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Nadàr Solo – Fame

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I Nadàr Solo sono tre giovani musicisti di Torino, città caratterizzata da un underground musicale vivace e fervido, sostenuto da un discreto numero di locali e realtà pubbliche e private, oltre che da un pubblico di giovani curiosi, studenti, appassionati. Una bella scena. E il terzetto non è di certo di primo pelo. Han ormai anni di carriera alle spalle, costellate di esibizioni, recensioni e collaborazioni di un certo pregio nel panorama musicale nostrano, come quella con Pierpaolo Capovilla. Non stupisce quindi di far partire Fame e trovarsi davanti a un disco ben fatto, ben registrato e ben prodotto. Naturalmente a una band non basta una buona confezione e una buona reputazione. “La Vita Funziona da Sé” ha quell’alone di precariato e instabilità tanto caro all’Alternative nostrano. I tempi sono quelli, in fondo, e non ci si può certo inventare una realtà diversa. Il cantato di Matteo De Simone è in rima, espediente che usa spesso nel corso del disco per la costruzione delle liriche, come anche nella successiva “Non Volevo”, dal tenore ben più scanzonato e canzonatorio. Dall’Alternative Rock arriviamo al Cantautorato con “Cara Madre”, che cede il passo a “Jack lo Stupratore” con le sue sonorità Post Punk anni 2000, pulite pur nella distorsione, le chitarre di contrappunto, ben utilizzate e la voce che sottolinea il sarcasmo su cui è costruito il violentissimo testo. Il ritornello è ridotto a una sola frase reiterata densa di significato ma risulta quasi svuotato dalla sua funzione mnemonica, perché sempre diversa. I testi dei Nadàr Solo sono articolati: lessico altisonante alla Marlene Kuntz e costruzione della frase in stile Il Teatro degli Orrori.

“La Gente Muore”, ha un incalzante andamento in levare scandito dall’intrecciarsi melodico delle chitarre sulla sezione ritmica, mentre colpisce il riff iniziale di “Piano Piano Piano”. Spesso i testi del trio non sono immediatamente intellegibili: i Nadàr Solo sembrano voler dire troppe cose, che non possono comprimersi nello spazio di un verso. Il risultato è un cantato con una scansione sillabica rigida e velocissima, poco ariosa e che non si concede mai un virtuosismo. E stupisce, da astigiana quale io sono, sentire un torinese descrivere la “Ricca Provincia” con tanta amarezza e tanto realismo: una riflessione lucida sulle piccole realtà cittadine, stereotipate e ancorate ai propri stereotipi per definizione stessa, condizioni e modi di fare d’uso, cristallizzati nel tempo e immutabili. Musicalmente ben costruita è “Akai”: sempre in tensione, come in un climax continuo che non trova mai risoluzione, se non forse, per continuità, nella seguente “Splendida Idea”. Davvero pregevole è “Shhh”, un crogiolo di stilemi Indie padroneggiati alla perfezione, in un risultato che richiama quasi gli ultimi Arctic Monkeys – che non saranno al top della forma, ma sono pur sempre gli Arctic Monkeys.

Il disco chiude in sordina, con le sonorità acustiche e Pop di “Non Sei Libero”. Fame val bene un ascolto. Non è il disco della vita e non piazza i Nadàr Solo in nessun qualsivoglia Olimpo musicale. Ma rende indubbiamente giustizia a tre bravi strumentisti, capace di cogliere il mood quotidiano di una gioventù precaria e instabile, in una realtà a volte stantia, a volte distorta, a volte violenta. Se vi capita, concedetegli mezz’ora del vostro tempo.

