Quando uscì The 2nd Law, penultimo album degli inglesi Muse, le recensioni e i commenti dei fan non furono generosi. “Si sente troppo l’influenza dei Queen”, “statico e pacchiano”, “perché i riferimenti alla dubstep?”, “si sono allontanati troppo da quello che erano”. Sì, forse non era un album del tutto a fuoco, ma c’è qualcosa di peggio per una grande band del provare ad evolversi e non fare immediatamente centro: ripetere la versione standard di sé stessi per tentare di riacquistare punti agli occhi degli ammiratori mediocri. Drones non è un album brutto – d’altronde non potrebbe esserlo del tutto essendo i Muse a suonare-, ma non è un album che può farli stimare di più di prima, anzi. “Dead Inside”, “Mercy”, o “Defector” sono pezzi molto prevedibili per i Muse, ben confezionati ed eccellentemente suonati, percarità, ma di cui si possono trovare omologhi anche di miglior fattura nei primi album della band. Musicalmente il fil rouge dell’album, che ancora una volta è un concept su disumanizzazione, indottrinamento da parte del sistema e conseguente ribellione, è la potenza del suono, tiratissimo in pezzi come “The Handler”, e il ritorno alle chitarre. Con risultati alterni però: se “Reapers” rappresenta il pezzo migliore dell’album nonostante gli eccessi barocchi e virtuosistici, “Revolt” coi suoi riff potrebbe figurare anche in un album di Bon Jovi. Nell’ultima parte l’album rallenta un po’, lasciando spazio ad “Aftermath”, che suonerà come il perfetto inno da concerto in uno stadio (quando i Muse torneranno a farne), oppure “Drones”, unica traccia esclusivamente vocale ma soprattutto versione riarrangiata di Sanctus et Benedictus del rinascimentale Giovanni Pierluigi da Palestrina. Anche questo riferimento ad un periodo musicale tanto definito non è una novità nelle composizioni dei Muse. Sulla buona fede del progetto e del ritorno al Rock inteso in maniera più classica da parte della band non ci sono dubbi ma insomma, riassumendo, in Drones troviamo: il falsetto di Matthew Bellamy, suoni epici e piacevolmente tirati, riferimenti alla musica rinascimentale e barocca, strumenti suonati magistralmente, numerosi cambi di tempo e di tono, testi che invitano alla ribellione contro il sistema. Un settimo album che è un bignami dei Muse. Ma non un bignami della loro creatività, bensì di ciò che ci si può aspettare mediamente da loro.
Alt Rock Tag Archive
Alba Caduca – Uomo Nuovo
La band friulana torna con un nuovo album aver diviso il palco con Motel Connection e Modena City Ramblers.
Continue ReadingAlt-J – This Is All Yours
Sono in tre, sono inglesi e sanno bene cosa fanno. Gli Alt-J nascono nel 2007 e pubblicano il loro album di debutto (An Awesome Wave) nel 2012. Un disco che lascia la critica piuttosto spiazzata, considerata la massiccia mole innovativa che lo compone. A distanza di due anni, il 22 settembre corrente anno, pubblicano il loro secondo lavoro: This Is All Yours. Senza dubbio alcuno questo è stato uno degli album più attesi di questo 2014. Sarà che il precedente e pluripremiato (si veda il Mercury Prize) An Awesome Wave fu nel 2012 acclamato dalla critica come tra i migliori esordi di sempre, sarà perché, come diceva qualcuno, “Il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista”, sarà perché gli Alt-J sono riusciti a sfiorare le vette del mainstream internazionale con un sound talmente proprio e identitario da potersi dire tutt’altro che commerciale e sarà perché a gennaio di quest’anno hanno annunciato l’abbandono del bassista Gwil Sainsbury, tra lo scompiglio degli ormai già affezionatissimi fans e della band stessa.
