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Vostok – Vostok

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Si può dire tutto dei livornesi Vostok ma non che brillino per unicità. Basta infatti digitare il loro nome su un qualsiasi motore di ricerca per trovare almeno cinque omonimi sparsi tra Russia, Inghilterra, America e addirittura Italia (un duo pugliese di cui abbiamo recensito l’album di debutto Lo Spazio Dell’Assenza più o meno un anno fa). Leggendo nella loro biografia che questi Vostok nascono dalla voglia del chitarrista e del batterista di dar vita a qualcosa di nuovo, mi sento rincuorato e affronto l’ascolto con un piglio fiducioso. Vane speranze che si dissolvono al cospetto del riff iniziale di “Solo un’Ora” piuttosto simile a “School” dei Nirvana. Comunque intravedo del buono, nascosto, nemmeno troppo bene, sotto pelle. Queste buone sensazioni sono tutte espresse nelle prime cinque canzoni, dove il valore aggiunto è l’ispirazione, figlia non solo della band-icona di Kurt Cobain, ma anche dei Seaweed (pargoli dimenticati ingiustamente della corrente Grunge) e dei più rinomati Queens Of The Stone Age. Un po’ come se Seattle rivivesse vent’anni dopo in Toscana. E poi mi perdoneranno se l’attacco di “Sui Tuoi Passi” mi ricorda simpaticamente “Teenage Lobotomy” dei Ramones, anche se poi il brano si sviluppa in modo totalmente differente. Il Rock ‘N’ Roll del singolo “Baudelaire”, la perfetta armonia tra suoni acustici ed elettrici di “Eva” e la vena poetica de “La Sindrome di Danuz” (sei come neve che il sole on teme, versi semplici eppure di forte impatto) ci prendono per mano e ci conducono alla fine della prima parte del disco.

Se si concludesse qui e fosse un EP sarebbe da 7 pieno. Purtroppo non è così e le altre cinque tracce sono più deboli, mancano di coraggio e finiscono per darsi la zappa sui piedi, facendo abbassare il voto complessivo. L’esordio dei Vostok ci mostra un progetto che sa di work in progress, colmo di cose interessanti e dell’impegno per realizzarle al meglio. Magari se le idee non fossero così appannate si andrebbe ben oltre la sufficienza. Alla prossima puntata.

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Dropeners – In the Middle

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Lo ammetto, sono partito con il piede sbagliato. Lo ammetto, mi aspettavo altro. Lo ammetto, sono senza parole. Lo ammetto: i Dropeners hanno letteralmente vinto!

I Dropeners nascono nel lontano 2008 e, dopo aver accumulato un incredibile quantitativo di esperienze (soprattutto estere), tirano fuori il lavoro di cui sto per dire: In the Middle. Il disco d’esordio si fa vivo nel 2009, sotto il titolo di Drops of Memories e fra questo ed il capitolo oggetto di discussione, s’intermezza un EP risalente a ben quattro anni fa: Silent Sound (EP). Si sono fatti parecchio attendere a quanto pare, ma il motivo lo scoviamo in breve ed è nascosto dietro ognuna delle dieci tracce che formano il loro secondo disco. Il sound, complice dell’inglese adottato in ogni parte del lavoro, lascia fraintendere l’interlocutore medio e fa sì che si attribuiscano i meriti dell’opera ad esperte menti anglosassoni. Ma qui siamo innanzi a tutta roba made in Italy: vengono da Ferrara, sono autoprodotti e non hanno nulla da invidiare al meglio delle band internazionali. You won’t get a second chance to make an extraordinary firts impression, diceva qualcuno e i Dropeners dimostrano di saperlo bene, curando l’aspetto di In the Middle in ogni minimo particolare. Il packaging è leggerissimo, minimale ma efficace (ammetto anche questo: ho un debole per il packaging). La copertina lascia intendere un egregio lavoro introspettivo, confermato ottimamente dal contenuto del disco, attraverso una musica penetrante, grazie ad un New Wave ben articolato ed a sonorità molto lente e buie. Lo confermano i Dropeners stessi in “Western Dream”, che fa da titoli di coda al film surreale che i registi ci propongono: in the middle of western dream, there’s a light that comes from the east, recitano per tutta la durata della traccia. Il theremin in questo capitolo gioca un ruolo essenziale, evidentemente. Penetrante. Ossessivo. Possessivo. Ipnotnico.