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Plus Plus – Psycho

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Decisamente non artisti di primo pelo questi Plus Plus, che con Psycho giungono al terzo disco dopo Evils del 2010 e Game Over del 2011. Nella loro biografia si legge che hanno origini inglesi ma che attualmente risiedono in Giappone. E certo è che la loro ultima fatica risente di un certo sapore internazionale, declinato lungo tutte le otto tracce interamente strumentali. Il disco, tutto sommato di durata contenuta, si apre con “This is Based Upon a True Story”, raffinata e solare, dettaglio che contrasta subito con la mia aspettativa, del resto assolutamente ingiustificata, di toni sommessi e atmosfere cupe. La sensazione prosegue con “Jail”, un richiamo all’Alternative Rock romanticone stile Coldplay, etereo e impalpabile, nel quale forse solo la reiterazione di una brevissima cellula melodica dà l’impressione di essere imprigionati. “Piano Song”, vuoi per il nome, è vagamente debussyniana. Ma non solo. Impossibile non ricordarsi subito del leggero tocco Pop pianistico di Yann Tiersen, ad esempio. Le sonorità cambiano leggermente, pur restando acustiche, nella successiva “Dieter Rams”, introdotta dalle corde pizzicate, incaricate di marcare il ritmo e definire la condotta armonica, ricreando un tappeto sonoro adatto ad ospitare, nuovamente, il timbro del pianoforte. Atmosfere visionarie, suggestioni più lisergiche che psicotiche, come vorrebbe invece suggerire il titolo, caratterizzano la traccia che dà anche il nome all’album, “Psycho”: espedienti strumentali che sembrano essere impiegati come musica colta descrittiva, finendo con pochi mezzi esaurienti, per costruire una perfetta scena sonora notturna.

E con la traccia numero sei, “Gentle Man”, la più lunga di tutto il disco, con i suoi cinque minuti e più, capiamo di essere davvero di fronte a fortunati e talentuosi eredi di artisti come Mogwai o Explosion in the Sky. “Plantopia”, a dispetto del nome, ha un non so che di marino: le sonorità sono ovattate e dilatate allo stremo, il tempo si congela in un vuoto capace di circondare e avvolgere l’ascoltatore, esattamente come ritrovarsi immersi nell’acqua circondati dal nulla, eppure sfiorati da tutto. Psycho chiude con “The Rolling Hills of England”, che forse è un richiamo alla terra natia, al passato epico e glorioso e dignitoso dell’Inghilterra che il titolo cita, come si percepisce dai movimenti melodici medievaleggianti che puntellano l’intero brano. Nel complesso è un album davvero ben fatto e che vale la pena ascoltare. Consigliatissimo.

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Bud Spencer Blues Explosion – BSB3

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Tornano i Bud Spencer Blues Explosion, sono sempre in due ma suonano come dieci. Il duo romano formato da Adriano Viterbini (voce e chitarra) e Cesare Petulicchio (batteria) giunge al terzo lavoro discografico con energia da vendere, energia che è poi il fulcro del percorso di questa band, insieme alla passione per il virtuosismo mai fine a sé stesso. Registrato in presa diretta con rare sovraincisioni, BSB3 è un disco dove si tenta di fissare l’impatto live del duo, con risultati notevoli. Certo, vederli dal vivo rimane la dimensione ideale per apprezzare il lavoro dei BSBE, ma su disco si ha il tempo e la concentrazione per seguirne le evoluzioni, che procedono per scarti ridotti tra la semplicità della linea, affusolata e asciutta, degli arrangiamenti e della parsimonia di elementi, fino ai ghirigori di chitarre e distorsioni, tra Blues (vero nume tutelare) e Grunge, tra spazi Garage e sporcizia Punk. Un disco da ascoltare senza dubbio a volume altissimo, che magari non regalerà la mappa per trovare il futuro della musica, ma che certo sa spingere sull’acceleratore quanto basta per lanciarci a tutta velocità in un’avventura sonora che sa divertire ed esaltare (l’apripista “Duel”), senza per questo lasciarci galleggiare nello stagno del prevedibile (“Croce”), sapendo anche rallentare all’occorrenza (“Troppo Tardi”). Da godersi senza intellettualismi inutili.