Per capire dunque se la band sia riuscita a superare l’affannosa “prova del due” ci occorre premettere, per onestà intellettuale, un aspetto assai importante: This Is All Yours e An Awesome Wave sono dischi molto diversi tra loro. I ragazzi di Leeds con questo ultimo lavoro hanno certamente maturato un sound più introspettivo e spettrale, con chiari (e nemmeno troppo celati) richiami alla musica medievale (soprattutto dal punto di vista vocale, come si può notare in “Intro”) e alle sonorità soffuse alla Sigur Ròs (basti pensare a “Choice Kingdom”, settimo episodio della serie). Se cerchiamo singoli alla “Breezeblocks” o “Fitzpleasure”, per intenderci, rimarremo delusi. Non c’è traccia di quella brillante tensione metropolitana ben confusa con la furia della natura che caratterizzava le sonorità e le atmosfere dell’esordio. Da This Is All Yours traspaiono una cupezza disincantata e un’alienazione divertita. I bassi sintetizzati e le percussioni triggherate sono diventate assai meno invadenti e ci si sorprende un po’ quando con la bucolica “Warm Foothills” (decisamente l’episodio meno originale dell’opera) arriviamo ad essere cullati dolcemente, tra un fischio Folk e la delicatissima voce della gradita ospite Lianne La Havas. “Nara”, “Left Hand Free” e “Every Other Freckle” sono probabilmente i brani più significativi dell’intero disco. “Nara” è un inno alla libertà, dedica dichiarata alla città giapponese dove i cervi scorrazzano senza barriere o restrizioni di sorta, indicativa per capire il cambio introspettivo della band e che, insieme con il resto della trilogia (“Arrival in Nara”, “Leaving Nara”), sembra completare una preghiera pagana dai toni oscuri e processionali. “Left Hand Free”, capitolo numero cinque, è il brano più “radiofonico” e sembra volerci ricordare che questo “allontanamento dalla città” non è che un momento di passaggio, un po’ come lo è un secondo disco all’interno di una lunga carriera. “Every Other Freckle”, oltre ad essere una track dallo spessore non indifferente, è senza esitazioni un capitolo importante, rappresentando il legame diretto con le sonorità che valsero la fama del primo disco e quello che è il loro presente più contemporaneo. La traccia si presenta in piena dote di una grandissima coscienza d’arrangiamento e caratterizzata da una vena artistica naif ribelle e anarchica, che sfida la forma canzone classica e che punta dritto al futuro davanti a noi.
Niente più tempeste, dunque, niente onde imponenti in cui disperderci, ma un gradevolissimo viaggio lungo un’ora, che attraversa il tempo (sull’internet si vocifera che il disco sia stato registrato in una chiesa medievale) e che vuole superarlo, consapevole della maturità acquisita, capace ancora di sorprendere, pur se in maniera assai meno diretta. Per la seconda volta il giovane trio passa le selezioni e punta alla vetta, mantenendo le promesse fatte a suon di musica appena due anni fa. Tutte quelle promesse contenute in un’opera impressa su disco, sotto il titolo di An Awesome Wave.
Marlene Kuntz – Pansonica
Non vorrei essere azzardato, ma sbaglio o i Marlene stanno tentando un back to origins? Era il 2010 quando gli artisti cuneesi mi colpirono in basso e mi lasciarono tanto di quell’amaro in bocca da farmi girare la faccia e concedermi il dono dello skip tanto per Ricoveri Virtuali e Sexy Solitudini, quanto per Nella tua Luce, facendo scattare nella mia mente un meccanismo stante il quale la loro discografia era bella che terminata nel 2007, con Uno, un lavoro a metà strada fra il bello e lo spiro. Tuttavia è d’uopo ammettere che, anno corrente, la loro performance al Premio Maggio (30/04/2014) mi aveva lasciato a dir poco senza parole, concedendomi il beneficio del dubbio circa il limbo in cui si trovava la loro arte. Ed è una sera di ottobre quando i fantasmi bussano alla porta: sono i Marlene e non hanno alcuna intenzione di liberarsi di me! Mi propongono una nuova opera, uno smartbook da sette capitoli: Pansonica. Un amore altalenante, ma tanto intenso da sortire sempre un certo effetto su di me. Ed eccomi qui, a concedere un’altra possibilità ad una band che, si dica quel che si dica, sa più di immortale che di Rock.
