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Nicolò Carnesi – Ho una Galassia nell’Armadio

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Luogo d’ascolto: sotto un albero, vicino ad un autostrada.

Umore d’ascolto: come di chi pensi che quello sotto cui sta ascoltando Carnesi è l’unico albero rimasto nel mondo.

Il secondo disco è sempre una cartina al tornasole per capire l’evoluzione di un artista. Se il primo è quello dell’ingenuità, delle idee potenti e potenziali buttate alla rinfusa, il secondo è quello della strada dritta, della precisione, quello che fa capire a quale velocità potrà andare la macchina. Avevo sentito parlare di Nicolò Carnesi tempo fa come un promettente autore della cerchia gravitante intorno a Brunori Sas e la sua Picicca dischi; non avevo ancora ascoltato nulla e quindi, come spesso avviene, appena mi è arrivato all’orecchio la news del suo secondo disco Ho una Galassia nell’Armadio sono andato il giorno stesso a spizzare su youtube il suo primo singolo “La Rotazione”. Mi ha colpito molto il suo timbro che richiama in alcuni passaggi un certo Battisti anni 80 o magari Graziani nella ricerca di melodie apparentemente semplici ma subito catchy e quindi tutt’altro che banali, magari anche Branduardi nel profilo della chioma e nella tendenza ad andare sulle note alte con la voce sottile sottile sottile. Mi ha davvero colpito la produzione del pezzo. Di lì il passo al disco e alla recensione è stato immediato. Ho scoperto che Nicolò è davvero un ottimo autore e che davvero la sua voce ha sfumature molto particolari e che i suoi testi sono un miscuglio ben riuscito di cielo e terra, di stelle e di asfalto. Questo secondo disco ha spalancato un’autostrada su cui Carnesi può portare tutto il suo talento a 200 all’ora verso il pubblico più vasto che si possa aspettare da un cantautore. Ho una Galassia nell’Armadio è un perfetto esempio di Pop impegnato, leggero nei suoni, non forzatamente pretenzioso nei temi, mai banale nelle scelte stilistiche. Dicevo della produzione: Tommaso Colliva è un maestro dei suoni e in questo disco ha l’indiscusso merito di spostare l’ambiente musicale in cui Carnesi si era mosso nel suo precedente lavoro in un territorio più europeo, in un territorio di suoni di synth analogici e pad soffusi quasi Dance, di spruzzate di Funk bianco alla Alan Sorrenti che ben si adattano a versi come “ Campa ragazzo che l’erba cresce e la fumi pure, la felicità la trovi in farmacia, tra vita e morte c’è di mezzo uno stato neutrale, ma non è la Svizzera”. Un terreno su cui il timbro di Carnesi ne esce valorizzato e rende piacevole anche l’ascolto meno attento, tipo quello della fantomatica casalinga di Voghera mentre fa le pulizie di casa.

Tra i pezzi più riusciti sicuramente “ Numeri”, testo meraviglioso e musica da ascoltare ad occhi chiusi in una giornata assolata e con il sorriso stampato in faccia, sotto l’ombra: “poi uso troppo gli addii, forse per paura di riceverli”, un verso illuminante e malinconico che colpisce in quella canzone come una carezza di un genitore che sta partendo. Ho sempre pensato che l’attenzione alla produzione e alla possibile fruizione del lavoro discografico, chi mi conosce lo sa, sia un pregio inestimabile di una produzione, l’unica cosa che rende un talentuoso autore di canzoncine un artista da classifica e un riferimento per una scena. Dieci più al Signor Colliva, mi sbilancio. E un buon sette e mezzo per questo giovane Carnesi che fa ben sperare per il terzo disco, quello del salto nel vuoto contro lo zoccolo duro dei fan della prima ora che ti vorrebbero sempre identico a te stesso ma anche criticabile proprio per questo. Per il momento non è il caso di pensarci ma di goderci questo, di ancheggiare un po’ sul posto e magari di fare le pulizie ad alto volume senza necessariamente riflettere. Perchè la musica, ricordiamocelo sempre, è la colonna sonora della giornata e un modo per sublimare il quotidiano, non solo e non per forza in ogni ascolto un modo per elevare lo spirito. Carnesi lo ha capito.

Lunga Vita a Carnesi.

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“Diamanti Vintage” Alan Sorrenti – Aria

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Chi è passato, nel lontano 1972,  dalle parti del prog italiano, senz’altro non avrà potuto non essere magicamente ammaliato dalla voce melodiosa e aliena – apparentemente stonata o fuori giro – del cantautore musicista napoletano Alan Sorrenti che con lo stupendo vessillo sonoro “Aria” inizia a volare nella musica “alternativa” che in quegli anni era aeroporto per centinaia di band e solisti che volevano “dire” in maniera  non conforme la loro poetica ed i loro intimi canti.

Con dalla sua il violino jazzato di  Jean Luc Ponty (Mahavishnu Orchestra, Zappa e Tony Esposito) ed altri musicisti, Sorrenti  sperimenta e modula nuovi meccanismi melodiosi, altrettante partiture interpretative  che mescolavano poetica psichedelica, mediterraneo soffuso e un cantos libero da dogmi e schermature, una timbrica personale che subito lo porta all’attenzione di addetti ai lavori e ad un pubblico che – proprio in quei frangenti – era sempre più innamorato intellettualmente da una certa cultura “assorbita” da  idiomi sonori  e dettagli tra oriente e terra nostra, praticamente una fusion antesignana dell’odierna world; lunghe suite, atmosfere volatili e suggestive sono la predominante di questo disco, quattro “pezzi” di non facile assunzione di primo ascolto, ma una volta rodato lo spirito introspettivo e illuminante, è come intraprendere un viaggio, un trip, che svezza categoricamente ogni indugio a forma di  interrogativo.

Si potrebbe definire – con il pregio dell’unicità – pop-folk progressive o folklorico, una tipologia aerea di ambient vissuto a ipnosi psichedelica che si espande per tutta la durata della tracklist; testi onirici e d’amore contorto ma dolce, sono la tramatura lirica che va a trasformarsi in canzoni che hanno passato indenni quasi trent’anni di musica come la lunga suite di “Aria”, l’inno melodioso che fa da traino  a tutto il lotto e hit indimenticabile “Vorrei incontrarti”, il mantra trasversale tra un tripudio di mellotron, flauti, basso che ricorda molto da vicino le atmosfere dei Van Der Graaf GeneratorLa mia mente” e il finale lunare dove l’ancia di Andrè Lajdi ricama in maniera stupefacente “Un fiume tranquillo” degna chiusura di un sogno sonoro che Sorrenti – l’anno dopo – riproverà a replicare in “Come un vecchio incensiere all’alba di un villaggio deserto” ma che purtroppo ne uscì come un’anatra zoppa dopodiché l’artista partenopeo si perse in strade di seconda, sempre più rivolte ad un pop commerciale fino a scomparire del tutto dalla scena.

Una pietra miliare del progressive “fiabesco” italiano e di quella immensa Napoli che guardava alla musica come modalità per esternare l’anima di un popolo con l’arte al posto del sangue.

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