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Motherfucker – Confetti

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La vera dichiarazione d’intenti di questo nuovo album della band ateniese Motherfucker è racchiusa nell’immagine di copertina, in cui, disteso sopra un freddo parquet, giace un braccio inerme, ricoperto di sangue, coriandoli e brillantini superstiti di una festa e un tatuaggio che recita don’t quit, non smettere. Se il messaggio concettuale nascosto in questa visione può essere interpretato sotto diversi punti di vista e lasciamo a voi scegliere la strada dell’ironia e sarcasmo dello show must go on o quella di una rabbiosa lotta alla rassegnazione, da un punto di vista stilistico tutto è più chiaro. In Confetti, come nella sua cover, si miscelano colori e note che potremmo definire speranzose ma anche il suo contrario. Dunque, una certa violenza sonora è squarciata da una continua ricerca melodica, la voce meccanica e fredda danza con ritmiche che martellano cercando di non fracassare nulla. Il sound nel suo insieme è insipido, con una registrazione non sappiamo quanto volutamente grezza. Rinuncia a ogni sorta di sperimentazione, mette da parte il possibile lato Psych Rock facendo scivolare la sezione ritmica dietro la voce e punta dritto alla creazione di brani che possano suonare tanto crudi quanto digeribili. Con lo sguardo rivolto agli anni 90 del nord est statunitense, i Motherfucker provano a tracciare lo stesso solco di band come Cloud Nothings o Japandroids capaci di miscelare, con ottimi risultati, Noise e Pop ma qui, non solo è diverso il punto di partenza che è piuttosto da fissare nel Post Hardcore classico albiniano, ma anche il risultato è ben lontano da ciò che ci si sarebbe aspettati. Il grosso limite di Confetti non è nell’evidenza di queste intenzioni, ma piuttosto nel non essere riusciti a chiudere un cerchio che potenzialmente poteva avere un senso. Portare un genere tanto brusco e violento come quello degli Shellac a un pubblico magari meno propeso a certe ruvidezze, sarebbe stata una buona scelta ma quelli che dovevano essere i punti chiave, quindi ganci, melodie, vocalità, ritornelli e riff alla fine suonano come tentativi malriusciti di ottenere qualcosa di esclusivo. Quando Erika Rickson (drums), Erica Strout (guitar) e Mandy Branch (bass) pestano i piedi sull’acceleratore o creano strutture strumentali deformi il sound acquista corpo e credibilità ma è proprio nel momento in cui entrano in scena quelli che dovevano essere i momenti di svolta che lo scheletro crolla su se stesso. Prendiamo ad esempio la seconda parte di “I Want the F”. La reiterazione chitarristica stordita da una batteria morente alternata alle sfuriate più old style s’interrompono proprio quando ci aspetteremmo una scarica di violenza e a quel punto, se la scelta delle ragazze greche è quella di non forzare la mano sul lato brutale ma piuttosto di alleggerire il suono, non è certo sufficiente ridurre i tempi, abbassare i volumi e frenare. Quello che poteva essere un cazzotto in pieno volto sferrato dalla donna più bella che abbiate mai visto, si risolve in una tirata di capelli e qualche gridolino. Un album violento per gente non violenta.

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Jesus Dies Alone – Jesus Dies Alone

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James Rossetti (alla voce) e Marco De Masi (a tutto il resto: chitarre, bassi, sintetizzatori, cori), dopo avventure varie sotto altrettanto vari moniker, si stabiliscono definitivamente nella nuova casa Jesus Dies Alone con l’esordio omonimo, porta d’ingresso di un palazzo sintetico e polveroso, oscurato da uno spleen onnipresente e accidioso. Voci strascicate, basse, in un mare di sintetizzatori e batterie finte che creano una penombra che rischia troppo spesso di risultare posticcia e poco a fuoco. Le canzoni ci sono, anche se non sorprendono né innovano nulla; le movenze sono mimetiche, tendono a farsi dimenticare, e i suoni non catturano, non conquistano. La voce pure c’è, o almeno ci prova, ma non riesce (nemmeno lei) a superare la china e a farsi trovare oltre un orizzonte che, dietro la bruma, s’indovina ancora lontano. Un disco che fa il suo senza risultare particolarmente geniale, che dimostra quel tanto di stoffa che può bastare per non risultare fastidioso, senza però quel valore aggiunto che gli farebbe superare con un salto la mera sufficienza.

