Alice in Chains Tag Archive
Dodici Tracce: non la solita playlist #07
Una rubrica in cui le illustrazioni di Stefania incontrano gli scritti e le playlist di Claudia, dando alla luce un racconto sonoro a forma di vinile.
Continue ReadingZippo – After Us
Attivi da oltre dieci anni, i pescaresi Zippo si sono ritagliati nel tempo un proprio spazio tra le figure cardine della scena Stoner italiana e non. After Us è il loro quarto disco, il primo per l’etichetta inglese Apocalyptic Witchcraft, una label che ha lasciato loro carta bianca, permettendo ai quattro rockers di sentirsi liberi di sperimentare qualsivoglia sonorità. Ciò che ne è venuto fuori è questo lavoro, pregno di sudore e intensità.
L’opener “Low Song” colpisce con ardore, mossa da un impeto che ricorda da vicino Fu Manchu (l’apparato strumentale) e Orange Goblin (l’ugola abrasiva di Dave). “After Us” ha il dono di unire tutti gli stilemi di Alice In Chains e Black Sabbath, una canzone dal valore assoluto capace di riesumare due gruppi leggendari della storia del Rock. Il viaggio prosegue con la melodia acida di “Comatose”, una traccia dal piglio indomabile, e dall’interlocutoria “Familiar Roads”. Senza ulteriori indugi si torna a far rombare il motore con “Adift (Yet Alive)”e la più ragionata “Stage 6”. L’ultima composizione, “The Leftlovers”, è una sgroppata di sette minuti tra le dune del deserto del New Mexico: polvere negli occhi e incoscienza da vendere.
Con questo disco gli Zippo mettono un tassello rilevante sul cammino della maturità artistica, a parer mio, non ancora del tutto raggiunta. Nonostante alcuni passi falsi, il disco è assolutamente sopra la sufficienza.
Malamadre – Malamadre
Il progetto Malamadre giunge a coniugare note e matite: il trio abruzzese, infatti, muta gli undici episodi che compongono il disco in una webserie di fumetti musicali, coinvolgendo autori e disegnatori e sconvolgendo il concetto di semplice trama sonora. Un palmares ricco di riconoscimenti nonostante una vita artistica tutt’altro che longeva è il loro biglietto da visita. “Olio”, la prima traccia dell’album, consente alla band di vincere il premio come Miglior Voce al Red Bull Tour Music Fest, Miglior Voce a Streetambula Music Contest e il Pescara Rock Contest, consentendo ai Malamadre di aprire agli Afterhours nella loro data pescarese. Il brano ha un sound attinto dal Grunge, con aperture bucoliche create dal nulla dalla voce di Nicholas Di Valerio. “Chi non Muore si Risiede” prosegue su questa scia e al genere cantautoriale si somma il vigore di Soundgarden ed Alice in Chains. La ballata “Mammarò” e la successiva “Il Tango del Portiere” sono unite dall’invisibile collante della rassegnazione, con testi tristi che ci raccontano di vite al tramonto, senza cadere nella facile retorica. D’ora in avanti sarà tutto un batti e ribatti: a un pezzo simil Pearl Jam risponderà una parentesi con un approccio più bilanciato, spesso e volentieri con risvolti acustici. Racchiudere simili concetti e idee in undici brani mostra una spiccata autostima, nonostante sia ben contenuta, non scivolando mai nell’emulazione o nel plagio più becero, preservando una propria identità. Disco da ascoltare e riascoltare.