A conferma di quanto proposto in via diretta, i Marlene sembrano voler perseguire una sana gestione di ritorno ai tempi andati e lo fanno già attraverso il titolo del loro nuovo EP: Pansonica è senza dubbio uno di quei termini in pieno stile Marlene, calza perfettamente con vecchi titoli e trova una sua dignità nell’oceano di nomi intriganti (vedi Ho Ucciso Paranoia, Catartica, “Trasudamerica”, “Sonica”) tipici del repertorio dei cari amici piemontesi. L’eccessiva evidenza del ritorno proposto, tuttavia, trova fondamento nella storia del disco, che presenta una tracklist composta da soggetti abbastanza datati. Tutte le tracce sono infatti frutto di un lavoro eseguito nei primi anni di attività della band, ma che non hanno mai trovato la giusta collocazione. Il disco è dunque null’altro se non un omaggio ai fan più affezionati, che da tempo aspettavano di ascoltare un po’ di old school. Ma non ho alcuna intenzione di soffermarmi su simili minuzie da nerd nostalgico.
Il disco apre in gran stile, con un aggressivo “Sig. Niente”, caratterizzato da un giro di basso notevole su cui si stagliano le chitarre del buon vecchio Tesio. Il testo è parlato e la combinazione lineare di aggressività, poetica ed ars oratoria mi riporta alla consapevolezza di “Ape Regina”, confermandomi che Godano è ancora in grado di stupire persino gli scettici come me. Le tracce successive mantengono l’aggressività della open track, tuttavia ne guadagnano certamente in melodia. Basta fare uno skip verso “Parti”, per abbracciare una melodica poesia. Incazzata si, ma melodica. In questo capitolo si lascia notevole spazio a chitarre non distorte, lievi e ben cullate. Poco Marlene mi si dirà, ma incredibilmente funzionale, senza dubbio alcuno. Nelle scene successive il coinvolgimento diviene totale. Il volume sale a stecca, chiedo scusa al mondo, ma mi spengo per un po’. Si viaggia attraverso titoli che se le suonano di santa ragione, senza esclusione di colpi, che gettano d’istante nel dimenticatoio tutte le buche in cui sono inciampati i ragazzi negli ultimi anni. Un nirvana artistico lungo 3 minuti e 20 secondi che va sotto il nome di “Oblio”, in pieno stile “Nuotando nell’aria” sopprime la mia voglia di nicotina e mi costringe al replay continuo e non mi dà tregua. Chiuso per ferie. Ci scusiamo per i disagi. La mia mente inizia a viaggiare a ritroso nel tempo, torno bimbo e mi emoziono. Il mio sistema nervoso assume una configurazione nuova e mi dà una nuova certezza: i Marlene sono immortali. Faccio un passo indietro e torno su “Ruggine”, quarto episodio della serie. La combinazione perfetta dei singoli sound ci dona un Sole di mezzanotte, capace di illuminare a giorno il più buio dei baratri. La track è incredibilmente aggressiva, il testo semplicemente perfetto. Non ho altro da aggiungere, 30 e lode.
Tirando le somme, mi sovvengono le considerazioni di cui a breve. Qualche mese fa abbiamo avuto modo di ascoltare un remake di Hai Paura del Buio, un’idea Afterhours assolutamente geniale, che ha coinvolto un gran numero di artisti, molti dei quali giovani e talentuosi. Meno di un mese fa, lo sguardo indietro l’hanno lanciato gli Interpol, sotto il titolo di El Pintor. E che dire degli Smashing Pumpkins, che hanno saputo sintetizzare evoluzione e radici in una mistura intitolata Oceania, risalente a ben due anni fa. Se lanciamo uno sguardo agli ultimi anni, ci accorgiamo di quanti passi indietro siano stati fatti dalle più grosse band di sempre. Sarà marketing, o forse semplice nostalgia, ma quelli come me si limitano a dire “Grazie”. La stessa scia è stata intrapresa di recente dai Marlene Kuntz, ma degni del nome che portano, hanno saputo tenere in grembo l’idea per un considerevole numero di anni. Il risultato è strabiliante! A 25 anni dalla loro nascita e 20 dal disco di esordio (Catartica) riescono a donarci un salto diretto nel 1990 che non può che suscitare applausi e lacrime di commozione. Un modo geniale per dire “Noi ci siamo ancora e, per chi l’avesse dimenticato, siamo questi qui!”. L’esito è inevitabile, il giudizio è pienamente conforme al dono. Il dieci tondo lo tengo in tasca e lo dispenserò soltanto a patto che Pansonica sia l’equivalente di “è stato un piacere essere stati amati da voi”. Perché il vero attore è colui il quale sa esattamente quando è il momento di uscire di scena.