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Camera D’Ascolto – Figli della Crisi… di Nervi

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Dalle ceneri del progetto Never Rock Out nascono i Camera d’Ascolto, quartetto milanese pieno di energia e tante idee. Il nome, così come la copertina del disco, è ispirato alle opere del pittore surrealista Magritte. Se la copertina, che propone una versione vagamente Grunge de la Grande Guerra, non è particolarmente attraente, la scelta del nome è sicuramente più calzante. La camera d’ascolto è infatti, maccheronicamente parlando, il tentativo dell’autore di rendere visibile il suono, o meglio la sua capacità di propagarsi e riempire lo spazio.

Un quadro che chiama in causa il senso dell’udito è una bella sfida e Figli della Crisi…di Nervi è per certi versi un album con parecchie sfide, sperimentazioni e sagaci citazioni a partire da “Orfeo nell’Ade” , dove il mito va in scena attraverso testi ricercati e suoni ben strutturati e incisivi. Passando per il “Matto dell’Imbecille”, che oltre ad essere lo scacco matto più veloce possibile, è un brano ben concepito con il violino che dona carattere e personalità. Senza tralasciare la vivace “Charlie Brown (Operalnero)” con cambi ritmo al limite dell’azzardo. Gli ingredienti, insomma, ci sono tutti e il risultato sono dieci brani giovani e dinamici che spaziano dalle sonorità Punk e Grunge e le distorsioni di “Placebo”, al tormentone spedito e ritmato, che strizza l’occhio ai Green Day e che ti si attacca facilmente all’orecchio “Dieci Minuti (Sotto la Pioggia)”, senza disdegnare la parte melodica e struggente con le ballad “Sofia Scaraltta” e “Laguna”, che mostrano anche delle buone capacità compositive. Se ci aggiungiamo una discreta dose di ironia nei testi e quel giusto pizzico di critica che il Punk richiede, possiamo quasi promuovere il gruppo e augurargli di crescere, perché si sa, la gavetta è lunga ma se la si affronta ben forniti è meglio. Nota di merito per la violinista, senza la quale molti brani non avrebbero lo stesso piglio e esplosività.

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Ludwig Van Bologna – L’Arte della Fuga

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Si sono scelti un nome altisonante i Ludwig Van Bologna, che richiama subito la musica classica -complice anche il titolo bachiano- ma anche la malattia distruttiva di Arancia Meccanica con le sue ambientazioni Pop e dettagli Glam. E questa macedonia ideologica si ritrova anche nei brani che compongono il disco: “Gino Paoli” apre con sonorità Indie alla Best Coast, per poi finire in un arabesque di linee melodiche dissonanti. “La Tosse”, invece, è tutta tarantiniana, retta da una linea di basso calda e ripetitiva. Con “Signori Signore” si cambia completamente registro, con un’apertura a filastrocca scandita dal declamato vocale sillabico e stacchi ritmici condotti dalla chitarra. Fin qui mettono sicuramente una certa curiosità, anche se bisogna ammettere che i nostri non stanno dicendo niente. Si nota, nei testi, una certa autoreferenzialità (sul ruolo del musicista, sul comporre canzoni, su partecipare a concorsi), ma la cosa si esaurisce subito e il cervello e il corpo di chi ascolta spostano la loro attenzione esclusivamente sulla componente musicale. “Niente” ricorda i Marlene Kuntz dei bei tempi che furono, il che è sicuramente un gran complimento: chitarre distorte e dissonanti avanti e voce relegata sullo sfondo caratterizzano anche la successiva “Solo Andata”, forse il brano più introspettivo di tutti nonostante, anche in questo caso, i testi non colpiscono se non per l’intellettualoide impiego lessicale, altro gran richiamo a Godano e soci. Il dialogo tra glockenspiel e basso che regge la traccia successiva, “Idee Balorde”, su cui, in crescendo si insinua un larsen rumoroso, dà prova della bravura strumentale dei Ludwig Van Bologna. Manca forse un po’ di spessore nel messaggio testuale o un po’ di convinzione nell’esprimerlo, ma questi ragazzi sono sicuramente buoni musicisti. Lo dimostra anche la sterzata alla Plastic Passion dei Cure che caratterizza l’intro della successiva “Happy Dee Dee”, a condire ulteriormente questa macedonia di ispirazioni Noise, sonorità fredde, parolone difficili alla CSI. “Parole Cose” è il climax di questo mèlange musicale: Pop, Funky, Surf, sfumature Punk trovano spazio in un’unica traccia che si spegne, letteralmente, in “Axolotl”, per pianoforte – con un trattamento ben più moderno di quello che avrebbe fatto Beethoven del suo strumento, più malinconico ancora se possibile, più cinematografico, alla Yann Tiersen – e voce, sillabica, monotona, greve.

