C’è tanto dietro una chitarra acustica, c’è il cuore e la passione, ci sono dita consumate, c’è soprattutto un uomo. Amaury Cambuzat imbraccia la chitarra e ripropone dei (vecchi) brani degli Ulan Bator (tra il 1997 e il 2010), ecco come prende vita (oltre la campagna crowdfunding) il disco Amaury Cambuzat Plays Ulan Bator. Conosco bene le produzioni di Amaury, le ho sempre considerate come capi saldi della sperimentazione, un musicista capace di trasformarsi sempre, anche in veste di produttore. La sua arte musicale è geniale, vertiginosa, non si ha mai la sensazione di ascoltare qualcosa di stantio. Amaury Cambuzat Plays Ulan Bator suona sorprendentemente bene nonostante la non “originalità” dei pezzi, il suo è un magico approccio alla composizione. Parlavamo prima della capacità di Cambuzat di trovare sempre nuovi stimoli artistici, basterebbe riascoltare i dischi degli Ulan Bator per rendersi conto delle variegate soluzioni proposte. Ma questa volta c’è qualcosa di veramente innovativo nella produzione dell’artista francese, qualcosa di insolito: la sessione acustica. Esatto, questa volta si appende la chitarra elettrica al chiodo, quella capace di buttarci dall’inferno al paradiso nello stesso attimo, questa volta si suona in acustico. Il disco parte con “La Joueuse de Tambour” (Ego:Echo), mi lascio conquistare dagli arpeggi, dalla chitarra multiforme, da una voce calda che trasmette tranquillità. Ho sempre adorato le rivisitazioni dei brani in chiave acustica, un feticcio che mi porto dietro da sempre. Accarezzo il cielo irrespirabile, mi alzo per camminare quando l’impazienza inizia a diventare insopportabile, “La Lumière Blanche” (Vegetale). Continuo a seguire sempre la stessa linea di emozioni, il binario è fisso davanti a me, non posso sbagliare, una stretta al cuore mi arriva con “Hiver” (Ego:Echo), per continuare incessante con “Terrosime Erotìque” (Nouvel Air). Perché essere artisti completi, come Amaury Cambuzat, comporta la responsabilità dello stato emozionale altrui, la possibilità di modificarlo, mi sento i nervi scoperti quando ascolto “Along the Borderline”(pezzo inedito). Ora potrei piangere ed urlare, potrei sentirmi vivo, potrei vivere di ricordi senza voglia di futuro. Amaury Cambuzat Plays Ulan Bator si attacca alla pelle, inizia a consumarla per poi entrare dentro, si fonde al cuore. Un disco quadrato nonostante tutte le regole delle banali canzonette vengano a mancare, il duemilaquindici inizia con forti emozioni (il disco è del 2014), armiamoci di grandi aspettative e lasciamoci conquistare da questo album. Io questo genere di lavori ho imparato a definirli grandiosi, perché quando la musica ti entra dentro non può che essere importante. Amaury Cambuzat entra dentro come pochi altri, la conferma di un grande artista. Vogliamo dargli tutta l’importanza che merita? La musica non può fare a meno di lui.
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Amaury Cambuzat – Amaury Cambuzat Plays Ulan Bator
The Heart and the Void – A Softer Skin
Secondo EP per il sardo Enrico Spanu, che in sei tracce di rarefatto Folk ci racconta l’amore nelle sue più diverse sfaccettature: L’amore come un errore in cui si ricade continuamente. Un amore passato ma mai realmente dimenticato. Un amore filiale. Un amore verso una persona che ormai non lo ricambia più. Un amore verso una persona che non si potrà mai avere. Un amore incondizionato per il quale si rinuncia a tutto. Il disco scorre tranquillo, sognante e semplice, fondato principalmente su chitarre in fingerpicking e una voce limpida, romantica, con liriche in inglese (in “This Thunder” sentiamo aggiungersi una leggera batteria, mentre cambiamo marcia in “Down to the Ground”: chitarra – elettrica – sporca, sonaglio e un suono d’organo in sottofondo). Non c’è molto altro da dire su A Softer Skin, un disco che fa della semplicità un motivo d’esistenza. Normalmente prodotti del genere mi stufano presto, immersi come siamo in un mondo saturato di cantastorie con la chitarra in braccio che fanno il verso ai songwriter anglosassoni, per la maggior parte delle volte anche in modo soddisfacente, per carità… ma alla fine ci si chiede perché ascoltarne cento diversi quando si può esaurire praticamente tutto il campionario con una rapida carrellata tra Bob Dylan e Damien Rice, passando da certe cose dei Decemberists? Ecco, questa volta faccio una piccola eccezione per The Heart and the Void, che anche senza uscire dai soliti binari, senza particolari guizzi o chissà che innovazioni, riesce a farci passare i suoi venti minuti con dolcezza. Se vi piace quel mondo lì, dategli una chance, non ve ne pentirete.