La Macabra Moka – Ammazzacaffè
Dove? Cuneo. Quando? 2014. Chi? La Macabra Moka.
Sono passati tre anni da quando, nel 2011, il macabro quartetto propose al pubblico i cinque capitoli di un EP che oggi ricordiamo come Espresso. A distanza di tanto tempo, i ragazzi restano fedeli alla linea e propongono al pubblico un lavoro definitivo: Ammazzacaffè è il nome di battesimo ed è il disco di esordio della band. Stavolta i titoli sono nove ed è una continua presa a pugni con la realtà. Le pretese non sono eccessive: l’intero lavoro sembra frutto di una sintesi fra complicità e puro divertimento, ma non per questo privo di personalità e di spessore. Ce lo racconta “Fibonacci”, attraverso un’intro degna di nota, che fa da spalla ad un testo più che sentito. Lo stile incredibilmente vario, lo strumentale egregiamente articolato e la voce che ben si destreggia fra le note convulse del brano . Senza dubbio uno degli episodi di maggior rilievo. Non di meno è “L’Eterno Ritorno dell’Uguale”, stagliato su una ritmica costante nella prima fase per dar successivamente sfogo ad un robusto Alt Rock in pieno stile fine anni novanta, inizio duemila. Di tutt’altro stampo risultano gli altri capitoli di Ammazzacaffè. Dal Post Funk de “L’Iconoclasta”, alle tonalità più aggressive “quasi” Hardcore di “Manrovescio”, al pesante tocco di “Economia Domestica”. Qui e lì si riescono a percepire richiami a Ministri, a Il Teatro degli Orrori e persino al cantato di Billy Corgan, ma sono vene fin troppo vaghe per poter parlare di mera ispirazione. Si tratta perlopiù di effimeri sentori, che spariscono nel giro di qualche secondo o più. Li si percepisce nel parlato del Post Funk già citato, nella gabbia di “Ignoranza” e qui e lì spalmati su tutto il lavoro.
Insomma, siamo onesti, un’opera di tutto rispetto, se non fosse per l’incredibile difficoltà di star dietro a tutto quanto. È uno di quei lavori che meglio si apprezzano ai piedi di un palco, sicuramente, ma la versione studio si difende bene e lascia l’ascoltatore incuriosito e, tutto sommato, soddisfatto. Dunque, passano la selezione i ragazzi piemontesi, portando tuttavia con loro un debito formativo: un live che, ad oggi, non ho ancora avuto il piacere di valutare.
Subsonica – Una Nave in una Foresta
C’è un detto torinese che parla di una barca in un bosco per esprimere attraverso una semplice metafora la non facile situazione in cui ci si sente pervasi da uno spiacevole senso d‘inadeguatezza e non appartenenza. Una sensazione maledettamente universale, che i Subsonica hanno cercato di esprimere fin dai loro esordi, in vari modi e attraverso varie vesti espressive: dall’Elettronica spinta, al Rock, dalle sperimentazioni estreme alle più recenti attitudini Pop. Questa volta, la settima, la formula narrativa scelta è forse la più articolata e complessa, una super sintesi di tutto quello che è stato, degli anni passati, del percorso di un gruppo, sempre però filtrato attraverso la contemporaneità e mitigato dalle persone. Gli attori dell’iperbolico Una Nave in una Foresta sono tanti, ci sono tante versioni di noi stessi: innamorati, peccatori, giovani ragazze anoressiche, fino a una vecchia auto, tutti alla ricerca di un riscatto, spronati alla svolta, ma consapevoli delle proprie fragilità. Un viaggio spesso tormentato, ricco di dubbi, ma che ci mostra anche una possibile via salvifica con l’ultima traccia “Il Terzo Paradiso”, sintesi in musica della più alta espressione idealista dell’artista Michelangelo Pistoletto. Musicalmente parlando, il disco rappresenta un ritorno verso i suoni delle origini del primo album omonimo, soprattutto rispetto ai precedenti Eden ed Eclissi. In generale i bpm si abbassano, rispetto alla media del gruppo, la cassa e il basso dimettono la loro veste Drum & Bass, fatta eccezione per il brano “Lazzaro”, a favore di