Non è un disco imbecille. Non è un disco che si ascolta una sola volta e si cestina a cuor leggero. Al contrario è un disco che si sente più volte alla ricerca dei numerosi pregi. Per poi tirare le somme, però, e passare ad altro.

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Codeina – Allghoi Khorhoi

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L’ultima fatica dei Codeina è Allghoi Khorhoi registrato e mixato da Fabio Intraina al Trai Studio di Inzago (MI). L’Allghoi Khorhoi è  un verme rosso brillante leggendario, che sputa acido, emette scariche elettriche ed è in grado di uccidere un uomo. Più che gli Afterhours sembrano i Verdena dei primi dischi già nell’ascolto di “22 Dicembre”, il singolo di lancio dell’album. Si sgola Mattia Galimberti (“non sei uguale a me”) probabilmente contro la massa, intenta, sotto le feste, a fare regali o a scoppiare botti: “Anche se sei bello ricco e intelligente sappi che sei merda”. Si sentono i Germi degli After nel DNA dei Codeina e la voglia di scatarrare sui giovani d’oggi. Il “Male di Miele”, la melodia e il rumore ritmico controllato di Emanuele Delfanti al basso e Alessandro Cassarà alla batteria. Il sound attufato, per scelta, trova finalmente un po’ d’aria in “Cascando”, canzone intima, sull’ansia di essere amati o no e si fa notare anche qualche similitudine con il Teatro degli Orrori. Sembrano un “Carrarmatorock” in “L’Appeso” ma con le voci più lontane rispetto a quella di Pierpaolo Capovilla mentre mi ricorda “Dea” degli After, il brano “Crepa”. È un derivato dell’oppio la Codeina e non è proprio la musica giusta da ascoltare in estate.

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Limes – Slowflash

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Confini bagnati dalla pioggia, esce in autunno il primo disco ufficiale dei Limes. Sono perfetti se avete voglia di piangere, se il vostro cuore dice una cosa ma le vostre intenzioni sono bruscamente condizionate dalla stancante normalità. Slowflash entra duramente a gamba tesa sui sentimenti, Alternative Rock dagli intenti poco italiani, certamente una botta da lasciare penetrare nello stomaco, mischiate rabbia e amore, adesso potete iniziare a capire le vere intenzioni dei Limes. Intro strumentale, poi “Hunting Party” diventa subito una grande hit, sentori di Indie dei primissimi anni zero, ritornello da pelle d’oca, i peli si rizzano sulle braccia, il resto conta veramente poco. Autunno caratterizzato dalle melanconiche foglie che cadono dagli alberi, dei nuovi propositi musicali, questo disco registrato da Abba Zabba presso il Palo Alto Studio di Trieste uscirà il prossimo trenta Settembre portandosi dietro parecchie attenzioni. Scariche di potenza in “Pressure Variation”, un dolce piano spezzato da una forsennata batteria, la voce mantiene sempre la propria importanza anche quando i pezzi sembrano avere tutto il gusto della classica ballatona romantica (“The Fall”). Pian piano riesco a percepire una saporosità internazionale piuttosto accentuata, sembrerebbe quasi di ascoltare una navigata band mondiale. E navigata vuole essere un complimento, un grande complimento.