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Malamadre – Malamadre

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Il progetto Malamadre giunge a coniugare note e matite: il trio abruzzese, infatti, muta gli undici episodi che compongono il disco in una webserie di fumetti musicali, coinvolgendo autori e disegnatori e sconvolgendo il concetto di semplice trama sonora. Un palmares ricco di riconoscimenti nonostante una vita artistica tutt’altro che longeva è il loro biglietto da visita. “Olio”, la prima traccia dell’album, consente alla band di vincere il premio come Miglior Voce al Red Bull Tour Music Fest, Miglior Voce a Streetambula Music Contest e il Pescara Rock Contest, consentendo ai Malamadre di aprire agli Afterhours nella loro data pescarese. Il brano ha un sound attinto dal Grunge, con aperture bucoliche create dal nulla dalla voce di Nicholas Di Valerio. “Chi non Muore si Risiede” prosegue su questa scia e al genere cantautoriale si somma il vigore di Soundgarden ed Alice in Chains. La ballata “Mammarò” e la successiva “Il Tango del Portiere” sono unite dall’invisibile collante della rassegnazione, con testi tristi che ci raccontano di vite al tramonto, senza cadere nella facile retorica. D’ora in avanti sarà tutto un batti e ribatti: a un pezzo simil Pearl Jam risponderà una parentesi con un approccio più bilanciato, spesso e volentieri con risvolti acustici. Racchiudere simili concetti e idee in undici brani mostra una spiccata autostima, nonostante sia ben contenuta, non scivolando mai nell’emulazione o nel plagio più becero, preservando una propria identità. Disco da ascoltare e riascoltare.

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June and the Well – Gudiya

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Seconda prova per i June and the Well, creatura sognante fatta di Rock emozionale, colori nineties e melodie carezzevoli. I quattro, capitanati da Luigi Selleri, già con i Suburban Noise, si lanciano in sei brani per quasi venticinque minuti di chitarre distorte ma morbide, batterie agili e un cantato (in inglese) dolce e dall’apparenza spensierata, nonostante il disco sia dedicato ad una bambina indiana vittima di violenza, di cui la title track porta il nome. Il lavoro ha il pregio della leggerezza: è un album breve e rilassato, che anche sulle batterie più appuntite si fa trovare liquido e scorrevole, anche sotto le chitarre più spesse fa affiorare una melodia trascinante, comoda, suadente (come esemplifica bene “S-low”, con un’apparizione di Matilde Davoli). Nostalgico, certo, ma non senza una rilassatezza di fondo che lo rende un ascolto piacevole e frizzante, per quanto disimpegnato. In più suona decisamente bene, che non è un male. Da ascoltare nelle domeniche di sole, malinconiche a tradimento.

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Lume – Lume

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L’esordio della band di Franz Valente (Il Teatro degli Orrori), Anna Carazzai (Love in Elevator) e Andrea Abbrescia è un frullato epilettico e nervoso di Rock graffiante e melodie giocose (“Bad Daughter”), distorsioni rumorose, batterie psicotiche e pianoforti infestanti (“Domino”), con il topping di voci agitate, esaltate, tensive, che qua e là si trasformano in filastrocche inquietanti (l’episodio breve “Sunlight”) o che altrove mescolano maschile e femminile in litanie che affogano nella polvere di un Noise ipertrofico (“Charge”).
Stupisce la libertà totale, incasinata, disordinata, dove si percepisce il divertimento truccato di inquietudine e nervosismo, l’esaltazione per l’afflato distruttivo e confusionario, il gusto per il dettaglio, che sia linea melodica o ritmica. Lume è potente e catartico, divertente, in alcuni anfratti anche ironico, da ascoltare ad alto volume con la faccia incazzata ma così, per ridere. Ed è anche cupo, oscuro, pesante nel pestare a testa bassa, nella follia umbratile, schizofrenica.
Mi fa immaginare un manicomio polveroso, abbandonato, dove ambientare un film horror di serie B, quei film che spaventano e fanno sorridere insieme. Ci danzano figure sfocate che si muovono in modo innaturale, che gridano e cantano e ballano e spaventano da lontano. Le ombre sporche degli angoli e la bianchezza dei denti, sfoderati in un sorriso tagliente oltre una finestra rotta.