basi sintetiche che si ripetono in sottofondi ipnotici, e soluzioni ritmiche che giocano con la forma canzone standard. “Una Nave in una Foresta”e i “Cerchi degli Alberi” sono un buon esempio in cui una base ripetuta genera un senso di dipendenza musicale e i cambi di ritmo donano spessore ai brani. Le atmosfere sono scure e cupe ed i suon profondi e ampi, brani come “Licantropia” ricordano le atmosfere rarefatte e pulsanti di brani come “Nicotina Groove” e “Giungla Nord”, mentre la chitarra di Max si ritaglia ampi spazi in “Tra le Labbra” e nella melodica e minimale, ma tremendamente immediata, “Di Domenica”, secondo singolo uscito. I brani meno convincenti sono “Specchio” che utilizza un sound Funk anni 70 con un ritornello molto orecchiabile e “Ritmo Abarth dal ritmo intenso ma meno coinvolgente rispetto ad altri pezzi. In mezzo a synth e alle stratificazioni sonore la voce di Samuel, il sesto componente della band, riesce in maniera vincente a creare quell’amalgama magica tra suoni e voce che dona a tutti i brani una vibrante energia, senza dubbio in questo lavoro più che in altri si sente un forte lavoro sull’uso della voce in maniera più ampia e melodica. Una Nave in una Foresta è un disco ben fatto, curato nei minimi dettagli, ma dimenticatevi il disco danzereccio del ventenne incazzato, dimenticatevi finalmente Microchip Emozionale, e il raggio di sole di Eden, siate pronti ad ascoltare un disco maturo, appassionato e passionale, che cattura nella sua ragnatela emotiva senza necessariamente togliere dieci anni di vita e fiato, che vi racconta come essere un vaso di terracotta in mezzo ai vasi di ferro, col coraggio di chi scopre di essere vivo come non mai. Se qualche anno fa eravamo tutti esperti di chimica forse stavolta diventeremo tutti appassionati di dendrocronologia. Per ultimo, ma non meno importante, se vi manca l’esperienza live approfittate dell’imminente tour.
Gelfish – Hungry
Sarà che sono le tre di notte. Sarà che non sto per andare a dormire. Sarà che mi sono appena svegliata dopo tre ore di sonno. Sarà che sono le tre di notte, sono affamata (hungry) e sono anche folle, ma non quella sana follia che tanto acclamava il buon vecchio Steve Jobs. Sono follemente incazzata. Ed è per questo motivo che sono attratta da questo titolo: Hungry, e decido di scegliere i Gelfish come colonna sonora di quest’alba anticipata, di questo risveglio forzato. Hungry (letteralmente affamato e Angry, la sua pronuncia, letteralmente arrabbiato, per l’appunto) – Ep d’esordio della band di Pescara – arriva infatti a stuzzicare, amplificare ed infine esorcizzare le sensazioni di incazzatura cosmica del momento. Sulla copertina del disco, disegni essenziali su uno sfondo total black, un bambino riccioluto rimane a guardare la rabbia che viene fuori da un televisore vecchio stile. Ci rimane davvero allora così poco? Ci resta solo restare a guardare questa rabbia uscire dagli schermi delle nostre esistenze ed invadere le nostre case, le nostre vite, i nostri pensieri?
Premo play ed il suono rauco di un basso, subito raggiunto dalla batteria, introduce “Inside the Everything”, pezzo potente che fa tanto affidamento su voce ed effetti vocali nel tentativo di far valere il concetto di rabbia che è filo conduttore dell’intero disco. Ed proprio l’utilizzo che si fa della voce uno degli aspetti più ricorrenti in tutto l’Ep. Infatti “No Power No Resposability” segue la stessa scia della precedente “Inside the Everything”, anche se chitarre e distorsioni hanno un ruolo maggiore. “Night of the Living Dead” alterna parti più cariche di ritmo a parti più lente, un’antitesi che rievoca il concetto di vita e morte del titolo. “Arkham Asylum” chiude il disco, e lo fa in una maniera perfettamente in linea con i pezzi precedenti, senza apportare particolari variazioni o colpi di scena.