Un esordio del genere potrebbe segnare l’inizio di una grande avventura artistica, il blocco vergine dal quale iniziare a scolpire una grande carriera, difficilmente risulteranno apatici e scontati in futuro. Lo stomaco inizia a divorare farfalle durante l’ascolto di “Path of Mind”, struggente Post Rock arricchito da una vena decisamente Popular e piacevole, inconfondibile immediatezza dei brani proposti. Poi piccole perle Alt Rock continuano a darsi il cambio fino alla fine del disco, tutto sembra essere buttato giù con estrema semplicità, niente di artefatto, la sperimentazione gli appartiene poco, ai Limes piace tirare dritti fino alla fine senza complicarsi la vita. La semplicità risulta essere l’arma vincente, il colpo sferrato nel giusto momento, anche quando il patos sale in puro stile Dawson’s Creek (White), avete presente i finali di puntata? Quelli dove si rimaneva sempre con il cuore in subbuglio ed un sottofondo Romantic Rock si sposava perfettamente alla scena? Bene, non abbiate paura di sentirvi obbligatoriamente dei rockettoni duri e cattivi, lasciatevi trasportare dalla vostra coscienza, apprezzate Slowflash senza riserva. I Limes potrebbero tranquillamente recitare nel mainstream la parte degli indipendenti. Questo lavoro suona bene, un esordio discografico da tenere in seria considerazione, nessuno oserà mai dire il contrario.

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Aa. Vv. – Happy Birthday Grace!

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Ci sono album e musicisti che la bravura e il destino hanno reso immortali, imprimendoli nella memoria e nell’immaginario di molti. Jeff Buckley è sicuramente uno di loro, una vera meteora che ha illuminato per troppo poco la scena musicale mondiale, ma che ha saputo in così breve tempo lasciare un’impronta indelebile nella storia del Rock. Nell’agosto del 1994 usciva il suo capolavoro, Grace; vent’anni dopo, lo studio di registrazione QB Music di Milano, pubblica in free download una compilation che ne celebra il ricordo. Parlare di semplice tributo non è corretto perché il lavoro di reinterpretazione e omaggio alle dieci tracce che compongono Grace va aldilà della semplice “coverizzazione” dei brani. Gli artisti presenti hanno saputo, grazie alle sapienti mani dello studio, creare qualcosa di veramente nuovo e non scontato, basando il lavoro su una forte ricerca dei suoni e degli arrangiamenti, portando le melodie di Grace negli anni 2000 attraverso la New Wave, il Funk, l’Elettro Pop e le sperimentazioni musicali. Capita spesso che le reinterpretazioni e i tributi, nella ricerca dell’omaggio perfetto a tutti i costi, inciampino nella miope rete dell’emulazione e finiscano per essere solo delle brutte versioni dell’originale. QB Music e gli artisti coinvolti sono riusciti invece a trovare il giusto equilibrio e mix  tra la versione originale e le diverse personalità degli interpreti che si susseguono, offrendo un punto di vista differente e tratti irriverente e un po’ impudente. Così ci si ritrova ad ascoltare “Mojo Pin” in versione New Spleen Wave, dove la carica interpretativa di Buckley viene resa materiale dai synth effettati degli Starcontrol; una veloce e ritmata “Grace” “groovizzata” grazie alla sorprendente voce ed energia di Naima Faraò dei The Black Beat Movement.

