vari di Lucio Battisti. Notevole il tentativo di miscelare mood e generi diversi in un brano di poco più di 4 minuti (la coda scivola verso sonorità Reggae, e aggiunge varietà all’esibizione). La canzone non rimane troppo impressa, ma nel complesso si fanno ascoltare con gusto. The Suricates aprono con un intro Noise a cui seguono arpeggi sognanti, in un racconto Post-Punk straniante e circolare (c’è un po’ di confusione in ambito vocale, ma verso la metà del brano la cosa inizia ad avere un senso e a suonarmi così com’è: una voce che grida, sporca, gonfia di delay, esagerata). Un delirio generale ammaestrato, che riesce a tratti ad ipnotizzarmi. Non male.
Il Disco 1 si chiude con due extra firmati De Rapage che appaiono senza titolo: il primo, che dovrebbe intitolarsi “To Be Hawaii”, è una ballad in cui la band abbandona l’energia grezza del Rock italiano primi anni 90 per darsi alla leggerezza – sempre ironico-demenziale ovviamente. Devo dire che il pezzo sta in piedi anche musicalmente, con quel giro di chitarra facilissimo e per questo bello, paraculo ma bello. E mi sento di dire che avrebbe funzionato alla grande anche ad avere un testo più serio (ma non staremmo parlando più, probabilmente, dei De Rapage). Il secondo extra torna un po’ sul sentiero del già visto, si canta e si sbraita e si picchia e si ride, ritornelli da quattro accordi e strofe goliardiche, sempre suonando sporchi & granitici insieme.
Passiamo dunque al Disco 2: ecco di nuovo The Suricates, stavolta alle prese con “New Islands”. Intro psichico e allucinato, qualche intoppo qua e là sul nascere nel reparto chitarre, per un brano che stenta a decollare, ma poi si riprende: lento, lungo, ipnotico. Soundscapes di pianoforti, chitarre che si rincorrono, ritmiche incalzanti. L’onda scende, poi risale. Strumentale ed allucinatorio. Torna Doriana Legge, stavolta con un bel palm mute ritmico di chitarre ad introdurre “Scambisti Alla Deriva”. L’impianto è abbastanza confuso, con qualche imprecisione sparsa. Si è sempre dalle parti di una canzone d’autore post: c’è molto Lo-Fi, c’è molta teatralità, manca forse un focus maggiore. Il pathos, invece, c’è tutto. “Lisergia” per i Ghiaccio1: abbandonate le velocità Indie-Rock, ci si butta su un simil-Western con copiosi bending e momenti di frizzante distorsione strumentale. Un po’ peggio, un po’ noia.
I Too Late To Wake iniziano epici e brillanti la loro “Grey For A Day”, un Rock lento e malinconico, che, sempre senza sorprendere troppo, si dimostra composta con mestiere, mentre la voce ancora pecca nel registro alto (purtroppo). “Ngul Frekt Auà”, dedicata agli “alternativi del cazzo con la barba”, è il secondo pezzo “ufficiale” dei sempre più ghignanti De Rapage. La musica s’è ammorbidita e l’intento ironico è più preciso e affilato. Rischiano più volte di scadere nel cattivo gusto tanto per, ma qualche colpo di reni all’ultimo secondo sembra salvarli (il ritornello in dialetto, ad esempio – e chissà poi perché). Mi avevano lasciato con una simpatia inspiegabile nelle orecchie, ritornano un po’ meno luminosi e un po’ più piatti i Dem, che in “Ready If You Want Me” abbandonano la (bella) voce femminile per un cantato maschile più piatto, e un registro, in generale, più seventies. Sempre minimale, sempre percussioni leggere, chitarre frizzante e voci, il brano, sebbene sia sempre fuori di testa e pieno di arzigogoli ritmici e strutturali che proteggono lo spettatore dal disinteresse eventuale, non riesce a rimanermi incollato come quello del Disco 1. Sempre più inglesi e sempre più compatti gli A L’Aube Fluorescente (e più me lo ripeto, più il nome mi sembra figo – fuori di testa, ma figo). “Lizard” è un fascio di luce coerente e orecchiabile, che mi fa muovere la testa a ritmo, scritto bene e con una voce davvero poco italiana. Anche qui, niente di particolarmente nuovo, ma il lavoro è fatto bene, e potrebbe bastare.
Li abbiamo inquadrati nel Disco 1, non fanno che confermarsi qui: The Old School si presentano nella loro “We Are The Old School”, un Rock’n’Roll come dio comanda, e non c’è davvero bisogno che vi dica altro – nel bene e nel male. Chiudono il party, come sopra, i De Rapage, con due ulteriori extra: sempre Rock energico, sempre la demenza più spinta, con argomento, nello specifico, l’omosessualità e la terribile esperienza di terminare il rotolo di carta igienica (con una variazione-litania: “mestruo, assorbenti, ciclo, vomito”… ci siamo capiti).
Concludendo questa lunga carrellata di presentazioni varie: la compilation di Streetambula sorprende, e molto, perché una qualità mediamente così alta non era preventivata. Certo, l’audio non è dei migliori, le imprecisioni ogni tanto si fanno sentire, e tante band magari devono ancora mettere a punto qualcosa nei reparti tecnici: ma l’inventiva, la varietà e la passione che si possono trovare dentro questa compilation dimostrano che in giro c’è veramente tanta gente che ha qualcosa da dire. Il futuro sarà fatto di miriadi di band, che vivranno in una galassia musicale sempre più ampia e variegata, e ognuno di noi avrà mille sfaccettature da scoprire, senza doversi per forza aspettare la grande band dei nostri tempi. Iniziamo a guardarci intorno: date un’ascoltata a questa compilation e potreste incrociare qualcuno che vi convincerà a seguirlo con curiosità. Non si sa mai.