Hungry è il disco d’esordio dei Gelfish, un esordio che a mio parere non stupisce particolarmente, ma che ha comunque i presupposti per diventare qualcosa di più accattivante, basta forse solo arrabbiarsi per il motivo giusto e nel modo giusto.
Interpol – El Pintor
Quattro lunghi anni di attesa: un’eternità per gli appassionati, un sollievo per gli avversi. I disillusi come me, invece, restano nel limbo dell’indecisione. Era il 2010 l’ultima volta che i miei padiglioni ebbero un incontro ravvicinato con gli Interpol. Ricordo che l’omonimo album non riuscì a far vibrare nessuna delle mie corde. Forse una sola, quella della rabbia. Il disco sembrò segnare definitivamente la fine della band o quantomeno era una concreta prova dell’inizio del declino. Il talento sembrava esser svanito, la passione, l’interesse, tutto quanto. Non erano più gli Interpol. Contemporaneamente c’era il Paul Banks in giro per il mondo sotto lo pseudonimo di Julian Plenti ed era quanto bastava per poter pensare che all good things come to an end. Poi accorgersi che era soltanto un’eclissi…
È l’8 settembre dell’anno 2014 quando mi ritrovo nuovamente faccia a faccia con i “ragazzi” newyorkesi. E come una vecchia storia finita male merita sempre risposte, così ho cercato le mie in El Pintor. E le ho trovate. Un disco che sembra voler chiedere scusa per gli errori passati. Sin dal primo capitolo si respira aria di Turn on the Bright Lights, quasi come a rispolverare vecchie foto. Foto che trovano, inevitabilmente, tracce di usura, rovinate dagli anni, ma che ce la mettono davvero tutta per apparire nitide e chiare come allora. È fortemente percepibile il recupero di personalità della band, il ritorno della musa, la nuova dedizione. Appena percepibile l’evoluzione stilistica, dai bassi messi lievemente all’angolo e dall’estrema attenzione alle lunghe chitarre Indie che si articolano in riff non troppo complessi, ma ottimamente apprezzabili. Si percepisce qualche capello bianco e qualche ruga in più, ma nel complesso il disco sembra essere un ritorno alle vecchie abitudini, al vecchio stampo, con l’accortezza di aggiungere qui e lì qualche tratto dell’esperienza accumulata lungo il percorso. Senza dubbio l’episodio di maggior rilievo è il primo, “All the Rage Back Home”. Sarà che è quello a più alto contenuto Interpol, sarà che è stato il primo singolo o che è stata la colonna sonora di tutta quanta la propaganda, ma è inevitabile respirare aria di casa, lanciata via dalla cassa a suon di bassi. Citazione positiva anche per “Tidal Wave”, nono capitolo dell’opera, che si propone l’obiettivo di portar via l’ascoltatore attraverso un’alternanza incessante di rullanti e casse, che si staglia su un riff perpetuo e su una voce malinconica. Si percepisce la voglia di andar via, insieme al maremoto (appunto tidal wave) cantilenato per tutta la durata della traccia. La stessa malinconia è palpabile direttamente in “My Desire” ed in altri capitoli, ma d’altra parte ciò non fa che confermare il ritorno osservato.
In definitiva il disco suona come un disco di perdono, una lettera di scuse a suon di musica. Funziona bene, scorre senza crepe e sa ben farsi apprezzare, seppur nessun capitolo riesca a far riemergere antichi splendori. Inevitabile da parte mia il punto a favore per la riaccesa speranza e per la capacità di back to origin dimostrata. D’altra parte siamo innanzi ad artisti dalla spiccatissima personalità e professionalità. Certo, probabilmente El Pintor non riuscirà a donarci tesori come “Pioneer to the Falls”, “Obstacle 1”, “Take You on a Cruise” o quante altre se ne possano citare. Ma questo d’altronde ce l’aspettavamo già.