Tra le dieci tracce ce ne sono due che si contraddistinguono per intensità e sperimentazione, anche se lo fanno muovendosi su territori ben distinti e sono la scura “So Real” in cui i Two Fates, attraverso un tappeto di suoni sintetici, attualizzano il senso claustrofobico e di angoscia affidati a basso e batteria  nell’originale, e “Corpus Christi Carol“ solenne e celestiale che si trasforma in terrena e quasi tribale grazie alla ritmica dei piatti e dei tamburi dello Zenergy Trio. Due interpretazioni altrettanto interessanti e ricche di emozioni sono quella di “Lilac Wine” che diviene un blues scarno e graffiante con la sensibilità di Sergio Arturo Calonero, e dell’immortale “Hallelujah”, uno dei compiti più ardui, che gli Io?Drama superano brillantemente grazie alle grandi capacità vocali di Fabrizio Pollio e al violino di Vito Gatto. Happy Birthday Grace! È un lavoro curato,  bello da ascoltare, cha valorizza gli artisti che vi hanno partecipato e rende omaggio alla grande musica e alle capacità interpretative di Jeff Buckley con altrettanta qualità, sempre con la giusta consapevolezza del confine tra imitazione e tributo.

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Montecarlo Fire – Come il Giorno e la Notte

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I romani Montecarlo Fire dopo una lunga gavetta durata dieci anni piena di live, colonne sonore per campagne di marketing, partecipazione a manifestazioni e festival, si presentano al pubblico con il loro primo lavoro finito, un album composto di dieci brani e intitolato Come il Giorno e la Notte. L’impressione generale ascoltandolo è di un album uscito in ritardo e rimasto forse per troppo tempo nella mente e nelle corde del gruppo. Fortemente legato alla musica italiana tra gli anni 80 e 90, come quella dei Litfiba ai tempi di Desaparecido, il sound di molti pezzi, come “Cerca”, “Il Buio” e “Nicole” risulta un po’ datato, nonostante la presenza di sporcature di chitarra e richiami più moderni. Riverberi, delay, tastiera sintetizzata e voce effettata sono le basi fondamentali che danno la direzione nella maggior parte dei pezzi, dalla classica ballad “Prendimi” alla più straniante “Lei”, mostrando una forte attitudine New Wave, corollata da atmosfere cupe e testi che raccontato le vicende di una generazione al confronto con una realtà precaria e frammentata, in perenne balia e prigionia di un’adolescenza senza fine. La band capitolina che può vantare un frontman e cantante, Albert Laspina, di madrelingua inglese e dalla voce piena e avvolgente, propone un mix di brani nelle due lingue, ed infatti è proprio nei pezzi in inglese come “Snow” e “Taste of Hate” che il gruppo e il cantato sono più convincenti e interessanti; l’uso meno preponderante e più oculato dei delay e del synth li avvicina a gruppi come White Lies e King of Leon. Come il Giorno e la Notte dei Montecarlo Fire è nel complesso un album suonato da professionisti e prodotto altrettanto bene, ma è un lavoro che ha lo sguardo rivolto verso il passato, legato a triplo filo all’esperienza della band e celebrativo di tanto lavoro, cosa che lo porta a suonare datato, quasi privo di slanci e sperimentazioni. Speriamo le capacità del gruppo riescano a trovare per il futuro nuova linfa e un maggiore sguardo in avanti.

