“Mugaen è innovazione musicale”. Questo trovo scritto nella cartella stampa accompagnata a questo EP di tre brani e non posso che sottoscrivere. I quattro ragazzi veneti si definiscono non solo fruitori ma addirittura fondatori dell’Acid, un genere musicale che estende il concetto di Acid Jazz inserendo nella formula elettronica, metal e un pizzico di fusion. Arrangiamenti sulla soglia della perfezione, suoni eccellenti, songwrinting impeccabile ed esecuzione magistrale delle parti per un’atmosfera che vi farà viaggiare verso l’infinito (Mugaen in giapponese significa appunto “infinito”) su ritmiche complesse e armonie mai banali. La voce di Sara Manea contribuisce a chiudere un cerchio che non definisco perfetto solo perché sono di fronte ad un’anteprima e non a un vero e proprio album. Se il risultato del disco completo (al quale i Mugaen stanno ovviamente lavorando) è all’altezza di questo EP, non potete farvelo scappare.
Alessandro Maiani Tag Archive
Marazzita – Mi gioco i sogni a carte
“Mi gioco i sogni a carte” è il secondo EP del “riccio” giovane cantautore calabrese fuori sede Marazzita.
L’EP è composto da sei brani di durata piuttosto radiofonica (a cavallo dei tre minuti e un po’ in media). I testi sono probabilmente la parte più forte del lavoro del cantautore calabrese: tante cose da dire, tante storie che parlano del tempo, della malinconia insita nell’anima evidentemente in fase di cambiamento di Peppe Marazzita, il tutto condito da toni spesso ironici, quasi sempre tristemente arresi ad una realtà che si dimostra, con il passare del tempo, sempre meno simile al sogno del giovane calabrese. La malinconica ironia dei testi è accompagnata egregiamente da arrangiamenti minimali ed efficaci, a volte quasi volutamente trascinati, a volte irriverentemente “un passo avanti”. Plauso particolare ai synth di Gianluca Di Vincenzo nella traccia numero 4, “Un balcone coi fiori”.
L’EP si apre con “Maledetto”, una ballata dedicata al tribolato cantautore livornese Piero Ciampi. Da subito si intuisce il leitmotiv del disco, la dolce apatia e disillusione nelle parole e nella musica della generazione cantautorale degli anni zero. Volendo cercare influenze nel lavoro di Marazzita possiamo citare Max Gazzè (in particolare nella seconda traccia, “Poster”), qualcosa di Bennato, alcune atmosfere di Tiromancino. In generale però Marazzita appare originale e non categorizzabile, anche se assolutamente fruibile, commercialmente parlando.
Nel terzo brano Marazzita non lesina in quanto a metafore e si interroga, cantando su una musica spensierata e dal sapore di hit estiva da juke-box sulla spiaggia, riguardo al futuro del mare, della sua Calabria e in generale del Belpaese. La quarta traccia è un invito per una cenetta romantica con tanto di Chianti e fiori (finti) sul balcone, una scusa come un’altra per raccontare qualcosa dell’insoddisfazione e del disagio di Marazzita, con il sorriso amaro sempre sulle labbra.
Nella quinta e penultima traccia “Vai via da qua” Marazzita cita il titolo dell’EP e cioè la sua volontà di giocarsi i sogni a carte, raccontando definitivamente della sua delusione per ciò che avrebbe voluto fosse ma non è, della ricerca di un rimedio per poter cambiare le cose, magari per trovare il coraggio di andarsene. Il disco si conclude con “L’artista da giovane”, brano che racconta del recente passato di Marazzita proprio come fa James Joyce ne “Il ritratto dell’artista da giovane”.
Il cantautore calabrese si conferma un’interessantissima realtà che fa della sintesi e della semplicità del linguaggio la sua arma migliore. Le melodie e le atmosfere sono tutt’altro che underground, nonostante si possa ad oggi considerare il fuori sede calabrese ancora un abitante della famigerata “nicchia”.
Consiglio vivamente l’acquisto di questo disco a chiunque abbia voglia di ascoltare un punto di vista tutto sommato comune ma raccontato in modo originale e soprattutto sincero da un giovane che continua a “cantare i propri sogni sopra e sotto un palco, in un’estate su una spiaggia senza spiaggia”.
Kawamura Gun – Brutiful
Kawamura Gun, come suggerisce il suo nome, è un artista di origine giapponese: dopo un periodo di studio delle arti nel Regno Unito si è trasferito a Roma dove attualmente vive e lavora. Questo suo album, “Brutiful”, è il primo da solista. Gun è anche infatti da qualche anno chitarrista e cantante dei Blind Birds, band romana di ispirazione glam-rock.