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Gli Uffici di Oberdan – La Velocità degli Anni

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Power trio trevigiano che mastica Rock duro e residui Punk e risputa chitarre vibranti, bassi cordosi e batterie lineari e pestate, Gli Uffici di Oberdan condensano il loro esordio nelle cinque tracce di un EP sul tempo che scorre e sulle distanze che ci dividono, sull’indifferenza e sull’isolamento. La Velocità degli Anni ci presenta una band intensa, potente, che declama versi taglienti e semplici su un tappeto di distorsioni e ritmi quadrati e ossessivi, con una voce dalla pasta solida, graffiante. Un plauso dunque per la produzione, mentre le canzoni in sé, seppure non malvagie, non riescono a convincere del tutto. Sarà la mancanza di un’identità forte, l’appoggiarsi a stilemi già troppo consolidati, ma il disco nel suo complesso non sorprende, non “muove”. Colpa anche dei testi, che vorrebbero essere poetici e pungenti ma non ci riescono fino in fondo. Si osa poco, si rischia poco, si riesce a metà.

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À L’Aube Fluorescente – Taking My Youth

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Esordio liscio per À L’Aube Fluorescente, band abruzzese che parte in quarta con le nove tracce di questo Taking My Youth: batteria che spinge in zona Rock duro, tempi terzinati che sanno leggermente di metallo, chitarre suadenti e precise, oniriche, magiche, effettate con sapienza, che non sbagliano mai o quasi ( forse vero punto di forza di tutto il lavoro) e una voce limpida che sa trovare la strada giusta per rimanere incollata all’orecchio senza sembrare eccessivamente paracula. Tira un’aria buona nei dintorni, aria fresca e leggera che spesso manca al Rock italiano (si legga “fatto in Italia”, i nostri cantano in inglese). Taking My Youth è eseguito e prodotto con tutti i crismi, suona pulito e preciso ma non finto, non assemblato in una catena di montaggio, anzi: si sente che è un prodotto artigianale di ottima qualità, il che è di certo un bene (avercene). Anche la composizione è solida, matura: le strutture non annoiano, le scelte melodiche sono d’alto livello e alcuni accorgimenti (i suoni e gli arrangiamenti delle chitarre, come già si diceva, o i cori, ottimi) si meritano tutto il plauso possibile. C’è coraggio, competenza e ispirazione: proprio per questo mi manca, per stendergli definitivamente davanti un bel tappeto rosso verso le mie personali stanze degli innamoramenti musicali, quel pizzico in più di novità, di ricerca, di concetto, anche, se vogliamo, che me li distingua nettamente da una galassia di suoni, suggestioni, andamenti simili. Mi acchiappano le orecchie, e il piede mentre tengo il tempo ma a fine ascolto mi lasciano con meno di quello che mi sarei aspettato. L’esordio è liscio, si diceva, ma c’è ancora qualcosa da dimostrare.

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Verdena – Endkadenz Vol.1

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Endkadenz Vol.1 è il sesto album dei Verdena, band italiana che, nel tempo, ha saputo sorprendere per la sua capacità di rinnovarsi e sperimentare senza però venire meno alla propria identità. Il titolo, stando a quanto dichiarato in un’intervista per Rockit, è un termine coniato dal compositore tedesco Kagel che coniugava musica e teatro nell’esibizione, e rappresenta “un movimento ben preciso che determina la cadenza finale di un concerto”; Endkadenz è l’ultimo colpo di timpano durante il quale il timpanista aveva il “compito di rompere la pelle, di buttarsi dentro al tamburo e di rimanere lì immobile”. L’album, che viaggia in coppia con Endkadenz Vol.2 (in uscita nei prossimi mesi), è composto da 13 tracce (stesso numero del Vol. 1 di Wow). L’utilizzo del piano (“Nevischio”, “Vivere di Conseguenza”) riconduce al precedente album Wow, sebbene il piano a muro di Endkadenz suoni in maniera più calda, molto diversa dal suono elettronico del sopracitato album. La presenza di distorsioni rimanda invece ancora più indietro, a Requiem e al suo sound più duro dal sapore Grunge, ma anche a sonorità vagamente Shoegaze (“Inno del Perdersi”); scordatevi dunque le chitarre spagnoleggianti di “Razzi, Arpia, Inferno e Fiamme”, siamo ben lontani da quelle sonorità. Effetti di distorsione sono applicati anche alla voce, accompagnata a volte da cori finti percepiti come voci lontane (“Puzzle”, “Contro la Ragione”). Insieme alle chitarre distorte, grande protagonista resta sempre la sezione ritmica, che a tratti picchia in maniera compulsiva e autonoma, quasi a staccarsi completamente dalla linea melodica della voce (“Derek”), e che trova meno possibilità di esprimersi in termini di potenza rispetto al passato per via di pezzi dal ritmo più lento. Elemento del tutto nuovo è la presenza delle trombe (“Diluvio”, “Contro la Ragione”, “Sci Desertico”), anche se si tratta di suoni digitali e non di veri e propri fiati. Per quanto riguarda i testi, l’ ermetismo in stile Verdena viene quasi del tutto abbandonato per fare spazio a componimenti più strutturati, che a tratti perdono quelle caratteristiche di spigliatezza ed immediatezza per via della continua ricerca di rime e assonanze. Endkadenz segue la linea di Wow e rappresenta un altro passo in avanti verso nuove forme sonore, pur restando con lo sguardo rivolto verso Requiem ed album anteriori. Parafrasando le parole di un’amica, la vera chiave dell’evoluzione sta nel non accettarsi mai; è questo il motore che permette di rinnovare e superare sé stessi. Il rischio è quello di renderci irriconoscibili agli occhi di chi ci conosce o, in questo caso, ad un pubblico fedele ma a volte anche abitudinario. Non è il caso dei Verdena, che con un abile gioco di equilibri sono riusciti ancora una volta rinnovare la loro musica, pur rimanendo fedeli alla propria linea espressiva.