All’interno di questo straordinario lavoro troviamo spunti di verde invidia per il migliore Dave Gahan, quello che si cimentò nell’incredibile opera di “Saw Something”. È come se i Dropeners avessero preso spunto da questa singola traccia, depurandola dall’eccessiva vena elettronica per poi ampliarla, estenderla e costruirci su un intero album. Ma non è tutto. Lo spazio artistico toccato è incredibilmente vasto: si sfiorano le corde dei Coldplay in “Lead Your Light”, appesantendole con i migliori Radiohead di OK Computer. Nel secondo capitolo (“You Don’t Know”) è possibile persino scovare un nonsoché di Gothic, di scuro, che lascia sovvenire alla mente vecchi ricordi di HIM e The Rasmus, light version. Ma i Dropeners non amano paragoni e non vogliono di certo essere la copia di mille riassunti e, nonostante riportino in vita questa scia di fine anni Ottanta, sanno bene come rinnovarla. Sfruttando, infatti, la propria conoscenza musicale e strumentale, si trasformano in polistrumentisti, riscoprendo in un’ottica del tutto nuova il sound sopra citato. Così, la voce e chitarra Vasilis Tsavdardis si cimenta in eccezionali imprese al synth e la chitarra di Francesco Mari sperimenta trombe e theremin (che gioca il ruolo di psicanalista nell’analisi introspettiva condotta dal disco), accompagnando perfettamente il basso di Enrico Scavo e le batterie di Francesco Corso. L’armonia è inevitabile, essendo che lo strumentale poggia direttamente sulla melodica voce di Tsavdardis, lunga, bassa e sempre in perfetto tono, accompagnandola lungo la stesura di ogni capitolo. Insomma dieci tracce di puro intelletto ed organicità, con tanto di ghost track, come non se ne vedevano da un bel po’. Potremmo andare avanti per ore, il disco fa parlare di sé come fosse parte di noi stessi. Penetra letteralmente nel più profondo dell’inconscio e ci lubrifica l’animo. È un lavoro che vale l’attesa, tutta. Signori, siamo innanzi ad un ottimo allievo. Stimolarlo a far di meglio potrebbe essere controproducente. Conosce i suoi obiettivi, sa chi è e sa dove vuole arrivare: nell’io di ognuno di noi. Nel mio ci ha messo le radici e nel vostro?

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Redline Season – Invictvs

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Usiamo l’immaginazione e ipotizziamo di trovarci a camminare su un terreno paludoso disseminato da sabbie mobili, muovendoci in punta di piedi nel tentativo di prevedere le trappole. Questo è lo scenario nel quale ci sembra di piombare all’ascolto di Invictvs, seconda fatica dei Redline Season. Non sono a conoscenza della relazione tra il nome della band e il brano “Red Line Season” dei These Arms Are Snakes , ma non trovo, a dir la verità, grosse distanze stilistiche tra i due gruppi. Sicuramente i cinque modenesi avranno assaporato quanto di buono fece il combo di Seattle in ambito Noise e Post-Hardcore, magari prestando un orecchio particolare a Tail Swallower & Dove, album in cui è appunto contenuta la traccia a cui accennavo poc’anzi. Le bordate iniziali “Fallacy” e “Deaf Heaven” (probabile che nel Paradiso dei sordi ci si finisca se spariamo ad un volume troppo alto Invictvs) ci conducono tra labirinti ipnotici e sortite in ambienti i cui strilli disperati paiono provenire dalle mura di un manicomio criminale. “Black Battles”, canzone che preannunciava l’uscita del disco, è un pelo più sotto controllo, pur cibandosi di quella specie di calma apparente persistente per tutta l’opera. Il doppio capitolo “Phoenix” si presenta dapprima come il classico pezzo riflessivo composto esclusivamente dalla voce pulita accompagnata dalla chitarra acustica (“Phoenix First”), per poi sorgere come una fenice (“Phoenix Last”) con una stizza ingovernabile degna dei migliori Jesus Lizard (veri numi tutelari del Noise negli anni ‘90).