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Push Button Gently – Uru

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Ecco a voi un EP che non ha, sulla carta, le caratteristiche di un EP: i brani contenuti sono piuttosto numerosi (nove), tenendo conto che alcune canzoni hanno però una brevissima durata, tant’è che un paio non arrivano neanche al minuto. Di certo però l’ascolto di Uru assicura un’accattivante varietà stilistica e un’affascinante voglia di evadere dai soliti schemi, tramite la sperimentazione e l’improvvisazione. Se non fosse chiaro dalla copertina, da collante ad ogni episodio del disco risalta, in controluce, un concept che pare prendere spunto dal film 2001: Odissea nello Spazio del geniale Stanley Kubrick (l’intro spaziale ci manda in orbita verso chissà quale pianeta alieno). “Tarpit Cock & The Bazoukie Returns” prima vera traccia di questo lavoro unisce l’appeal travolgente dei The Wombats all’energia dei Meganoidi, ma con una vena Indie personale e distinguibile dalla musica nostrana odierna. La seguente “Turnaround” si può definire come: Cornershop (quelli del tormentone “Brimful Of Asha”) meets Nirvana. Un incontro/scontro che è tutto un programma. “Kinnonai” ha un destino strambo, illusorio. Parte veloce, poi però il guidatore, colto forse da un colpo di sonno, toglie il piede dall’acceleratore e trasforma una bella composizione Grunge in uno Space Rock snervante e banalotto. Altri “padrini” del sound dei Push Button Gently sono i Weezer che rispondono all’appello sia in “You Are You” che in “Disappearing”, canzoni a cui si frappone l’ennesimo interludio stellare (“Somersaults in 10G”). Si ritorna, infine, sulla Terra con “Houston We Have Weirdness”, rimettendo a posto le tute pressurizzate in attesa del prossimo viaggio intergalattico. Se Uru EP non vi è dispiaciuto, immagino farete ancora parte dell’equipaggio.

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Morrissey – World Peace Is None of Your Business (Deluxe edition)

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World Peace Is None of Your Business è il decimo  attesissimo album solista di Morrissey che mancava dalle scene dal suo Years of Refusal di cinque anni fa. In Inghilterra infatti è un evento di primordine, celebrato da tutti i magazine di settore tanto che l’ultimo numero di Musicweek, per l’occasione, è stato rinominato Morrisseyweek. L’album è stato anticipato da una campagna di quattro video su Youtube in cui lo stesso artista, vestito in completo elegante delle occasioni importanti,  presenta altrettante tracce (la title track, “Instanbul”, “Earth Is the Loneliest Planet”, “The Bullfighter Dies”) in spoken word, una scelta non casuale per rimarcare la centralità dei testi e dei messaggi contenuti in questo disco. Si ritrovano infatti i temi che rendono Morrissey, oltre che una delle rockstar più influenti della storia della musica, anche un’icona delle battaglie dei diritti civili e dei diritti degli animali. “The Bullfighter Dies”, come potete ben immaginare dal titolo, ė una sadica filastrocca anti-taurina che va ad aggiungersi alla lunga lista di canzoni animaliste composte sia da solista che con The Smiths. Invece “Neal Cassady Drops Dead”, oltre ad essere un omaggio alla Beat Generation, affronta in maniera più velata la tematica della libertà sessuale.

Nell’album si nota una dicotomia tra pezzi aggressivi che trattano di attualità e di critica socio politica (di cui fanno parte i due pezzi appena citati) ed altri pezzi che sono molto più intimi, oscuri, a tratti decadenti. In questi ultimi l’aspetto compositivo è molto più curato e si nota il pregevole lavoro del produttore Joe Chiccarelli (The Strokes, U2, Beck) nonché l’affiatamento con i suoi fidati storici membri della band Boz Boorer e Alain Whyte. L’album è uscito in due formati, Standard Version con dodici pezzi e Deluxe Version con sei tracce bonus. Sicuramente quest’ultima è la migliore e da un senso di compiutezza che l’altra versione non ha, quasi fosse troncata di netto. Molto probabilmente ci sono dei motivi puramente commerciali e hanno cercato di rendere fruibile il disco ad un pubblico più vasto (e più pigro, abituato a prodotti brevi e di facile consumo) al di fuori della consolidata, venerante schiera di fans. Canzoni intense come “Scandinavia” o “Art-Hounds” (track tredici e diciotto) non possono essere lasciate assolutamente fuori da un album così vitale e onesto. Morrissey in World Peace Is None of Your Business riesce con una facilità disarmante a riproporsi senza cadere nel già sentito, senza stravolgere il proprio stile né tentando stravaganti sperimentazioni, ma con una onestà intellettuale che solo pochi artisti hanno. Mi godo questo album, e attendo il prossimo. Lunga vita a Moz!

