“Sognavo Sempre” è il titolo del disco d’esordio di Ivan Luprano, in arte Luprano. Un album che arriva dopo l’esperienza musicale con La Teoria dei Giochi. Le undici tracce che compongono l’album ci raccontato un mondo popolato da persone sensibili, che affrontano amori difficili, esperienze al limite, in continuo scontro con un ambiente emotivamente sterile. Fuggire da questa dimensione dolorosa di conflitto attraverso il sogno è un buon espediente, che consente all’autore una narrazione leggera, fatta di melodie impalpabili, suoni delicati e ricchi di effetti che ovattano i contenuti. In questo grande sogno predominano le tastiere e i synth che creano atmosfere a cavallo tra gli anni settante e ottanta. Un filone già consolidato e molto in voga attraverso artisti come i TheGiornalisti o Nicolò Carnesi, non mancano, però anche richiami a un tempo meno recente e in molti brani si riesce a percepire l’influenza di cantautori come Alberto Camerini e Rino Gaetano, al tempo di “Forse Sfiorivano le Viole”. Tra gli undici brani alcuni svettano rispetto agli altri emergendo da una generale monotonia: “Spesso” è il singolo, quello con la melodia più accattivante e cathcy, “Sognavo Sempre” che mostra la grinta degli anni 70 e “Quanto ne è Rimasto” per il ritmo più deciso e vivo, che ricorda vagamente la Caselli e la sua “Sono Bugiarda”. Tra tutti però, Il brano di chiusura “Voglio i Tuoi Occhi” è sicuramente quello che riesce a spingersi un passo oltre, azzardando una struttura meno standardizzata, suoni più puliti, cori evocativi e un arrangiamento più arioso, anche se il testo è limitato a una sola frase. Sognavo Sempre è un lavoro molto equilibrato, dove contenuti spesso forti, che raccontano di un mondo senza felicità, non vengono valorizzati attraverso la musica. Gli effetti ammorbidiscono l’efficacia dei testi, i suoni, fatta eccezione per alcuni felici episodi, tendono a essere omogenei. Un disco orecchiabile com’è giusto che sia un lavoro Pop, ma non decisivo e memorabile. Un passo positivo ma poco audace per un primo disco da solista.
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“Diamanti Vintage” Alberto Camerini – Rita & Rudy
Mentre nel resto d’Europa e del mondo imperversava la magra melodia, il cantos dell’ossessione e della perdita di ogni dettaglio di “Futuro” intrapreso dalla wave più inconsolabile e fredda che si possa immaginare (vedi Pere Ubu, Suicide, Joy Division per citarne alcuni) in Italia sull’onda della filosofique du Baudrillard, del prendersi in giro e sminuire le composizioni nefaste della società, Albero Camerini, il cyber-punk della scena nostrana, l’Arlecchino elettronico mascherato da clown da alle stampe il suo sesto album “Rudy & Rita”, il primo per casa CBS dopo aver lasciato la Cramps l’anno prima, quattordici tracce che – specialmente con l’apripista “Rock’N’Roll Robot” – porterà l’artista italo/brasiliano al top delle charts per settimane intere.
Un artista apparentemente strampalato, invece fine e acuto sulla società avulsa che gli gira attorno, attento osservatore di mode da innalzare o affondare e autore di melodie angolari che seducono e attirano ascolti da ogni angolazione, brani che si piazzano in testa e non scendono più, forti di quella bella commistione di rock metropolitano frammezzato a punteggiature brasile ire che fanno dei suoi dischi delle bombe radiofoniche estremamente azzeccate; definito dalla critica di allora “automatic clown”, Camerini esprimeva il suo essere uomo/artista come una seconda pelle Bowieana, truccato con un make-up alla Ziggy Stardust nostrana ed un groovy sonoro ora epilettico ora con interstizi classic romantic, praticamente un ambasciatore definito e tonico delle esigenze rivoluzionarie che nel resto dell’Europa già stavano per invadere il mondo intero, gobale.
Lui provò a cambiare l’Italia della consuetudini musicali, canta e provoca con la grazia di un birichino Gianburrasca vestito di colori e ritmi nevrotici, anticipa e vive la “gioia al potere” delle nuove scene alternative, ma non sempre viene capito – anzi a pensarci bene – pochissimo o quasi per niente, ma i suoi sberleffi e le sue belle cose rimango in piedi tutt’ora; visionario e avanti di cento anni sulla cultur(ina) tricolore, Camerini ci regala un disco effervescente e aggraziato, le sguaiate mosse di un Presley pelvico ruggente “Rock rap”, i voli d’amore a lungo raggio “Astronauta”, le aspirazioni da rock star “Johnny”, un pizzico di barocco veneziano “Miele” e uno dal sapor latineggiante “Il ristorante di Ricciolina”, ma è con l’arrivo del madrigale “Quando è carnevale” che il disco prende ancor più punti di valore sulle onde dolci di un Brasile rimembrato e rimpianto.
Svezzò e bilanciò una generazione a metà tra inconsapevolezza e sfiducia, regalò i suoi gloss, matite, fard e ombretti al buio della vita e a quella debolezza pop-patriottica già in “odore” di putrescenza.