La ricerca di un sound veramente nuovo sul territorio italiano è l’obiettivo che si sono autoimposti. Sono molto vicini alla meta. Così su due piedi l’unica somiglianza che mi viene in mente è quella con gli ormai sciolti Cut Of Mica, anche se il loro rumoroso Mathcore doveva parecchio agli Shellac, meno attenzione, quindi, alla forma canzone e maggior spazio ai suoni estremi del genere, feedback di chitarra compresi. Non è il caso di rovinare la festa a nessuno perché, a conti fatti, i Redline Season ci appagano, 40 minuti della nostra vita spesi più che bene.

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Time Zero – Silenzio/Assenso

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Sulle ceneri calde e al grido di battaglia “post fata resurgo”, i The Banditi rinascono sotto il nome di Time Zero con una rinnovata line up e un nuovo album Silenzio/Assenso. La band romana ha affrontato un cambio importante di formazione che ha coinvolto voce e batteria e portato alla realizzazione di un album innovativo, che disegna una nuova rotta musicale dalla forte impronta elettronica. Messe nel cassetto le sonorità balcaniche, del precedente lavoro, le otto tracce di cui è composto Silenzio/Assenso ci catapultano in un mondo fatto da synth, sequencer e drum machine, nel quale s’innestano decisi elementi Rock alla Nine Inch Nails. Le liriche asciutte e taglienti, a volte feroci, contribuiscono a creare atmosfere dark e dare un mood sfacciato a tutto il disco. Un Songwriting ragionato che li avvicina ai nostrani Subsonica nell’attenzione verso le parole, con uno sguardo improntato al contenuto e alle immagini evocate da un lato, e al suono e al suo impatto sul risultato complessivo dei brani dall’altro. Nella mezz’ora abbondante di ascolto il quartetto romano ci regala molti pezzi interessanti che propongono inusuali soluzioni Elettrorock. Prima fra tutte, “Soluzione” è l’assoluta hit dell’album, ritmica, travolgente, parte in sordina per poi esplodere in un riff contagioso, che non ti scrolli più di dosso. “Cane”al contrario è la più sporca, nervosa e cattiva, e insieme a “Prurito” sono i due brani in cui l’attitudine Rock del gruppo prende il sopravento sull’elettronica, grazie ad una massiccia dose di chitarra distorta. “Satellite” e “Cellula” mantengono alto il ritmo sintetico e il livello di ballabilità, ma con risultato meno aggressivo e nevrotico. Chiude bottega “Varietà”, che in scarsi tre minuti riassume tutto lo spirito dei Time Zero spettinadoci con un attacco al fulmicotone, per poi lasciarci con un mix elettro prog, ritmicamente rallentato. Silenzio/Assenso rappresenta un’ottima prova musicale, originale, anche se non priva di alcune incertezze o scivoloni in alcuni brani causati da suoni datati, un po’ troppo 90ties.  La scelta vincente è l’utilizzo della voce non distorta ed effettata, il timbro graffiante e metropolitano di Nicola Pressi crea e mantiene la giusta tensione che regge il gioco tra base elettronica ed elementi rock. Speriamo che questa rinascita possa rappresentare per i Time Zero una nuovo punto zero da cui costruire il proprio futuro.