Shame – Entropia
Le mie ultime recensioni del 2014 sono state particolarmente positive. Non che sia una che aspetta l’album di merda per poter fare facile ironia e fare una recensione in cui non faccio altro che sottolineare di avere tra le mani un album di merda. Diciamo però che, nel tempo, sono riuscita a farmi una certa fama di boia col sorrisetto sardonico e il caso mi aveva probabilmente aiutato ad alimentare il tutto. Così mi aspettavo che il 2015 invertisse di nuovo la tendenza e ripristinasse i ruoli: album di merda, recensioni da stronza. E invece no. A parte che mi sono immediatamente gasata a leggere nell’interno del cd che gli Shame hanno una batterista donna che fa pure i cori, ma alle prime note di “Falling Through”, traccia di apertura di Entropia, ho capito che il terzetto ha mangiato pane e Grunge, come la sottoscritta, e manco poco. Cinque minuti di atmosfere alla Alice in Chains e cantato sofferente alla Cobain. Sonorità un po’ più 2000 lasciano momentaneamente il Seattle-sound in “The Burning Flag II”, ma la sensazione dura ben poco: “Totally Soulless” è Nirvana alla stato puro. Certo, all’arrivo di “A New Breeze” viene da chiedersi perché non ascoltare gli originali e farla finita qui: il vocalist Andrea Paglione è veramente copia spiccicata di Cobain, con qualche inflessione vaghissima alla Chris Cornell, ma insomma, è un po’ troppo. La tecnica di tutti e tre è ineccepibile, ma – e succede spesso – manca una nota personale. Difficile, in fondo, rimaneggiare un genere come il Grunge che ha caratteristiche peculiari e tratti distintivi che sono stati portati all’eccellenza da quattro-cinque gruppi in croce e che si è bruciato in un tempo limitato. Molto difficile. Pregevole, per esempio, l’idea dell’accellerata in “Ricochet”, anche se è troppo irregolare, abbastanza da sembrare un errore. Non fosse per le back voices della batterista Veronica Basaglia, che in questa traccia si dimostra per altro bravissima, “Apocalypto” potrebbe essere uscita da Jar of Flies degli Alice in Chains. Resto ad ascoltarli ugualmente, anche se ormai l’antifona è piuttosto chiara: ottimi musicisti, purtroppo poco personali. “Like Cain” è una ballata cupa praticamente filologica, che lascia spazio alla (pre)potente “Coming Back (Extasia)”. E scusate se insisto, ma l’intro di “The Dissolving Room”e di “Rolling” a me hanno ricordato le atmosfere di “Would”. Altro che anni ’80, come cantava Agnelli, qui non si esce vivi dai 90s’. E meno male, che poi arriva l’Indie e dio ce ne scampi.
La Band della Settimana: Acid Muffin
Gli Acid Muffin sono un gruppo romano nato nell’ottobre del 2010 dall’idea di Marco Pasqualucci e Andrea Latini, rispettivamente ex batterista ed ex cantante/chitarrista dei Recidiva, ai quali si aggiunge nel maggio 2012 il bassista Matteo Bassi. Il loro è un Rock sperimentale e melodico, che prende in parte ispirazione dal sound Alternative/Grunge anni ’90. Gli Acid Muffin, dopo un primo demo registrato nel 2012, nel maggio dell’anno successivo entrano in studio per dare vita alla loro prima fatica ufficiale Nameless; un ep di cinque tracce dalle caratteristiche ibride, che da un lato si rifanno alla pura tradizione Grunge (Alice In Chains, Pearl Jam e Nirvana), dall’altro, per effetto di personali scelte stilistiche, lo ascrivono maggiormente al “Post”.
Le Fate Sono Morte – La Nostra Piccola Rivoluzione
Non saprei se farne un problema generazionale. Ma sicuramente il decennio 90 ha lasciato qualche suo residuo anche sulla mia pelle. Il suono della decadenza e dei muri sgretolati, delle incertezze, delle grida di rabbia, di oppressione. Un suono da cui difficilmente si scappa se sparavi Alice In Chains nelle cuffie del walkman, a testa bassa e sulla via del liceo. Questo scenario è infatti ritratto alla perfezione nel primo LP dei milanesi Le Fate Sono Morte. Combo Rock dal 2008, capitanato dalla attraente e dimessa voce di Andrea Di Lago. La setlist è proprio un esemplare preciso dei pezzi scritti in solitaria seduti per terra nella stanza da letto a macinare arpeggi, ritmiche nervose e testi di confusione e sorda ribellione. La musica è avvolta da una fitta nebbia già nei primi versi della ballata “A Parte il Freddo” dove il violino deciso di Daniele Pezzoni rimanda senza mezze misure agli Afterhours più melodici e diretti. “Ipnotica” e “Arriva la Neve” danno invece una sferzata più americana, con un Grunge classico e grintoso dove però la sezione ritmica (colpa forse di alcune timide scelte in fase di registrazione) non spinge abbastanza, non dando il giusto groove a due pezzi che meritano comunque di essere considerati un buon esemplare di Rock all’italiana. La voce di Di Lago è espressiva, graffiante, sofferta ma poco dinamica e pecca in monotonia. In ogni caso rimane una splendida timbrica, di quelle che riconosci alla primo verso che esce dall’ugola.