Nicolas J. Roncea – Eight (Part One)
Prima parte di una trilogia di album contenenti ciascuno otto canzoni, Eight (Part One) di Nicolas J. Roncea nasce da alcune considerazione dell’artista sullo stato della musica dal vivo oggi: “L’interesse per la musica dal vivo, mi riferisco soprattutto a quella di nicchia, purtroppo è calato notevolmente e che la stragrande maggioranza degli appassionati ascolti musica quasi solo ed esclusivamente su Spotify o Youtube è una verità appurata e non è da considerarsi come una grande novità ormai. Sono orgoglioso degli ultimi brani che ho scritto ed ho pensato che tentare una nuova strada, utilizzare uno strumento per me ancora inedito, potesse essere un buon modo per arrivare a catturare l’attenzione di chi magari ad un mio concerto non ci sarà mai ed allargare i miei orizzonti”. Roncea dunque dallo scorso gennaio presenta i suoi brani in anteprima su Youtube, brani che poi andranno a formare, per l’appunto, tre album distribuiti digitalmente e, infine, un cofanetto fisico, che li conterrà tutti e tre. La prima parte è composta di canzoni per voce e chitarra, sulla scia dei songwriter di stampo anglosassone come Damien Rice, che infatti viene omaggiato con una cover posta in calce al disco, dove appare anche un pianoforte. Eight (part one) è dunque tutto qui: otto canzoni (anzi, sette, considerata la cover) di Folk in inglese, confezionato in maniera pregevole ma senza particolari guizzi, cosa peraltro dovuta anche alla voce di Roncea che non ha la delicatezza e il virtuosismo di un Damien Rice, ma non ha neanche la malinconica stortura di un Elliott Smith. Gli arrangiamenti sono per forza di cose minimali e lineari (come si è già detto, voce e chitarra) e quindi l’ascolto un poco ne risente. Le canzoni hanno una loro forza, ma questa si stempera nella prevedibilità del pacchetto. Aspettiamo il seguito della trilogia per osservare come si evolverà il progetto in un habitat meno scarno.
Area765 – Altro da Fare
Nel 2011 i Ratti della Sabina si sciolgono, abbandonati dal loro fondatore Roberto Billi. Ma i ragazzi della band hanno ancora molto da dire, e riformano la band senza Billi, la battezzano Area765 e, mentre portano dal vivo i brani storici in una veste più immediata e Rock, pubblicano un nuovo primo disco, Volume Uno. Passa qualche anno e si arriva al presente: esce Altro da Fare, un lungo (diciotto brani) disco unplugged dove i quattro componenti della band si divertono a riarrangiare in chiave acustica pezzi tratti da Volume Uno e dalla lunga storia dei Ratti. Il risultato è piacevole, un disco leggero e fresco, davvero immediato, che si fa ascoltare con desiderio. I brani sono vari, e se gli arrangiamenti sono scarni e nudi, questo non fa che concentrare l’attenzione sul nucleo fondante dei pezzi, rendendo il disco un ottimo punto di partenza per chi volesse approcciare la band (anzi, in questo caso, “le” band) per la prima volta. I due inediti (“Altro da Fare” e “L’Ultimo Tango”) si inseriscono perfettamente nella lunga teoria di ballate sostenute dagli strumenti a corda (chitarre acustiche, bouzouki, dobro), da una voce che suona vicina e intima, da poche percussioni e ancor più rari strumenti solisti (violino soprattutto, ma anche diamonica, armonica). Un disco da consumare anche con facilità, se si vuole. Un disco semplice, ma non banale. Un disco che è un concentrato di ottime canzoni, distillate dalla storia pluriennale di una band che sa fare molto bene il suo mestiere. Come un concerto privato, solo per noi, sulla spiaggia, sotto le nuvole, senza pensare a niente.
Marshmallow Pies – Between Cloudy and Sunny Days
Le Marshmallow Pies (come nella beatlesiana “Lucy in the Sky with Diamonds”, citata proprio in relazione al moniker in “Intro”, i primi venti secondi del disco) si definiscono “fairy acoustic trio” e non si fa fatica a capire perché. Il loro primo album, Between Cloudy and Sunny Days, è pieno zeppo di pezzi emozionali, leggeri e soffici, che sarebbero perfetti per accompagnare gli ultimi minuti di una qualunque puntata di un serial americano teen (vedi “Colourless”, ad esempio – mentre “Strange Belief” potrebbe essere un’ottima sigla d’apertura). Nomen omen, le tre ragazze di Como (voce, chitarra/ukulele/violino, tastiera/chitarra) producono una teoria di canzoni sognanti e zuccherose, un cantautorato in inglese molto femminile e molto morbido, che non inventa granché ma si lascia ascoltare dolcemente, richiamando alla mente, senza troppa fatica, serate da tisane e cioccolate calde in pub dai muri color rosso acceso e con tante, tante candele sparse qua e là (“Superman”).