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Aa. Vv. – Brescia C’è New Generation

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Prima di ascoltare un qualsiasi disco Punk (e derivati) italiano, soprattutto, bisognerebbe comprendere da che parte si sta. Non è cosa intelligente frazionare il mondo e ogni aspetto che lo contraddistingue, in categorie fatte di opposti eppure, in questo caso, dobbiamo captare se è e sarà nostra intenzione schierarci tra le fila dei nostalgici anni 70, convinti che il Punk sia morto ormai da anni e con esso le illusioni di ribellione e cambiamento oppure tra quelle di chi è convinto che in realtà il Punk, interpretato più come condizione mentale che come stile musicale, non sia mai morto e anzi sia impossibile da sopprimere, almeno finché ci saranno giovani ancora capaci di sognare e di opporsi. Una compilation come Brescia C’è New Generation può essere seguita senza pregiudizi solo da questi ultimi, cosa che non indica necessariamente dover essere ammaliati dalla musica che contiene. Del resto, il valore delle raccolte è circa lo stesso di quello che avevano tempo fa, quando erano allegate alle riviste, o ancor più in là negli anni, quando erano utili a mettere in mostra una marea di emergenti nel minor spazio fisico e uditivo possibile. Del resto, è più facile scoprire una qualsiasi nuova promessa attraverso queste trovate che non ascoltando intere discografie di band trovate a caso sul web, col problema anche di dover stanare, scrutare e sporcarsi le mani. Chi fa un lavoro come il nostro non ha complicazioni ma per un pubblico sempre più impigrito dalla “velocità” del web, scovare la next big thing rischia di diventare un’impresa inverosimile.

Ecco allora che Brescia C’è New Generation acquisisce un valore moderno per certi versi, anche se vecchio come la musica stessa nella realtà dei fatti. L’idea fondamentale è quella di mettere insieme ventidue band in ascesa o comunque non troppo note nel resto dello stivale, così da dare la possibilità a un pubblico più ampio possibile di farsi un’idea di quello che è lo stato di salute delle scene emergenti italiane, nel caso di uno specifico territorio e magari svestire qualche formazione degna di considerazione. A essere sinceri non c’è da aspettarsi molto a osservare l’estetica di artwork e libretto (comprensibilmente inesistente) ed anche la qualità non avvicina minimamente quella delle migliori uscite internazionali. Brescia C’è New Generation mette invece ancor più in evidenza un grattacapo che si fa sempre più critico e che ho avuto modo di rilevare anche durante diverse manifestazioni, contest, eventi nei quali ho potuto lavorare a stretto contatto con gli indipendenti e gli emergenti. Proprio il concetto d’indipendenza, tanto rivendicato a parole, mai si traduce concretamente in una proposta veramente originale, fuori dagli schemi, qualitativamente eccelsa e non solo sotto l’aspetto tecnico. Forse troppe sono le persone che decidono di provarci e il talento finisce per nascondersi. Non voglio con questo gettare fango sulle tante formazioni di tutto rispetto che compongono la compilation, su tutti i grandi punker Totale Apatia che in realtà poco avrebbero bisogno di farsi notare ancora ma non posso, per onesta intellettuale, negare che non siano molti i nomi veramente sopra la media, nel disco qui trattato. Non è il caso di scendere nei particolari perché la mole dell’opera e i tempi ristretti non coincidono, ma gli unici che forse sarebbe il caso di approfondire, oltre ai già citati Totale Apatia, paiono essere i Micro Touch Magics (Crossover), i French Wine Coca (Alternative Rock), i Coffee Explosion (Garage acerbo ma potenzialmente molto interessante, nella sua capacità di unire epoche lontane), La Cena dei Cannibali (assurdamente genialoidi e anche loro dal potenziale notevole), The Mugshots (evidentemente capaci anche, se il brano proposto non mi ha troppo entusiasmato). Non mancano inoltre band di tutto rispetto, come gli Under a Curse, gli Uprising o i DCP, che però seguono troppo i loro idoli e il loro stile, imitando senza scrupoli anche se non facilitati da generi difficili da rinnovare. Poi c’è chi si è proposto con registrazioni veramente improponibile e di scarsa qualità ma, in questo caso, il discorso sul “mettersi in mostra a tutti i costi” si farebbe troppo lungo e complesso. Meglio tornare ad ascoltare questi ventidue brani, alcuni bellissimi, altri grintosi, molti mediocri, pochi veramente difficili da digerire eppure certamente tutti onesti e fatti con cuore e anima, più di ogni altro brano che possiate aver ascoltato oggi sulla vostra Rds.