Ok, è tempo di mettere su il CD. Lo ascolto una prima volta e capisco che non mi basterà: la prima impressione è di essere di fronte a qualcosa di originale, ispirato certamente alle sonorità del rock degli anni’60 e ’70, ma assolutamente dotato di vita propria. Il disco non è per niente banale e quello che conta è che mi ha fatto venire voglia di ascoltarlo una seconda volta, non per il semplice motivo che il mio compito è recensirlo, ma proprio per curiosità e gusto personale. Andiamo ad analizzarne i contenuti.
Gli arrangiamenti sono minimali, gli strumenti (tendenzialmente chitarra, basso e batteria/percussioni, con molte parti corali di background anche melodicamente indipendenti) paiono suonati quasi con svogliatezza, con voluto disinteresse per la precisione e la “bellezza” intesa come confezionamento commerciale di un’idea. Credo che Gun voglia proprio sottolineare, come nel titolo dell’album “Brutiful” (unione di due lingue, l’italiano e l’inglese e di due parole, Brutto e Beautiful), la doppia faccia della sua arte, meravigliosamente brutta come il mondo che il giapponese vede e racconta. Intendiamoci, non sto parlando di disinteresse per la perfezione artistica: al contrario Kawamura Gun mi pare non essere tipo da accontentarsi del proprio prodotto finché esso non abbia raggiunto la perfezione, la Sua perfezione però, che è tutt’altro che ordinata, tutt’altro che conforme al comune senso di “bello”.
Il disco si apre con “Tongued eyes”, brano cantato in inglese che ricorda le atmosfere di band quali i T-Rex e i Silverhead, tra l’altro dichiarati ispiratori della musica prodotta dal giapponese. Il brano è un inizio perfetto e spiega in maniera magistrale quello che Gun vuole farci sentire per il resto dell’album.
La seconda traccia ci annuncia che non tutto il disco sarà cantato in inglese: “Henda” infatti ha un testo in giapponese così come “Ke” e “Mawatte Mawatte”, quinta traccia dell’album, ipnotica quanto il video che Gun ne ha realizzato dove vedrete l’artista cimentarsi con un piatto giradischi sopra il quale è stato posto un LP corredato di piccole gambe di donna che eseguono coreografie. Questa immagine dovrebbe essere più che sufficiente a rendere l’idea dell’atmosfera in cui sarete catapultati. Cercate il video su YouTube.
Con “Say no word” si torna alla lingua inglese e con il testo anche la musica ci riporta al brit-pop di ispirazione beatlesiana. La melodia e l’armonia, aiutate dalla pronuncia della lingua inglese, diventano decisamente più easy pur mantenendo lo stile sopra le righe di Kawamura.
La chitarra torna ad essere grunge nella settima traccia del disco “I had your cake, Sarah”, brano che, a parte l’arrangiamento molto più soft e la voce decisamente meno “maledetta”, ricorda nel testo e nell’armonia qualcosa dei Nirvana. Non mancano ovviamente come in gran parte del disco le parti corali tipicamente british, ingrediente che, assieme al resto contribuisce a rendere il lavoro di Kawamura qualcosa di non ancora sentito. Quali sono le mie tracce preferite? “Tongued eyes”, “Mawatte Mawatte” e “Layers”.
“A volte mi è capitato di comporre pezzi non adatti al gruppo, li mettevo da parte, quando mi si è presentata l’opportunità, ho accettato la proposta di fare uscire un lavoro come solista”. Così Kawamura spiega il perché di questo album. Francamente credo sia difficile inventare qualcosa di nuovo, oggi. Quello che un artista può fare, probabilmente come sempre è stato fatto, è attingere dalle proprie esperienze, farsi contaminare dai propri interessi, scoprire e riunire pezzi di sè, esprimerli attraverso forme di comunicazione consone, e quindi creare. Questo in”Brutiful” è stato reso egregiamente. L’unione di ingredienti primari differenti, mescolati ed espressi alla maniera del giapponese, risulta assolutamente originale e apprezzabile.
“Brutiful”, per concludere, è stravagante, fuori dal comune, mai banale e, sempre, dolcemente deviante. Sicuramente questo disco è solo una piccola parte dell’espressività artistica di Kawamura Gun. Ascoltandolo e navigando un po’ sul web in cerca di curiosità su di lui mi sono imbattuto in diversi lavori, dalla pittura alla scultura, per passare dall’origami alla creazione di pupazzini. Ho visto tutto di sfuggita. Il mio lavoro era recensire il suo prodotto musicale, però consiglio a tutti coloro che vorranno avvicinarsi al sorprendente mondo del giapponese di dare un’occhiata anche al resto della sua arte. Sicuramente Kawamura Gun è un personaggio straordinario dotato di uno stile sopra le righe e che non ama le mezze misure, così come non ci saranno mezze misure nel vostro apprezzare o meno il suo disco: o vi farà impazzire o lo detesterete.