La base sonora è affidata alle chitarre acustiche e al piano, che si accompagnano a qualche aggiunta saporita (violino in primis: “Storyboard”, o l’apertura centrale di “M.” – ma spunta anche qualche inserto di sax nella già citata “Colourless”, o di organi in “Le Parole”, unico brano in italiano). La voce di Francesca Giannella ci ricama sopra, sottile, con gusto e libertà, senza strafare, in un’economia lieve: una bella voce che non si mette in mostra ma ci accompagna gentile nell’ascolto. Between Cloudy and Sunny Days è un disco ben scritto, che poteva essere un po’ più vario nelle atmosfere ma che anche arrangiato “al risparmio”, con un parco strumenti ben definito e per alcuni versi limitato, riesce ad emozionare: sia chiaro, si parla pur sempre di emozioni soft, di rilassatezza, malinconia suggerita, serenità, allegria sussurrata. Una torta morbida, dolcissima. Astenersi diabetici.
Luomoinmeno – Quel Filo Sottile Che Chiami Voce
Dopo l’ascolto di Quel Filo Sottile Che Chiami Voce, EP tremendamente Lo-Fi dell’evanescente Luomoinmeno, dire che mi trovo interdetto è davvero troppo, troppo poco. Le otto tracce, rigorosamente chitarra acustica e voce, dai titoli amorfi come “001”, “002”, ecc., fino all’ultima, che invece diventa, plot twist, “Alba Distrutta”, presentano una scrittura che è quasi litania, un cantato più che flebile, sottile al limite della trasparenza, e un suonare asciutto, lineare, diretto.
C’è del materiale anche interessante, passaggi orecchiabili e immagini accese, quasi crudeli, spesso curiose. Ma la presentazione è delle più povere possibili: stonature che rimangono, rumori di fondo, una registrazione particolarmente scadente (con persino il suono di play e stop ad ogni cambio di brano). Va bene, la forma non è tutto: ma bisogna avere rispetto per le cose che si fanno, e tranne rare eccezioni, in cui la povertà della messa in scena è parte integrante dell’opera d’arte, fare in questo modo è un rischio davvero troppo elevato, per lo meno rispetto alla facilità odierna di accedere alla possibilità di una registrazione decente. Quel Filo Sottile Che Chiami Voce, o almeno così pare leggendo tra le righe, ha cose da dire e uno stile proprio nel farlo. Sfiora spesso il rischio di far confondere un brano con l’altro, ma potrebbe darsi sia anche colpa della povertà degli arrangiamenti. Di certo, speriamo che la prossima volta Luomoinmeno sia pronto a spendere più tempo e più risorse per dare alla sua musica una pulita e un bell’abito nuovo.
Jiurrande – Jiurrande EP
I Jiurrande sono un duo acustico calabrese. Un duo di cugini, Ettore e Luca, che fin dalla scuola superiore hanno condiviso l’amore per la musica, l’hobby di una vita messo da parte per parecchio tempo, per poi decidere, però, di riprendere in mano le loro canzoni, riarrangiarle, scriverne di nuove e registrarle in casa tra Lamezia Terme e Platania (Cz) all’inizio del 2012. Questa è la loro biografia stringatissima, come pochissime sono le loro pagine sul web e questo certo non aiuta a conoscere il progetto.
Ma andiamo avanti. Alla fine della registrazione viene fuori un Ep omonimo, il primo lavoro discografico dei Jiurrande, formato da sei brani. Il primo è “Demo Goldsound” che più che brano lo potremmo definire un piccolo intro stile musichetta dei giochi 8 Bit. Il tutto continua con “Elastici” con il suo intro di chitarra e la forma canzone pop-rock più ortodossa, rispetto anche all’intero lavoro. Nonostante l’homemade che si avverte fin da subito, il ritmo rimane l’elemento più piacevole del brano anche se qualche volta in maniera quasi impercettibile cade, al contrario della voce che non convince affatto fin dall’inizio,non amalgamandosi mai con la musica, con l’intonazione e con il ritmo. Un’alchimia che non c’è insomma. “In Dormiveglia” è il terzo brano che come inizio utilizza sempre la chitarra; la forma del pezzo è uguale al precedente, le impressioni della parte strumentale sono positive al contrario di quelle vocali, che peggiorano nettamente in “Autunnando”, quarta canzone nella quale si percepisce qualcosa di strano anche a livello strumentale (saranno stati gli strumenti scordati?) e naturalmente anche a quello vocale, il cui lamento diventa insostenibile. Penultimo passaggio è “Il Saggio” che, come prima, lo potremmo definire una poesia con sottofondo musicato al contrario dell’ultimo pezzo “Deliri”, in realtà ghost track che non aggiunge niente e non toglie niente.