Limes – Slowflash
Confini bagnati dalla pioggia, esce in autunno il primo disco ufficiale dei Limes. Sono perfetti se avete voglia di piangere, se il vostro cuore dice una cosa ma le vostre intenzioni sono bruscamente condizionate dalla stancante normalità. Slowflash entra duramente a gamba tesa sui sentimenti, Alternative Rock dagli intenti poco italiani, certamente una botta da lasciare penetrare nello stomaco, mischiate rabbia e amore, adesso potete iniziare a capire le vere intenzioni dei Limes. Intro strumentale, poi “Hunting Party” diventa subito una grande hit, sentori di Indie dei primissimi anni zero, ritornello da pelle d’oca, i peli si rizzano sulle braccia, il resto conta veramente poco. Autunno caratterizzato dalle melanconiche foglie che cadono dagli alberi, dei nuovi propositi musicali, questo disco registrato da Abba Zabba presso il Palo Alto Studio di Trieste uscirà il prossimo trenta Settembre portandosi dietro parecchie attenzioni. Scariche di potenza in “Pressure Variation”, un dolce piano spezzato da una forsennata batteria, la voce mantiene sempre la propria importanza anche quando i pezzi sembrano avere tutto il gusto della classica ballatona romantica (“The Fall”). Pian piano riesco a percepire una saporosità internazionale piuttosto accentuata, sembrerebbe quasi di ascoltare una navigata band mondiale. E navigata vuole essere un complimento, un grande complimento.
Un esordio del genere potrebbe segnare l’inizio di una grande avventura artistica, il blocco vergine dal quale iniziare a scolpire una grande carriera, difficilmente risulteranno apatici e scontati in futuro. Lo stomaco inizia a divorare farfalle durante l’ascolto di “Path of Mind”, struggente Post Rock arricchito da una vena decisamente Popular e piacevole, inconfondibile immediatezza dei brani proposti. Poi piccole perle Alt Rock continuano a darsi il cambio fino alla fine del disco, tutto sembra essere buttato giù con estrema semplicità, niente di artefatto, la sperimentazione gli appartiene poco, ai Limes piace tirare dritti fino alla fine senza complicarsi la vita. La semplicità risulta essere l’arma vincente, il colpo sferrato nel giusto momento, anche quando il patos sale in puro stile Dawson’s Creek (White), avete presente i finali di puntata? Quelli dove si rimaneva sempre con il cuore in subbuglio ed un sottofondo Romantic Rock si sposava perfettamente alla scena? Bene, non abbiate paura di sentirvi obbligatoriamente dei rockettoni duri e cattivi, lasciatevi trasportare dalla vostra coscienza, apprezzate Slowflash senza riserva. I Limes potrebbero tranquillamente recitare nel mainstream la parte degli indipendenti. Questo lavoro suona bene, un esordio discografico da tenere in seria considerazione, nessuno oserà mai dire il contrario.
Allan Glass – Magikarp
Per il duo piemontese Marco Matti e Jacopo Viale, dopo la buonissima prova dell’ep Guzznag, è giunto il tempo dell’album che li dovrebbe introdurre definitivamente nell’oscuro mondo dell’underground italiano. I due ragazzi pescano tantissimo da un passato che ha il sapore di un Garage sporchissimo (“Betulle”), figlio dei decenni Sessanta e Settanta, tra Iggy Pop e The Sonics ma questo lavoro di riscoperta della lordura che fu è messo in atto con uno spettro di modernità e rinnovamento senza eguali. Un’inclinazione fresca che rinvigorisce lo spirito, anche quando le chitarre Funky danzano selvaggiamente con una sezione ritmica tribale che non lascia scampo neanche ai più rigidi pezzi di legno (“La Tua”) oppure quando si resta schiacciati contro il muro da uno tsunami Impro Folk Rock che suona come un putiferio incontrollato e caotico, almeno all’apparenza. Quello degli Allan Glass non è solamente un Alternative Rock sparato a mille chilometri l’ora, con un tripudio Noise a calpestare, soffocare, stuprare le linee melodiche vocali (“Palloncini e Pavoni”, “L’Estate Non Conta Parte I”). È tantissime altre cose, in parte sulla scia dei giganti della Psichedelia sperimentale, gli Oneida e in parte oltre ogni paragone di sorta.
