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May Day – Eppì

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“Uomini, adesso, non derideteci,ma pregate Dio che tutti noi assolva.” Voglio dirvelo subito, senza falsità. Cosi non ci siamo. Avete messo tutto (domanda?) in questo Ep e il risultato è poco più di niente. Il sound è derivativo (passatemi il termine indiesnob) fino all’eccesso e questo potrà certo piacere a tanti. Ma vi chiedo. È questo che volete dalla musica? Piacere a masse informi di ragazzini che della musica hanno un’idea ristretta a jingle pubblicitari e MTV o, nella migliore delle ipotesi, ai dischi del fratello più grande? Passiamo l’orrida (per un disco del genere) copertina, passiamo il Cd masterizzato (fisicamente intendo) come la copia di un disco fatta da un vostro amico e passiamo anche il facile titolo da simpaticoni che chiamano l’Ep, “Eppì”. Ma cosa sono veramente questi May Day? Oggettivamente parliamo di tre ragazzi nati a (non lo dico perché loro dicono porti sfiga) nel 2002. Dieci anni dopo sono ancora gli stessi che suonano il più classico Alternative Rock in lingua italiana.

In una decade hanno prodotto due dischi, l’omonimo del 2003 e “Come Ieri” datato 2005 e hanno all’attivo due partecipazioni a compilation firmate Sana Records e Indie Box Records. Sul lato live si sono dati abbastanza da fare, condividendo il palco con Linea 77, Punkreas, Meganoidi, Bambole di Pezza, The S.T.P., L’ Invasione degli Omini Verdi, Medusa, Ln Ripley. Riescono anche a vincere il primo Biella Music Contest e partecipano alle fasi finali di Arezzo Wave e Transilvania Live.  Ultimo riconoscimento la vittoria dell’Open Mic Summer Tour Contest 2011. Ma chi sono veramente questi May Day? Decidono di condividere l’Ep in download gratuito per potersi mettere in gioco soprattutto nell’aspetto live. Non vogliono necessariamente lucrare (né ovviamente fare i coglioni a loro spese, immagino) sulle spalle della musica. Sono onesti fino all’osso. E soprattutto sono bravi. Quindi, perché non vi sfogate quanto create? Suppongo non sia una questione di limitazione artistica. Forse è il timore di osare. Ma perché non vi lasciate andare? Che siano le grandi band soggiogate dalle case discografiche a uniformarsi a un certo tipo di suono. Voi, indipendenti e liberi fino al midollo, dovete regalarci qualcosa di più. Se ne siete capaci (io dico sì ed è questo il motivo del voto forse troppo duro rispetto alle mie parole. Odio vedere il talento sprecato).

I riff che ci scheggiano la pelle per i brevi minuti che ci accompagnano nell’ascolto dei cinque brani sono eccellenti in un certo senso prettamente estetico, ricercati quanto basta e orecchiabili ma devono sempre qualcosa a qualcuno, sia insospettabile (il riff del primo brano “Supermario” non vi ricorda niente?) sia troppo scontato (The Strokes, Placebo, tanto per fare qualche nome). Stesso discorso per la batteria che ricalca alla perfezione l’Alternative più vicino allo Stoner Rock. Tutto quello che sembra uscire dalle casse è un ovvio misto di Indie, Pop e Rock. La voce (che ricorda quella di Federico Dragogna) è discreta, molto migliorabile a dire il vero, soprattutto in fase di registrazione e i testi, come spesso accade nel mondo Indie, non rappresentano certo il punto forte di “Eppì”. I motivi sono nel complesso abbastanza immediati e facili, come di una band che cerchi il più ampio consenso. Ma a mio avviso i May Day non sono questi. Lo voglio credere. I primi venti secondi (non è l’unico momento, ovviamente) di “Vecchio” mi parlano di una band che ci sa fare e non di una band che vuole vendere. L’energia che schizza in alcune poderose virate Alternative Rock è quella di chi non vuole sfondare, ma vi vuole sfondare il culo. La strada devono sceglierla loro. Gabriele Serafini (chitarra e voce), Francesco Petrosino (Basso e voce) e Patrick Seguini (batteria) hanno in mano il loro futuro. Piacere a chi di musica capisce poco col rischio poi di non piacere a nessuno e diventare un’altra delle tante band che spariscono dall’Italia ogni anno. Oppure darsi da fare e mettere in musica tutta la loro anima creativa.