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Il Video della Settimana: I Giardini di Chernobyl – “Un Infinito Inverno”

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I Giardini di Chernobyl è una band Alternative Rock italiana che nasce nel Febbraio del 2014. La band è composta da Emanuele Caporaletti, voce e chitarra, Stefano Cascella al basso e Simone Raggetti alla batteria. Già dalle loro prime registrazioni suscitano un certo interesse nei professionisti del settore e decidono quindi di realizzare il loro primo album. Nel Luglio 2014 la band inizia le registrazioni con Giulio Ragno Favero (bassista e produttore de Il Teatro degli Orrori) preso il Lignum Studio, lo stesso dove Il Teatro degli Orrori e gli Afterhours hanno prodotto il brano “Dea” per il remake dell‘album Hai Paura del Buio. Nel Dicembre 2014, esce il loro primo singolo “Un Infinito Inverno”. Il debutto è accompagnato da un video realizzato da Stefano Bertelli (Seenfilm), regista di clip musicali per Marlene Kuntz, Caparezza e L’invasione degli Omini Verdi. A Marzo 2015 uscirà il loro primo album Cella Zero per Zeta Factory, etichetta già nota per avere al suo interno artisti come Klogr, Alteria, Kismet, Rezophonic, Disclose e tanti altri.

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Soldiers of a Wrong War – Slow

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Bassi incisivi, chitarre graffianti, drumming preciso più di un orologio svizzero e una voce con una pronuncia inglese invidiabile: queste in sintesi le qualità dei Soldiers of a Wrong War. Del resto è lo stesso quartetto (tutto made in Italy!) a dichiarare: “Viviamo, sanguiniamo e respiriamo per la musica: è qualcosa che va oltre le parole, le melodiee le note mescolate insieme, la musica è la nostra linfa vitale, la musica è dove noi prosperiamo!”. E come dar loro torto dopo aver ascoltato decine di volte in loop continuo l’ep Slow composto da (purtroppo) soli tre pezzi. Tre minuti circa per brano, appena dieci in totale di puro Rock alternativo. Tuttavia la qualità è davvero evidente ed il disco è la logica conseguenza di quel Lights & Karma che quasi quattro anni fa seppe entusiasmare i loro fans. La titletrack ha un sound determinato, tagliente, ma allo stesso tempo facilmente assimilabile da ogni vero amante dell’Alternative Rock con venature che talvolta ricordano i migliori U2 recenti e un po’ più spesso i Linkin Park. “Walls” è invece una ballad descritta dal gruppo come “una tempesta che ritrova l’abbraccio della luce per poi tramutarsi in un uragano”. Un vero e proprio uragano sonoro che ricorda i Lost Prophets e che fa da spartiacque con “Inside my Bones” che chiude con dignità questo Ep. Se qualche fan si era distaccato negli anni dal gruppo, ascoltando Slow sicuramente si riavvicinerà, ma di certo l’obiettivo dei Soldiers of a Wrong War sarà quello di conquistare anche nuovi adepti per la loro musica. E se ci sono riusciti con me che normalmente ascolto generi molto diversi, sono sicuro che potranno convincere facilmente anche voi. Del resto anche l’Ammonia Records ha già scommesso su di loro pubblicando questo Ep che certamente è una piccola gemma sonora di quest’anno che si sta per chiudere e che troverà il suo giusto mercato spingendosi anche oltre la nostra penisola.
Consigliatissimo a tutti i sostenitori di Afi e My Chemical Romance!