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7 Training Days – Wires

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Una conferma di come il Centro Italia sia sempre più una fucina di band promettenti e con ottime capacità.
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Rego Silenta – La Notte è a Suo Agio

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Prima prova sulla lunga distanza per i Rego Silenta, quartetto di Romagnano Sesia che ha presentato a gennaio il primo full length La Notte è a Suo Agio. Il disco completamente autoprodotto rappresenta, per i quattro piemontesi, la sintesi di quasi dieci anni di attività, dagli inizi come cover band, fino all’attuale formazione. Dieci anni di lavoro, live, sperimentazioni musicali e di generi tutti raccolti in quattordici brani, che danno vita a un lavoro molto ricco, probabilmente in maniera eccessiva, in cui si incrociano molte influenze diverse e una varietà di stili che, se da un lato sicuramente fanno emergere l’ottima padronanza e preparazione musicale del gruppo, dall’altra parte ne appesantiscono l’ascolto. La Notte è a Suo Agio può essere definito un concept album, che basa lo storytelling sulle tematiche legate al sogno e le divide in quattro momenti ben distinti: il dormiveglia, la sensazione di cadere, il diversamente incubo, infine nell’ombra.  Un taglio narrativo prevalentemente intimistico e noir, che predilige l’incubo, il tormento, i toni scuri e cupi della notte, alle candide nenie e alla dolcezza del riposo.

In questo viaggio onirico, tra stati d’animo in notturna, metafora di un più ampio percorso esistenziale, i Rego Silenta spaziano e attingono a piene mani dalla loro storia, passando dalla denuncia sociale di “Beni Primari” e“Può Essere Paura”, brani ispirati al Rock italico degli anni 90 degli Afterhours e dei Litfiba, all’apripista “L‘a(m)issione”, ballata Rock dal gusto più moderno sulla falsa riga dei Ministri. Proseguendo nell’ascolto troviamo il momento di rottura duro e crudo con lo Stoner di “Guardando in Terra Mentre Defecavo” e la psichedelia ipnotica di “Un Pretesto”, uno dei brani più toccanti, che con il recitato del cantante e un finale in crescendo che ricorda lo stile dei Massimo Volume. Passo falso nel Folk Balcanico con “Rumore” dove la massiccia aggiunta di fiati ci porta diretti in una piazza dell’Europa dell’est.Per fortuna lo scivolone rimane un episodio isolato e subito dopo siamo nuovamente riportati alle atmosfere Rock, più consone al quartetto, con “C’è una Menzogna” e il brano di chiusura “Elogio alla Banalità”. La Notte è a Suo Agio è un disco d’esordio nel complesso pretenzioso, soprattutto per lunghezza ed eccesiva varietà della proposta musicale. Un eccesso di zelo, di chi ha voglia di mostrare, per la prima volta, tutta la propria storia e le proprie capacità, ma che lascia, in questo modo, l’ascoltatore confuso e distratto rispetto all’intensità della scrittura e alla bravura dei musicisti.