Insomma Jiurrande, avete aspettato ben dieci anni prima di riprendere a suonare la vostra musica, potevate aspettare un altro anno, altri due anni, prima di registrare e mettere in giro il vostro lavoro perché comunque il tempo è l’unica cosa davvero importante; parlo del tempo per studiare, per perfezionarsi, per creare uno stile. Questo a mio parere non è un Ep pronto; allora qual è il senso di mettere in circolazione un lavoro nel quale gli elementi positivi sono ben pochi rispetto a quelli negativi? Non certo per pubblicità o per creare con la musica una prospettiva. Forse per gioco, ma anche il gioco allora deve essere fatto bene altrimenti a nessuno andrà più di giocare.
Rocco De Paola – Distinguere di Notte EP
Rocco De Paola è un cantante-compositore della provincia di Salerno, la cui musica e il cui stile maturano negli anni grazie allo studio di tutti gli elementi musicali. Contemporaneamente ascolta i grandi da cui trae aspirazione: Stevie Wonder, Bob Dylan, Lucio Battisti, Paolo Conte e molti altri e come tutti inizia a suonare nei locali e in giro per la terra salernitana fino ad arrivare nel 2012 all’autoproduzione, assieme ad altri musicisti della provincia, del suo mini-album Distinguere di Notte.
L’Ep è formato da cinque brani in acustico, primo tra tutti l’unico in inglese “Don’t Remember”, dolce e di quel tipico sapore musicale che mi riconduce la memoria a James Taylor, per poi continuare col brano che da il titolo all’Ep “Distinguere di Notte” simile a un melodico Jazz caratterizzato dal bel suono del duo chitarra-tromba. Il lavoro continua con “Il Mostro” che lo stesso Rocco De Paola definisce emblema di tutto e che in poche settimane ha ricevuto moltissime visualizzazioni e condivisioni. Si prosegue con il penultimo pezzo “Paura” che ripercorre nel testo quel tipico sentimento umano che si scorge durante la notte a causa del buio ma poi arriva la musica che fa star bene e con agilità mi metterò a ballare. Il mini album si chiude con “La buona Intenzione” nel complesso formata dagli stessi elementi degli altri brani: chitarra ritmica, melodia ondulante e testo in italiano. Un finale che non impreziosisce l’album e che non aggiunge niente ad un lavoro che comunque appare ben fatto e maturo soprattutto nella parte iniziale. Un primo Ep soddisfacente nella vocalità semplice ma comunque curata, nei testi che parlano di attualità, politica e amore, e nell’arrangiamento strumentale a tratti molto maturo soprattutto nelle ballate.
Oltre ai concerti in giro, il progetto principale di Rocco De Paola è la realizzazione del secondo album, questa volta elettrico…io lo aspetto, consigliando infine di sperimentare, certo, ma anche di centrare e sviluppare soprattutto i punti di forza, che sono parecchi.
Riparte il tour acustico dei Negrita
Unplugged 2013, il primo tour acustico dei Negrita, partito lo scorso febbraio e conclusosi il 7 aprile al prestigioso Teatro Arcimboldi di Milano, riprenderà il prossimo autunno. A grande richiesta, infatti, la band riporterà lo show acustico nei più importanti teatri italiani a partire dal 17 ottobre.
Al momento sono queste le date confermate:
17.10 Rieti, Teatro Flavio Vespasiano (data zero)
18.10 Firenze, Teatro Verdi
19.10 Torino, Teatro Colosseo
21.10 Milano, Teatro Nazionale
24.10 Piacenza, Teatro Politeama
26.10 Brescia, Palabrescia
27.10 Udine, Teatro Giovanni da Udine
30.10 Sassari, Teatro Verdi
31.10 Cagliari, Auditorium del Conservatorio
02.11 Lecce, Teatro Politeama Greco
04.11 Roma, Teatro Sistina
05.11 Pisa, Teatro Verdi
07.11 Avellino, Teatro Carlo Gesualdo
08.11 Civitanova Marche (Mc), Teatro Rossini
09.11 Pescara, Teatro Massimo
10.11 Cassino (Fr), Teatro Manzoni
15.11 Parma, Teatro Regio
16.11 Venezia, Tetaro Malibran
21.11 Bologna, Teatro Manzoni
22.11 Schio (Vi), Teatro Astra
23.11 Conegliano (Tv), Teatro Accademia
25.11 Perugia, Teatro Morlacchi
26.11 Ravenna, Teatro Alighieri
30.11 Legnano (Mi), Teatro Galleria
02.12 Milano, Teatro Nuovo