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Hot Complotto – Hot Complotto

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Gli Hot Complotto sono un power trio di Varese, che folgorati e fortemente ispirati dal movimento musicale e artistico chiamato Great Complotto, sviluppatosi a Pordenone sul finire degli anni 70, ha messo in piedi la propria particolare idea di musica. A Novembre hanno pubblicato, con l’obiettivo di unire in undici tracce le tante anime gruppo e i diversi caratteri dei suoi componenti, il loro omonimo album d’esordio Hot Complotto . La base di partenza è senza dubbio il Punk inglese, delle belle e salde radici, che si fanno sentire nelle ritmiche veloci e aggressive di brani come “Pezzi di Te” e “Non Voglio Niente” e che aleggiano con qualche leggera deriva Ska per quasi tutto l’album. Le incursioni di altri generi, però, sono sempre dietro l’angolo e come funghi dopo la pioggia spuntano qua e là, dal groove Funk e danzereccio di “Brutte Abitudini” al basso pieno di “Se”, fino alla romantica e intimistica ballad acustica “Neve”. C’è spazio anche per delle belle casse dritte e ben pestate alla maniera del più classico Alternative Rock di stampo inglese, che donano sempre la giusta dose di energia e carica. Gli Hot Complotto, al loro primo lavoro, non si sono di certo risparmiati e hanno messo tanta carne al fuoco, condita di altrettanta originalità. I mix tra ritmi e generi diversi , come tutti gli esperimenti a volte riescono bene e mostrano spunti molto interessanti, e a volte non convincono del tutto come in “Tecnofavole” in cui l’elettronica sminuisce anziché arricchire le potenzialità del brano. Detto questo, ai ragazzi sicuramente non mancano energia e passione che ben si sentono nei suoni carichi di forza e nell’impatto generale del disco, purtroppo però l’eccessivo mix tende a creare un po’ di smarrimento e rende molto frammentata la percezione e l’identità del gruppo. Considerato che stiamo parlando e ascoltando un disco d’esordio, bisogna premiare la volontà di proporre un progetto personale, nuovo, che ricerca soluzioni originali, e si spinge verso sperimentazioni giocose, anche se non sempre convincenti al 100%. Come si dice non tutte le ciambelle riesconocol buco, noi nel frattempo li aspetteremo, fiduciosi, al prossimo lavoro.

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The Fire – Bittersweet

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Cosa succede quando un musicista, preso da un irrefrenabile istinto creativo, esce dall’universo in cui si trova per entrare in un’altra dimensione che lo porta a comporre un pezzo, interpretare una cover, sperimentare nuove sonorità? E cosa succede quando il suo operato, figlio dell’istinto primordiale di fare musica, non si colloca apparentemente in un progetto preciso? I The Fire si sono posti l’interrogativo, e si sono dati una risposta con Bittersweet, un EP uscito per Ammonia Records, che raccoglie appunto tutti quei pezzi che rappresentano degli esperimenti sonori, non inseribili in nessun LP in quanto non attinenti al percorso sonoro in esso contenuto e che addietro sarebbero andate a costituire la B-side di un vinile. Il dubbio che subito mi assale è: non avrebbe forse senso dare anche ad un EP un’organizzazione più organica, secondo un percorso sonoro ben definito? Ma i The Fire sembrano essere consapevoli e responsabili del modo in cui stanno gestendo la faccenda, e così Bittersweet raccoglie volutamente cover nate per altri progetti, pezzi nati a seguito dell’evoluzione di riff adottati per il soundcheck, canzoni che provengono da situazioni diverse e momenti della vita distinti, tutte racchiuse in un unico lavoro che ne consente l’ascolto ed evita che possano perdersi nell’oblio. E così troviamo “Bittersweet” dal sound duro accentuato dalla voce piena di carattere di Olly Riva, seguito da una cover di “Roxanne” dei Police in chiave decisamente più rockeggiante dell’originale; a seguire “She’s The One” e la ballata “Lonely Hearts”. Per finire le due cover “Dr Rock” dei Motörhead e “Train In Vain” dei The Clash, quest’ultima interpretata per sola voce e chitarra con percussioni minimaliste. Nel complesso si tratta di un buon lavoro, buona produzione e arrangiamenti, anche se il tutto è privo di quel guizzo artistico capace di renderlo particolare.

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