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Medulla – Camera Oscura

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Il secondo disco dei Medulla, band milanese che si autodefinisce Dark Cabaret / Cantautoriale Disturbato, nei primi secondi rischia di farmi una prima impressione bruttina. Il primo brano, “La Bestia”, mi fionda in un mondo di Rock mescolato a tastiere gonfie e batterie energiche come schiaffi, con una voce bassa e lineare che ricorda quella di Francesco Bianconi dei Baustelle. Mi ci vuole un attimo per abituarmi alla costruzione sghemba dei Medulla di Camera Oscura, come quelle deformità architettoniche che sembrano poter crollare al primo alito di vento e invece poi noti che uno schema c’è, uno scheletro forte e resistente, una robustezza che pensavi di aver perso nelle linee storte del disegno generale.  I Medulla stanno in piedi, truccati e cupi nel loro mondo un po’ naif, dove ritmiche a metà tra l’alternativo italiano in salsa Ministri e le mode d’oltremanica sostengono una pasta di chitarre e (soprattutto) synth, pianoforti, con un gusto molto retrò che li fa sembrare fuori dal tempo. Camera Oscura passeggia ignaro sul filo di lama, tra attimi gustosi e interessanti (il ritornello di “La Bestia”, qualcosa in “La Polvere” che ha un riff che ricorda quello de “La Fine di Gaia” di Caparezza, la tranquillità iniziale di “La Tenebra”) e momenti di imbarazzo incosciente (ad esempio, i parlati, vedi proprio in “La Tenebra” o alcuni suoni che, nel migliore dei casi, paiono vecchi e stantii e fuori luogo come il riff iniziale  de “Il Coniglio”), probabilmente causati da un posizionamento a livello di mood che si basa più sul desiderio che sulla sostanza: per fare Dark Cabaret, ossia, per creare un lato teatrale e, in senso lato, atmosferico, che sia credibile, bisogna averne la capacità, e qui siamo alla sufficienza scarsa, niente di più. Magari è nel live che questo profilo riesce a farsi notare maggiormente (anzi, sono sicuro che sia così), ma qui stiamo parlando di un disco, e in Camera Oscura i momenti che si appoggiano su questo lato, purtroppo, sono momenti di piattezza, in un lavoro che comunque tenta di essere denso ed emotivamente intenso (alcuni passaggi de “La Notte”, ad esempio, possono tranquillamente immaginarsi sul palco di quel festival annuale che si tiene in Liguria, il che non è per forza un male). Anche sui testi si potrebbe lavorare di più: per fare qualcosa che si possa assimilare al cantautorato non basta fare dei testi intelligibili (questo è scrivere canzoni, lo fanno tutti). Se davvero si vuole scomodare la già di per sé scomoda e indefinita definizione di cantautorato, la ricerca (sia nella forma che nel contenuto) deve approfondirsi, e qui siamo senza dubbio sommersi, sì, ma vicini alla superficie.

Riassumendo, un disco prodotto bene, suonato altrettanto bene, che nel complesso sta in piedi e che a tratti sa anche essere convincente, ma che poi scade in mille piccoli particolari che sembrano improvvisati, o che vengono preparati con cura in teoria ma traditi dalla pratica. Con più focus e una scrittura più congeniale ai veri punti di forza della band (la voce calda, quando canta, le ritmiche piene, il pianoforte) poteva uscire un disco da gustarsi dall’inizio alla fine. Con Camera Oscura, così concepito, facciamo più fatica.

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L’Ordine Naturale delle Cose – EP

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Freschi freschi e appena nati, Stefano Cavirani (voce/chitarra), Gioacchino Garofalo (chitarra/basso), Mattia Amoroso (chitarra/basso), Enrico Cossu (viola) e Alessandro Aldrovandi (batteria) formano a Parma nella primavera del 2013 L’Ordine Naturale delle Cose, una band decisamente Alternative Rock fedele alla lingua italiana che é andata diretta in studio per registrare le loro prime quattro idee nate da questo incontro sonoro. EP si compone infatti di quattro brani che mettono in evidenza l’ottimo potenziale di questa band attraverso la loro evidente abilità nel creare una sonorità che li caratterizzi con arrangiamenti mai banali. Si parte con “Questa”, una traccia malinconica caratterizzata da un botta e risposta tra una viola alquanto depressiva che si contrappone a del cattivo Rock distorto; si continua con “La Volta Buona” invece maggiormente ritmica ed “Opaca”, forse il brano meglio riuscito di tutto l’EP anche grazie alle sonorità celtiche ben realizzate. Si finisce con “In Punta di Piedi”: calma tra arpeggi di chitarra e poi subito dopo incazzata e molto Linea77 dei primi tempi.