Il loro fosco e poderoso ma comunque ritmato Lo Fi, sfoggia le vesti più eleganti di un certo Post Rock psicotico, senza saliscendi o variazioni sostanziali (“L’Estate Non Conta Parte II”), che quasi sarebbe base perfetta per un pezzo Experimental Hip Hop stile Dälek, ma sa anche svestire quei panni per mostrarsi in tutta la sua bellezza Art Punk, ritmica e amorfa (“Plastic Bubble in the Mystic Place”) oppure mutare forma in maniera sostanziale e inaspettata, trasformandosi in una sperimentale miscela di Acid House, Industrial e Psichedelia Elettronica neanche si trattasse di figli illegittimi di un parto selvaggio e innaturale di Genesis P-Orridge e famiglia (Psychic Tv). Con Magikarp (per gli appassionati del genere dovrebbe trattarsi di un Pokemon di scarsa potenza) gli Allan Glass mettono finalmente in mostra tutto l’arsenale a disposizione, forse con un po’ di confusione, qualche pausa d’intensità di troppo e pochi minuti (circa ventiquattro) sui quali sfogarsi, ma quelle armi paiono avere tutte le carte in regola per fare molto male. Gonfiare ancor più l’album non tanto con nuove idee ma soprattutto con la materializzazione di quelle già presenti avrebbe certo aiutato ad apprezzare ma chi ha buon orecchio per ammirare anche questo sensazionale rumore, non faticherà a riconoscere indubbie doti creative.
Ecco il nuovo video e secondo singolo dei Gouton Rouge
“Attratti” è il secondo singolo estratto da Carne, l’album d’esordio dei Gouton Rouge, quartetto lombardo Alt Rock, New Wave, Power Pop, Shoegaze. L’album è uscito il 17 marzo per V4V-Records in collaborazione con S3X Netlabel ed è disponibile in free download e streaming al seguente link: http://bit.ly/1qlGv1W
Il video è stato ideato e diretto da Andrea Losa e vede protagonisti Matia Campanoni e Gaia Galizia. Buona visione e buon ascolto.
Gouton Rouge – Carne
I Gouton Rouge presentano questo disco con un comunicato che ha come esergo un brano di Pavese (“Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione”), e io non posso non incuriosirmi. Anche perché il tema della carne (e Carne è proprio il titolo dell’album) è un tema affascinante, trasversale, uno di quei temi archetipici e universali che è possibile affrontare in modi molto diversi, approfondendone aspetti diversi. Qui, in realtà, di carne se ne trova veramente poca. È più un alludere, soprattutto attraverso i testi, secchi e brevissimi, che in realtà sembrano il materiale di una sola, lunga canzone, una canzone d’amore, di rifiuto, di speranze che sorgono e poi implodono, con un’attitudine emo-zionale che oggi si respira sempre di più, ma che a volte (e anche qui accade) corre il rischio di sembrare artefatta, una sorta di ricatto emotivo che deve strapparci per forza l’angoscia, la malinconia, o qualche altro sentimento crepuscolare. Musicalmente il disco si compone di un Rock alternativo che miscela bene la voglia di graffiare e la morbidezza dell’immaginario che lo contorna, con ritmiche sostenute, chitarre arpeggiate e limpide che oscillano tra il melodramma e l’atmosferico, e con una voce trasformista e un po’ retrò, che sa ammorbidirsi (tanto) e grattare (poco). Se devo dire la verità, mi è sembrato un impianto decente ma senza guizzi particolari (a parte alcuni episodi in cui il gioco è più riuscito, come “Sbiadire”).
Riassumendo, credo che Carne sia un disco che parte da un’idea non malvagia: il rapporto a due che c’è, non c’è, è sconvolto, torna, è speranza ma anche dispiacere, è salvezza ma anche perdizione, in un’ellissi continua della carne, quella vera, che si immagina e non si vede mai; però poi si incaglia in un ripetersi, in un ciclo di auto-citazioni che uccide in parte la “biodiversità” del disco. I Gouton Rouge suonano bene, ma con uno stile che vibra così contemporaneo, così “alla moda” che sembra già un po’ vecchio. Insomma, un disco che amerete a dismisura se il genere riesce a parlarvi, altrimenti rischiate di sentire una sola canzone triste lunga un disco, senza portarvi niente a casa. A voi la scelta.