Nastenka Aspetta Un Altro – Un Inconsunto Tentativo Di Solidificare L’Anima (EP)
Cosa vi aspettate da un disco, album, singolo o EP che sia? Volete ballarlo? Volete cantarne a squarciagola le melodie dei ritornelli mentre siete al volante? Volete sognare del vostro amore, sfogare la vostra rabbia correndo sul tapis-roulant in palestra con l’Ipod nelle orecchie? Insomma, cosa volete dalle canzoni di un disco che state per acquistare? Chiedetevelo prima di ascoltare il primo lavoro di Nastenka aspetta un altro (si, questo in grassetto è il nome della band, palesemente ispirato dal personaggio di Dostoevskij ne “le notti bianche”). Credo che, qualsiasi cosa desideriate o vi aspettiate, ne sarete comunque sorpresi, nel bene o nel male.
L’EP di tre brani autoprodotto dalla formazione foggiana alla fine del novembre scorso infatti, non contiene vere e proprie canzoni. Si tratta piuttosto, come gli stessi ragazzi pugliesi scrivono sul loro profilo facebook, di “un’esperienza che nasce dalla commistione di parola, suono, rumore e non detto“. Parola, si, non canto. La voce di Alfonso Errico, anche autore dei testi, non canta una melodia, bensì narra poesie, parla, recita e sfoga concetti personali, opinioni, stati d’animo e pensieri sulla società moderna e sull’essere umano in genere; e lo fa sulla musica ipnotica composta dagli apprezzabilissimi loop e synth elettronici a cura di Wadir Marchesiello, sulle chitarre molto fantasiose e sempre d’atmosfera di Leonardo Albanese e sulle linee di basso semplici ma efficaci di Mauz Cavaliere.
Difficile quindi per me analizzare questo lavoro paragonandolo alla maggior parte delle uscite musicali. Devo, per cercare il più possibile di farvi capire l’arte dei Nastenka aspetta un altro, fare l’opposto di ciò che hanno cercato di realizzare i quattro artisti della band, ossia scinderlo in due parti: quella musicale e quella lirica.
Il suono del disco è pregievole. Marchesiello, la “base” delle composizioni musicali della band, ha fatto un ottimo lavoro in fase di scelta dei suoni, dell’effettistica e degli arrangiamenti. Le chitarre di Albanese “condiscono” poi nel migliore dei modi, con parti non scontate, ripetitive nel tema ma mai nell’interpretazione e il basso di Cavaliere sigilla, dando corpo al tutto.
I testi di Errico sono dei veri e propri monologhi, quasi delle pagine di diario in cui il paroliere sfoga i suoi stati d’animo affrontando diversi temi, raccontando di società e di persone con un linguaggio abbastanza ricercato ma sempre diretto, sull’onda del suo dichiarato ispiratore Leo Ferrè secondo il quale appunto ” la poesia rinchiusa nella sola veste tipografica non è ultimata“.
Il primo brano dell’EP porta, probabilmente appunto come tributo al monegasco poeta anarchico, un titolo in lingua francese: “C’est femme l’autre nom de dieu”. Il testo della poesia narrata da Errico è però in italiano. A seguire troviamo “Non voglio essere salvato”, una lettera di protesta aperta e tristemente ironica sulla corruzione, sulla situazione economica e governativa globale, sull’ipocrisia malcelata dei “sistemi del sistema” (non solo del nostro belpaese), sulla difficoltà di credere e perseguire ideali comunemente spacciati per garantiti quali la famiglia, la casa e la realizzazione professionale.
Chiude il disco la terza e ultima traccia, “Teresa la zingara” che racconta una vita non facile attraverso una metaforica carrellata delle dita della mano.
Il genere musicale (termine un po’ restrittivo in questo caso) di questo EP non è di quelli che sono uso ascoltare. Devo ammettere che ascoltare i Nastenka aspetta un altro mi ha aperto una serie di orizzonti e acceso diverse curiosità letterarie e artistiche in genere che ora ho voglia di approfondire. Questo deve essere lo spirito giusto con il quale affrontare “Un inconsunto tentativo di solidificare l’anima” per tutti coloro che risultano vergini a questo tipo di espressioni dell’arte. Chi già ne fruisce non rimarrà deluso. Chi invece parte con poca voglia di allargare i propri orizzonti, è meglio che stia alla larga dalle fusioni di musica e parole dei quattro artisti foggiani.
Max Navarro – Hard Times
Il quarto lavoro di Max Navarro, rocker friulano di origini canadesi, arriva dopo tre anni di silenzio, tre anni molto difficili sul piano personale, come dice l’artista stesso in diverse interviste rilasciate nei mesi scorsi. Tre anni che gli hanno comunque consentito, anche grazie al supporto del nuovo produttore (e bassista) Nick Mayer e alla fiducia della sua ormai consueta etichetta, la Cherry Lips Records, di scrivere le nuove canzoni contenute in questo Hard times, tempi duri, appunto.