Purtroppo la voce di Stefano rimane soffocata un po’ in tutte le tracce non uscendo fuori come dovrebbe e come meriterebbe; questo molto probabilmente per una questione di mix (scusami Omid Jazi), ma considerando il breve tempo da cui il progetto L’Ordine Naturale delle Cose esiste il risultato del loro debutto è più che ottimale anche se forse troppo affrettato, perché date le potenzialità che si intravvedono ascoltando questo loro primo lavoro forse aspettare un po’ più di tempo per organizzare e sviluppare nuove idee non sarebbe stato male. Insomma, far uscire con calma un lavoro più studiato e meno immediato per presentarsi al mondo. Per chi volesse ascoltarli EP è scaricabile gratuitamente dal loro sito web, quindi buon ascolto!

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Egokid – Troppa Gente su Questo Pianeta

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Il tre è il numero perfetto. E gli Egokid tornano dopo tre anni dall’ultimo disco e giungono al terzo full length della loro carriera. Numeri importanti che creano una certa aspettativa con cui è difficile avere a che fare. Troppa Gente su Questo Pianeta apre con “Il Re Muore”, traccia cantautorale con un’impronta vocale alla Max Gazzè. “La Madre” è Indie Rock puro con le chitarrine plin plin, aperture ariose, tempi dilatati e poco slancio (purtroppo). Gli Egokid si apprezzano particolarmente nella terza traccia, “In un’Altra Dimensione”, con un arrangiamento introduttivo quasi da cantautorato Jazz alla Paolo Conte e fini inserimenti strumentali per brevi incisi melodici gustosi e reiterati con un certo autocompiacimento. Anche qui, però, il pezzo non aggancia l’attenzione.

Ne “Il Mio Orgoglio” echeggia la lezione di Miles Kane e in “Solo Io e Te” quella dei Muse, mentre “L’Alieno” è una ballatona delicata con un arrangiamento abbastanza scontato, costruito su una chitarra arpeggiata e lunghi accordi delle tastiere in sottofondo.  Il Pop Italiano, un po’ datato e dal sapore vintage è alla base di “Che Tempo Fa”, ma le troppe rime finiscono per svilire una canzone potenzialmente bella, fresca e frizzante. “Frasi Fatte” è il brano in cui il cantato mi ha convinto di più: è quasi un recitativo teatrale, come se il pezzo fosse estrapolato da un musical. Un certo gusto parodico si trova in “Non Balliamo Più”, siparietto elettronico all’interno di un disco Alternative e colto, come una citazione estemporanea di una certa Dance nostrana che decisamente (e fortunatamente) non c’è più. “La Malattia” ha un arrangiamento molto complesso e molto ben curato e reso, con un tono sommesso e battagliero che ricorda “Solo un Uomo” di Nicolò Fabi. Niente comunque, che basti per convincere che gli Egokid abbiano sfornato un disco che suggelli meritocraticamente la loro carriera. Troppa Gente Su Questo Pianeta è un album pregevole, ma poco accattivante, colto ed elitario ma poco coinvolgente, ben arrangiato e strutturato ma poco comunicativo. Davvero peccato.

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Cosmic Box – Last Broadcasting Station

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Un motto è una frase che descrive le intenzioni o le motivazioni di un gruppo; per i Ferraresi Cosmic Box le magiche parole sono anche il titolo del loro primo EP uscito nel 2010, Not Better, Simply Different. Dopo quattro anni da questa dichiarazione d’intenti  è arrivato il momento per loro di ributtarsi nella mischia con un nuovo lavoro L.B.S., Last Broadcasting Station. La domanda spontanea è: “saranno ancora i fieri rappresentanti di quelle quattro parole?”. Discograficamente parlando quattro anni non sono pochi e L.B.S. è un album più maturo e ricercato. Non spaventatevi, non ascolterete una versione ammuffita e decrepita dei Cosmic Box ma dieci brani sanguigni e d’impatto, che scorrono velocemente. Al primo ascolto si percepisce subito la distanza rispetto al lavoro precedente. Le novità che il quintetto ferrarese ha adottato sono varie e molteplici sia a livello tecnico sia di songwriting: la presenza di assoli musicali che danno corposità e spessore a brani come “Trough Skin & Bones”e “The Daily Work”, ritmi rallentati che esaltano le suggestioni come in “All the Things You Cannot Hide”, e una vera e propria ballad, nell’accezione più classica del termine, dalle atmosfere rarefatte e dal titolo criptico “66”.