Grande pecca il singolo “È già Settembre”. Non rende proprio giustizia all’intero album, ritmica di chitarra e testo banalotti. Sicuramente non un’ottima scelta per rappresentare un disco che ha perle di maggior splendore, sebbene un grosso nuvolone sembra sempre contornare il suono delle Fate. Ben più ispirata “Anime Artificiali”, con una bella lirica di sentimenti ammaccati: semplice ma d’effetto la frase “a Milano l’amore è un’illusione, tu non scordarmi mai. Sei il fiore nel mio burrone, quando non ci sei”. Nel finale troviamo ancora spazio per una stanca e depressiva “Senza Pace”, dove spicca solamente il bel suono di basso distorto, costante e presente, poi per ultima arriva “Niente (nondiventeremoniente)”, finalmente un pezzo sui generis dove la voce quasi parlata dona intensità e spessore a un dinamico tappeto Post Rock degno dei migliori Massimo Volume. Non saprei dire se la nebbia si alzi o si abbassi, ma almeno si muove e non rimane anonima a mezz’aria. Ed è di movimento che questo gruppo ha bisogno. Attendiamo la prossima prova speranzosi di vederci qualcosa di più. O di meno.
The Box – The Box
I The Box, in un solo anno di vita registrano il loro primo omonimo disco, un disco fresco nelle intenzioni ma dal sound forzatamente old school riadattato ai giorni nostri. Per loro stessa ammissione sono forti le influenze di mostri sacri come Alice in Chains, Nirvana e Foo Fighters, il Grunge classicone per intendersi meglio e questo sicuramente risulta positivo per la riuscita tecnica del disco. Le sonorità ultra consumate di questo genere non stravolgono più di tanto le intenzioni pacate di un ascoltatore medio. L’impatto è violento perché a ogni modo i pezzi sono tirati tantissimo. Non si muore certamente di noia durante l’ascolto di The Box. Non si muore di noia neanche durante la visione del film di Richard Kelly da cui penso la band si sia ispirata. Almeno credo perché reperire notizie sul gruppo non è roba facile se non fosse per un profilo facebook da cui riesco a capire qualcosa. Ma tanto a noi interessa la musica, le informazioni non sono (per forza) necessarie. “Silence” apre il supporto in maniera proponibile, con le chitarre spezzate alla Placebo e la voce che si spacca il culo per alzare forte il pezzo. Molto emozionale e teenager style il finale portato al galoppo dalle chitarre inesauribili. Prima parlavamo delle influenze dei Nirvana che tornano prepotenti e invadenti soprattutto in “Trains” (linee vocali) e “Hypno-Love” dove la mente consiglia subito la nirvaniana “Dumb”. Ma non parliamo di plagio, solamente di forti ricordi. Rock melodico in “Regaining Mood”, quasi un pezzo sdolcinato anni Novanta. L’effetto è comunque positivo; voglia di amare.
Il disco inizia a scaldarsi mantenendo sempre un atteggiamento Grunge, la batteria picchia forte accompagnata da un basso martellante in “Home”, le chitarre sterzano Stoner. Le decisioni dei The Box sono sempre più chiare, il loro inno di battaglia grida Grunge Forever! Ma assolutamente non si accettano sperimentazioni, tutto deve rimanere incontaminato e maledettamente demodè, vietato allargare gli orizzonti. Ascoltare “W-Hole-Rdl” per rendersi conto delle finalità artistiche della band. The Box trova una collocazione positiva nei miei ascolti ma tutto potrebbe finire improvvisamente, niente vuole ricordare questo disco, neanche una personalissima nota da parte della band. Come dire che The Box suona bene ma alla fine cosa ci rimane? Tutto sembra già stato proposto e riproposto fino allo svenimento, manca d’inventiva e sinceramente un esordio discografico dovrebbe avere ben altri scopi. Questo lavoro rimane ben suonato e confezionato ma lo stimolo decisivo viene a mancare proprio nel momento del bisogno. Un buon disco di Grunge classico e niente di più. Per stupire serve ben altro e credo in un prossimo riordino delle idee. Tutto sommato se non cercate niente di esclusivo questo disco potrebbe fare al caso vostro, bravi musicisti che al momento non vogliono osare. Kurt Cobain alive. E non è comunque poco.