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Too much distress – Outlet valve

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Non è assolutamente un disco che si decifra al primo ascolto: forse per  la mancanza del basso, forse la peculiarità di canzoni spesso troppo brevi (la metà dei brani non supera i 2:30) e i testi  semplici, potrebbero far credere ad un disco banale. Invece i testi semplici risultano anche essenziali, senza fronzoli, e il basso è ben sostituito da virtuosismi impercettibili, come l’uso di quella blue note che fornisce il ritmo, tempo e completezza all’intero album.  Queste caratteristiche rendono Outlet Valve dei Too much distress un disco leggero  e alla lunga assolutamente piacevole, come un diesel che ci mette un po’ a carburare ma una volta ingranata la quinta ha sicuramente un lungo rettilineo da percorrere.

Vario nella sua struttura, ascoltiamo in alternanza brani strumentali (Outlet valve su tutte, dove il suo inizio arpeggiato mi ricorda le sonorità dei Metallica) ) e testi interessanti. Primo singolo è Drunked blind, italianizzazione di blind drunk che significa ubriaco fradicio, che già dal titolo rende l’idea di quanto siano diretti i testi.
Questa “troppa angoscia” che caratterizza il nome della band, non mi pare condizioni questo progetto di Stefano Serra (batteria) e Fabio Orrù (chitarra/voce) che appare invece già maturo da un punto di vista di complicità musicale  e ancora un po’ acerbo nelle sonorità; Il suono grezzo, poco pulito, colloca il cd sugli scaffali dell’alternative rock italiano  genere con cui i Too much distress rappresentano la Sardegna in modo più che dignitoso.

Curiosità: prima di essere i Too much distress, Serra e Orrù suonavano già insieme nei Coleman prima, Second self e Shell to tell poi , con una formazione più ampia. Nel 2010 diventano ufficialmente TmD attestandosi come duo e iniziando a lavorare per Outlet valve, in uscita a febbraio 2012.

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Miriam Mellerin – Miriam Mellerin

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Sabato mattina di una pessima settimana passata in compagnia di un tipo in accappatoio che chiamano Drugo che gironzola nella mia testa raccattando cartoni di latte semi vuoti e pezzi di vetro. Il mio corpo rintanato in una casa vuota accarezza una tarantola che ringhia ai miei demoni che picchiettano dietro la finestra del secondo piano del palazzo. Come una bestia osservo i poliziotti che picchiano un barbone che mi somiglia addormentato a terra ubriaco. Tutta questa gente che dorme all’aria aperta non rende la cosa invidiabile. L’attesa del nulla non m’innervosisce. Ascolto i Miriam Mellerin. Nessun problema.

Le case esplodono una dietro l’altra intorno a me, nascondendo il rumore del vento e degli aerei che ci bombardano sotto il sole freddo. Le casse bruciano lacrime di rabbia. La stanza è colma e sazia di energia. La sento stillare dalle pareti nere. Tutto sta per esplodere. Ascolto i Miriam Mellerin. Nessun problema.

Sette candelotti di dinamite infilati nel culo dell’anima.

L’omonimo debut di Diego Ruschena (voce, basso), Daniele Serani (chitarre) e Andrea Ghelli (sostituito a fine 2011 da Pietro Borsò, batteria) propone una formula che pochi altri in Italia ci hanno proposto in maniera credibile soprattutto con l’uso della nostra lingua. I pisani caricano il Post Punk e il Post Rock di puro energico Noise rischiando, a tratti, che tutto esploda tra le loro mani.