Tutte queste innovazioni sul lato della composizione confluiscono in un generale cambiamento di fuso orario, che da un sound marcatamente ispirato all’immaginario British si sposta verso influenze a stelle e strisce, Incubus, Pearl Jam, The Strokes, Foo Fighters solo per citarne alcuni. La stessa voce del cantante Andrea Gnani ricorda molto nel timbro e nell’uso quella del poliedrico Brandon Boyd, in memoria, forse, del loro passato da cover band. Nonostante i cambiamenti i Cosmic Box non rinnegano completamente le proprie radici e includono nell’album anche brani come “New Way Home” e “Don’t Move”, in stretta sintonia col passato, dove chitarre distorte e batteria decisa ed essenziale dettano le regole del gioco, creando quell’allure rock anni 90 che, sebbene semplice nella melodia, garantisce una certa resa d’impatto. Tirando le somme, L.B.S.  è un disco che musicalmente rende bene e ha quel gusto internazionale che consente al quintetto di rompere gli argini della bassa pianura emiliana. La stessa operazione viene replicata anche sul piano testuale, esulando dagli standard produttivi di molti artisti italiani, che si ostinano a scrivere in una lingua che non gli appartiene. Insomma un disco da ascoltare e magari consigliare per una serata tra amici, che in queste righe ha ricevuto molti punti , ma che però è colpevole di un solo grande peccato: la mancanza di originalità e distanza rispetto ai propri modelli musicali. Andrea a compagni, probabilmente, in questo nuovo capitolo dovrebbero cambiare il loro motto in better, not so different.

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Entourage – Vivendo Colore

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Suonano compatti e caldissimi i tre Entourage nelle undici tracce del loro ultimo lavoro, Vivendo Colore, e non lo diresti: titolo, moniker, grafiche contribuiscono a creare un’immagine diversa da ciò che poi traspare dalla maggior parte dei brani di questo disco di Rock a tratti duro, ruvido (“Kronos”), ma che poi, trasformista, si alleggerisce, scopre lati ambientali nascosti e atmosfere aperte e avvolgenti (“Battiti”), per poi rimbalzare tra attimi Pop e elettricità vorticante (“Guru”).

Una doppia anima che forse è il punto di forza del trio siciliano, anche se, personalmente, vengo conquistato più dagli episodi ariosi e anomali (“Evoluzione”, “Prima Luce”) rispetto ai riffoni di “The Maya” o “Navarra”. Discorso simile per le liriche, che in “Tappeto Volante” hanno saputo trasportarmi in un mondo loro, tratteggiato con pennellate semplici ma allo stesso tempo coinvolgenti, mentre nel resto del disco gli Entourage diventano meno focalizzati e sembrano prestare molta più attenzione al suono che al significato delle parole. Una scelta che ha una sua dimensione e una sua ragione, ma che funziona in alcuni brani (quelli più energici e diretti) e meno in altri.

Vivendo Colore è un bel disco Rock che ci permette però, spesso, di toglierci da binari e da strade già troppo battute per entrare nel folto dell’erba o tra la polvere dei deserti, anche solo per cambiare aria e panorama. Gli Entourage, come dicevo, suonano compatti, caldi, consapevoli: il viaggio si farà, si farà comodo, e, nella giusta prospettiva, sarà anche un bel viaggio da ricordare.

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