Il disco si apre con un suono di carillon e per alcuni secondi si ha la sensazione di essere in procinto di ascoltare un album di musica da ambiente o uno di quei lavori da “cantautore sperimentale”. La sensazione svanisce immediatamente però quando arriva la chitarra di John Paul Bellucci, quasi immediatamente accompagnata dal rullante “flamato” di Alex Parpinel. E’ subito rock, un rock che sembra venire da oltreoceano, dal continente del quale Max è appunto originario. Quando la voce di Navarro irrompe nel pezzo si consolida la certezza che del suo illustre concittadino Bryan Adams (Max è originario di Vancouver B.C.), Navarro ne abbia ascoltato davvero tanto. La voce di Max è sabbiosa, graffiante, decisamente rock, nel senso più romantico del termine. Non c’è più nessun dubbio sul genere e sulle intenzioni dell’artista: già dal primo minuto di ascolto si capisce che si è di fronte ad un disco che non pretende di essere innovativo e non vuole in nessun modo nascondere la vera natura di Navarro, alla faccia di chi dice che il rock degli anni’80 è morto e che c’è bisogno di qualcosa di nuovo per attirare l’attenzione del pubblico. A questo punto occorre senza dubbio alzare il volume e proseguire nell’ascolto, magari con una birra ghiacciata in mano.
La traccia 2, “Out of bounds”, conferma la mia prima impressione sulle chitarre di John: gli arrangiamenti sono al tempo stesso classici e originali. Il chitarrista della band di Max Navarro osa con suoni e parti di chitarra “coraggiosi” ma non tradisce le aspettative del sano american rock. E le melodie vocali continuano, sul ritmo pesante di basso (a cura del bravo Nick Mayer) e batteria, ad essere orecchiabilissime e godibilissime, come il genere pretende.
Dobbiamo attendere la terza traccia di Hard times per ascoltare la prima ballad del disco. Ascoltandola non si può fare a meno di notare la melodia e il songwriting tipicamente Springsteen-style. Vedo, visitando la pagina facebook dell’artista, che il Boss appare nelle influenze dichiarate da Max stesso. Lo sferragliante suono delle chitarre acustiche e la melodia sognante della voce, accompagnate da un impeccabile e mai invadente arrangiamento di basso e batteria, fanno di “the Wrong side” (traccia 3 appunto) un’apprezzabilissima ballata che richiama strade infinite e polverose del nuovo continente.
Il disco scivola via, passa dalla veloce “Nothing’s guaranteed”, brano senza infamia nè lode, con un ritornello molto cantabile e facile da ricordare, per arrivare a “Cryin’ ” brano che è stato il primo singolo tratto dal disco. “Cryn’ ” è potente ed evocativa, richiama un terzo ispiratore della musica di Max Navarro, l’americanissimo Jon Bon Jovi, del quale a Max però mancano diversi punti in termini di vocalità.
Il sesto brano è “Winter in Chicago” che si apre con le bellissime chitarre acustiche di John Paul Bellucci: l’atmosfera qui è veramente avvolgente e personalmente preferisco questa seconda ballad alla prima.
Il rock non è finito e lasciate alle spalle le due ballate possiamo metterci alla guida della nostra cabrio, con il sole in zona tramonto di fronte a noi, ascoltando “Beyond the silence”. Continuiamo a guidare e, prima che la notte ci raggiunga, riusciamo ad ascoltare anche “Poison girl” e “End of the universe”, tracce 8 e 9 che chiudono il lavoro di Max Navarro.
Concludo la mia recensione con alcune piccole critiche puramente di natura tecnica: il bellissimo timbro vocale di Navarro non è accompagnato purtroppo da una vocalità altrettanto sorprendente, sia dal punto di vista della precisione dell’intonazione, sia per agilità ed estensione. Anche la pronuncia, nonostante le origini nordamericane del rocker, non è a mio avviso all’altezza di altre produzioni “madre lingua”. Questi, intendiamoci, non sono assolutamente motivi validi per non apprezzare l’album, soprattutto per chi non cerca altro che un po’ di sano, genuino e ben fatto rock.
Hard times non mi è piaciuto al primo ascolto, forse proprio perché, essendo anch’io musicista e cantante, mi sono lasciato prendere da valutazioni molto tecniche. Ora però non escludo di riascoltarlo in futuro, quando avrò voglia di rock. Ho capito da subito a cosa ero di fronte e questo è molto importante. Max Navarro non tradisce le aspettative, ha le idee molto chiare ed è musicalmente, sinceramente sè stesso.
Chi ha voglia di rock e non ha necessariamente voglia di innovazione godrà del disco e non ne rimarrà deluso. Consiglio invece caldamente di evitare l’acquisto dell’album a chi è in cerca di nuove sonorità.