L’album inizia con “Parte Di Me”, episodio tanto intimo, soprattutto nella parte vocale, quanto demoniaco in quella strumentale. Alla voce di Diego si aggiungono subito quella di Lady Casanova (The Casanovas) e il clarinetto di Edoardo Magoni, tanto che il pezzo è quasi spaccato in due in verticale da una linea retta che divide l’empatia della vocalità dei due dalla pesantezza del sound a tratti echeggiante il Black Metal meno potente e più teatrale.

“Made in Italy” rappresenta il dito puntato contro il sistema Italia, il suo campanilismo, la sua pseudo libertà, la sua incapacità di reazione. Il basso è il reale padrone del pezzo. La linea guida che ci accompagna fino alla chiusura. Il resto è a tratti cacofonico senza volontà, soprattutto il coro che incita alla fuga, piazzato in alcuni punti del brano in maniera assolutamente inopportuna. Pensate al minuto uno e quindici secondi in cui il giro di basso che anticipa il coro e le sue parole “Scappa”, creano un suono che puzza di sbagliato alle nostre orecchie. Cosi le note psichedeliche della chitarra al minuto uno e cinquanta che finiscono per impoverire il pezzo invece che arricchirlo.

In “Insetti” torna la voce di Lady Casanova a supportare Diego che stavolta invece di recitare corre come un ossesso. I Miriam Mellerin riescono finalmente ad alzare quel muro sonoro che stavamo aspettando. Non siamo però ancora davanti a qualcosa di maestoso. Sembra sempre mancare qualcosa.

Con “Trust” un altro mattone si aggiunge a quel muro. L’inglese sostituisce l’italiano e il sound si fa pulito ricalcando il più classico Alternative Rock e Post Grunge degli anni novanta.

“Ostrakon” inizia in perfetto stile Spoken Words con una melodia estremamente semplice e ripetitiva. La rabbia, la potenza espressiva è tutta affidata alle parole e le urla di Diego ma alla fine il risultato è un pezzo troppo banale per essere vero con cambi di ritmo (degni di essere considerati tali), praticamente assenti. L’ovvia ingenuità di ragazzi per lo più ventenni si palesa in questo brano in maniera netta.

“B.H.O.O.Q.” anch’essa cantata in inglese rappresenta l’apice della creatività dei Miriam Mellerin. Finalmente un brano eccelso che racchiude tutte le qualità proprie dell’album e plasma quelli che ne sono i punti deboli trasformandoli in qualcosa di apprezzabile. Il brano esplode immediatamente, scaricando rabbia e potenza nella nostra testa senza riguardo alcuno. La chitarra di Daniele stride sperimentando improvvisazioni rumoristiche eccezionali. Al minuto uno e venti circa senza preavviso alcuno si vola. Diego canta poche parole in spagnolo ed entra in scena la tromba di Marco Calaprina che sembra echeggiare come il ricordo di un incubo prima di impazzire totalmente in chiusura di brano.

Siamo in fondo. “Stilnovo” prende in prestito le parole di Cecco Angiolieri e pur essendo il brano di buona fattura crea un certo imbarazzo nell’ascolto dovuto al palese tentativo di intellettualizzare la musica nel modo più semplice possibile.

In teoria l’album è alla fine. Aspettate qualche minuto, però, prima di riporlo nella sua custodia. C’è un fantasma che vi aspetta. Rock strumentale nudo e crudo, grezzo e graffiante. L’ultimo morso letale della tarantola Miriam Mellerin.

Tante cose da migliorare. Tanta carica ed energia da incanalare, affinché non si disperda inutilmente. Tanto potenziale. Potenza e teatralità, passione, testa, cuore e sangue.  I tre hanno tutto quello che serve per diventare grandi.  L’importante in un disco è che ti ponga nella condizione di voler continuare ad amare la musica. Ci siamo. Ora serve di più.

P.s. Io lo prenderei un secondo chitarrista. Voi no?

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