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Aa. Vv. – Son of a Gun A Tribute to Kurt Cobain

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Il cinque aprile di venti anni fa muore, apparentemente sparandosi una fucilata alla testa, quello che è innegabilmente uno tra i personaggi più importanti, influenti, sfrontati e idolatrati che la storia del Rock ricordi, uno di quei loser (al fianco di Ian Curtis, Elliott Smith e pochi altri) capaci di affascinare intere generazioni per decenni e anche oltre. Per l’occasione, Big Red Agency e RuSsU (Totale Apatia) in collaborazione con La Città della Musica e Rock House, hanno promosso questa raccolta di cover, reinterpretate da band e musicisti lombardi, per ringraziare Kurt per quello che ci ha consegnato. Tutto fantastico, in apparenza, ma poi ci tocca stendere una recensione di questo lavoro, cercando di tirare fuori tutto il cinismo possibile trattandosi di rievocare un personaggio a noi tanto caro e scomparso in circostanze così atroci. Come si può discorrere in modo ostile di un tributo a un’artista come Kurt Cobain? Infatti, non è quello che farò, perché la scelta di mettere insieme questi diciannove riarrangiamenti da parte di Big Red Agency e gli altri è totalmente comprensibile, gradito e, la quasi generale assenza di desiderio di speculazione mi spinge ad accettare con ancor più appagamento questa pura voglia di ricordare e omaggiare attraverso le note dei Nirvana.

Come abbiamo accennato, però, l’album è fatto non solo di parole dei Nirvana, ma di canzoni della grande band di Aberdeen rivisitate da nostrane formazioni lombarde, non tutte in grado di rileggere con sensibilità nuova quei brani, mantenendone inalterata l’intensità emotiva. La scelta condivisa dalla maggior parte delle band è di non stravolgere eccessivamente lo stile originale, forse mostrandosi saggi o spaventati dagli ovvi paragoni, e quindi, per lo più, la tendenza è sottolineare chi l’aspetto Punk (Andead), chi quello Rock (Mad Penguins, Marydolls, Str8t), chi quello Alternative (Cronofobia, Nessuno, Pay) e chi quello Lo Fi (Il Re Tarantola) della band regina assoluta del Grunge. Diverse le formazioni che provano ad aggiornare con raffinata adeguatezza al presente le note di Cobain, alcune riuscendoci in pieno e altre meno ma comunque palesando una buona dose di coraggio che non deve essere trascurata. Discrete le scelte di Hey! Amber, Incomprensibile Fc mentre ottima è la selezione del brano da parte dei 36 Stanze che offrono una versione Crossover di “Tourette’s”, cosi come non dispiacciono l’intima rivisitazione di “Rape Me” di RuSsU e “Serve the Servants” in chiave Rock’n Roll dei Seddy Mellory. Passando al peggio ascoltato nella compilation, dispiace dover citare le due brutte trasposizioni Rock scialbissimo e Hard Rock dei Deizy e dei Blackline e disturba addirittura lo stile e la timbrica irriverente, in senso cattivo, dei Malena cosi come la “Sliver” dei Totale Apatia che quasi annienta la potenza intrinseca del brano originale. Per fortuna ci pensano prima i Korova Milk Bar con una splendida “Drain You” a risollevare il livello e poi i Matmata con “Dumb”.

Un lavoro senza troppe ambizioni che non ci regala molte positive chiavi di lettura, ma quantomeno pone l’accento su una grande formazione a tratti troppo bistrattata ma che invece ha saputo fare della semplicità e del minimalismo rabbioso una forza capace di resistere al tempo. Un lavoro che aiuterà i più distratti a ricordare di un perdente che il tempo ci ha insegnato a riconoscere come un grande uomo oltre che un immenso artista.

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